sabato 5 aprile 2025

Un D'Annunzio inedito e suggestivo, viaggio ai Trulli di Alberobello nel 1917.

Di carteggi, biglietti, diari, epistolari Gabriele D'Annunzio (1863-1938) ne ebbe moltissimi tanto da essere definito un vero e proprio grafomane. Scriveva sempre e a tutti: alle amanti, ai familiari, agli amici, agli editori, ai compagni di vecchie avventure ma anche alla cuoca, all’autista. Usava portare con sé nelle tasche, ovunque andasse, veri e propri quadernetti per poter annotare, in ogni momento, qualsiasi osservazione e pensiero gli passasse per la mente. Dei luoghi amava riferire con minuzia tutti i particolari, ciò non gli impediva tuttavia la loro trasfigurazione da spazi reali a luoghi mitizzati. Anche nei i Taccuini quei paesaggi appena accennati, schizzati , disegnati o colorati, testimoniano tale mitizzazione. "I documenti sono tratti da “Impressioni pugliesi di Gabriele D’Annunzio” di Stefano Leone e dal Museo del Territorio di Alberobello.

IL VIAGGIO

Una delle sensazioni più suggestive è quella che il poeta , prova passeggiando tra i trulli di Alberobello cittadina inimitabile per la caratteristica presenza dei  trulli, (dal greco trullo: “cupola”) durante un viaggio in Puglia. Questo avvenne negli ultimi giorni di settembre del 1917 al tempo del volo per il bombardamento delle Bocche di Cattaro del 4 ottobre. Egli entrò nel trullo col numero civico 7, situato nella piazza a lui intitolata e così descrive lo stupore per lo straordinario paesaggio della Murgia, avvolto dalle strane costruzioni coniche: “all’improvviso nella valle d’Itria ecco spuntare case di fiaba, attendamenti di pietra nel terreno ondulato, innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenicio”. Vorrei stendermi per terra  in un "trullo" dalla volta d'oro e lì sognar”.

DAL PAESE AL POETA

Nel centro storico di Alberobello, (dal lat. Arboris Belli) nella piccola Piazza Mario Pagano, gli abitanti del paese hanno voluto rendere omaggio al ricordo dell’illustre figlio della regione abruzzese legata dai tratturi della transumanza alla regione Puglia.  A questo scopo è stata posta una gigantografia dal fondo rosso sfumato al centro dell’ingresso dei due trulli che costituiscono adesso il Museo del Territorio. In essa l’immagine del poeta con al fianco un passo tratto dai Taccuini nel quale Gabriele D’Annunzio descrive i luoghi magici della valle d’Itria . L’osservazione nasce da un momento di malinconia e di solitudine nel ricordo della sua terra natia che a tratti somiglia a quella che il poeta attraversa. Ne deriva una serena elegia che è una delle pagine più belle dei Taccuini.


Cronache di un viaggio, 1917.

“Partiamo per Brindisi in automobile. Lunga strada abbagliante, per una campagna di sete. Grossi borghi imbiancati. Gli olivi. Tra Alberobello e Locorotondo i paesaggi strani sparsi di trulli. Una specie di attendamento lapideo. I padiglioni conici di pietra, col fiore in cima. I trulli bruni e bianchi. I gruppi di coni. Penso ad una abitazione fatta di sette trulli con l’interno dorato, con le pareti di lapislazzuli, con i pavimenti coperti di tappeti arabi. Ad Alberobello la festa di Cosimo e Damiano, la festa dei Santi Medici. Carri pieni di pellegrini, processioni, musiche… Paese remoto come sogno, e come un’antica età. La via bianca tra muri e secco. Gli ulivi consorti, sui grossi ceppi, simili a quelli della baia d’Itea, di Delfo, di Egina; ulivi ellenici. L’erba arsiccia nell’ombra, color di velluto fulvo. Le pecore nere, le pecore dei sacrifizi  alle divinità di sotterra, che fuggono tra ombra e ombra. Qualche capro nero, dall’occhio giallo. Qualche stuolo di contadini seminudi, simili a certi gruppi di terracotta beotica, simili a certe figure dei vasi campani. Nella stanchezza mi addormento… Mi sveglio e vedo un paese di sogno, come se dormissi tuttavia. L’attendamento di pietra nel terreno ondulato. Gli innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenici. Lunghe nuvole rosee in cielo d’acquamarina. Le città bianche che s’innazzurrano nella sera. La luna pallidissima nel cielo limpido.”


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com






Muzio Attendolo Sforza il famoso capitano di ventura trovò la morte nel fiume Pescara.


Ottimo soldato e buon capitano, ma politico mediocre, fu spesso una pedina nel gioco dei pretendenti e dei favoriti del regno di Napoli. Attraverso i suoi matrimonî seppe incrementare e consolidare la fortuna che s'era creata con le armi; ebbe numerosi figli, di cui molti naturali poi legittimati. Figlio naturale fu il grande Francesco, futuro duca di Milano, natogli da Lucia Terziani.

LA VITA

Muzio Attendolo Sforza nacque a Cotignola il 28 maggio 1369 in Romagna, da Giovanni Attendolo ed Elisa Petracini. Passò alla storia con questo nome ma, ai suoi tempi, veniva chiamato Muzzo, da Giacomuzzo, furono i cronisti posteriori che, per nobilitarne la stirpe, arrivata al potere, trasformarono il popolare soprannome nel romano, nobile Muzio. Si narra che una sera del 1382 il giovane Giacomo, mentre stava zappando un campo, vide passare dei soldati della compagnia di Boldrino da Panicale  alla ricerca di nuove leve. Attratto dall'idea scagliò la zappa in alto, se essa fosse tornata a terra sarebbe rimasto se invece si fosse impiantata in un albero avrebbe seguito la compagnia. La zappa si impigliò in una quercia, Giacomo rubò un cavallo al padre e seguì i soldati. Iniziò così la sua carriera militare vera e propria come capitano di ventura di  Alberico da Barbiano che gli diede il soprannome Sforza per la sua capacità di rovesciare le situazioni a suo favore e in riferimento al vigore fisico. Si raccontava infatti che fosse in grado di piegare un ferro di cavallo con la sola forza delle mani. Si pose al seguito del re Ladislao, in guerra contro il pontefice poi si fermò nel napoletano e alla morte del sovrano nell’ agosto del 1414 rimase a servizio dell'erede Giovanna II. Nel 1417 il Papa chiese a Giovanna II l'invio di truppe per resistere a Braccio da Montone e Muzio Attendolo ne fece parte insieme al figlio Francesco. Nel 1418 fu nominato gonfaloniere della Chiesa e assunse il comando delle truppe pontificie. La sua avventurosa esistenza si concluse il 4 gennaio  1423, quando Giovanna diede allo Sforza l’ incarico di andare a soccorrere la città dell’Aquila che stava subendo l’assedio di Braccio da Montone. Muzio, nel tentativo di guadare il fiume mentre un suo paggio rischiava di affogare , spinse il suo cavallo nel fiume per salvarlo, ma essendosi le gambe posteriori del destriero affondate nella melma fangose, egli fu rovesciato dalla sella Il cavallo allora libero del peso giunse alla riva e il capitano sotto la pesante armatura, affondò nel fiume. Nessuno ritrovò il suo cadavere. Vi sono due dipinti in Abruzzo che ritraggono la scena dell’annegamento di Muzio Attendolo Sforza.
Il primo è un disegno che ritrae il luogo nel quale annegò il condottiero di ventura Muzio Attendolo Sforza all'inizio del 1424 e fa parte della serie di bozzetti realizzati nel corso dell'Ottocento da Consalvo Carelli riguardante paesaggi e monumenti abruzzesi. Si compone di tre parti: sullo sfondo alcune case ed un ponte sul fiume in lontananza, una torre cilindrica su una lingua di terra più vicina e, quasi in primo piano, due donne in costume che sostano presso il fiume dopo aver appoggiato un recipiente per l'acqua su un blocco di pietra. Attualmente è conservato presso la Pinacoteca Civica "Vincenzo Bindi" di Giulianova.

Il secondo è un dipinto a olio su tela  di Gennaro Della Monica conservato presso la Pinacoteca d'arte "Costantino Barbella" di Chieti. Il pittore ha inteso rappresentare il singolare episodio conferendogli un tono romantico, accentuato dalla colorazione cupa e dalle luci crepuscolari.



Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

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Singolare Anedotto di D'Annunzio Burlone: Giovinetto.


Gabriele d’Annunzio e la sua sorellina Annina da giovinetti erano molto belli e rassomigliavano molto alla madre anch’ella dai tratti dolci e amorevoli. Gabriele era spiritoso, eccessivo negli scherzi e cavilloso nei giochi ed anche un po’ superbo specie la domenica quando Donna Luisa gli metteva il vestito nuovo, l’orologio e la catena d’oro per portarlo a messa ed a passeggio insieme al domestico Gennaro. Nel 1874 all’età di undici anni entrò nel collegio Cicognini di Prato per volere del padre che aveva intuito le eccezionali potenzialità del figlio. A questo proposito il poeta disse «La providenza di mio padre che mi vietava la barbara terra d'Abruzzi finché non fossi intoscanito incorruttibilmente». Dal suo luogo di studio scriveva spesso ai compagni ricordando loro le violente battaglie con sciabole e fucili di legno che ogni sera facevano sui bastioni della Fortezza. Scriveva continuamente ai genitori e ogni mese mandava una lettera al maestro delle elementari Giovanni Sisti, il quale le leggeva in classe e diceva “Questo è un alunno che mi fa onore voialtri dovreste prenere lo zufolo ed andare a pascolare le pecore”. Nel giugno del 1875, dopo aver superato gli esami della seconda ginnasiale, Gabriellino tornò in vacanza nella sua città.

Arrivò a Pescara vestito da convittore: sembrava un ufficialetto degli ussari ungheresi: giubba nera con due file di cinque bottoni di stoffa nera e, tra un bottone e l’altro in senso orizzontale tanti cordoni di seta nera. La madre commossa, nel vederlo così bello scese velocemente giù per le scale per abbracciarlo e baciarlo cento, mille volte. Prima che si cambiasse d’abito che gli stava molto bene, Donna Luisa mandò a chiamare tutti i suoi amici ed in un momento la casa si riempì. Vennero Vittorio, Ciccillo e Achille Pepe, Pasquino, Alfredo, Levino, Fermina e la bionda Diletta Menna, Nicolla De Marinis che sposò la sorella di Gabriele Annina e altri amici. Mancava solo la bella Mariannina Cortes, dal bel viso e due grandi occhi che la facevano rassomigliare alla Fornarina, che il poeta amava molto sin da bambino. Ad un tratto, mentre Donna Luisa offriva paste e liquori come in una festa, a Gabriele venne in mente una delle sue diavolerie solite. Si assentò dalla conversazione senza farsi scorgere, chiamò la cameriera e con lei andò in cantina per trovare, tra legna e botti, dei grossi scorpioni, poi pregò la donna d’infarinarli subito e di friggerli.


Appena pronti Gabriele li mise in un piatto ed andò ad offrirli alle signorine che credettero a qualcosa di buono, i suoi compagni, invece, conoscendolo capirono subito che si trattava di un “brutto tiro”, li rifiutarono e si misero a ridere, le ragazze allora si resero conto del tremendo scherzo e, terrorizzate, buttarono a terra quel buon fritto di scorpioni.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

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La Benedizione delle uova pasquali: tra rito e storia.


La tradizione religiosa ha sempre considerato l'uovo come il simbolo del dischiudersi della vita nella stagione di primavera quando la natura si ridesta e si rinnova. Questa espressione della pietà popolare, propria sia dell'Oriente che dell'Occidente, si riflette nella consuetudine di benedire le uova nel giorno di Pasqua. Il gesto semplice ed umile porta nell'ambito familiare il messaggio della risurrezione e della vita nuova in Cristo, che investe l'uomo e la natura. La benedizione delle uova, tradizione molto sentita in Abruzzo, avviene ancora adesso: i sacerdoti di alcuni paesi fanno il giro delle case per prendere le uova da benedire e molti abitanti si recano essi stessi alla prima messa, con una mappina  ripiegata ai quattro pizzi  all’interno della quale pongono un piatto pieno di uova lesse tenute strette da un nodo. Fino a tempi non molto lontani da noi, ogni famiglia donava ai  sacerdoti, in occasione della visita fatta alle case, una piccola quantità di uova fresche. Di ‘uova colorate’, dipinte con varie tinte vegetali, si parla in un documento della prima metà del XIII secolo, quando nelle nostre contrade regnava l’ imperatore Federico II di Svevia.

Il documento venne stilato nel 1276 (26 anni dopo la morte dell’ Imperatore) nel Monastero di Santa Maria di Cinquemiglia, sito nel medio corso del Sangro, e reso noto dallo storico Giuseppe Celidonio nel III volume dell’opera “La Diocesi di Valva e Sulmona”. L’Autore scrive che nel giorno di Sabato Santo il Monastero di Santa Maria di Cinquemiglia, tramite il suo Bajulo, mandava a ritirare presso gli abitanti dei Casali  soggetti all’Abbazia “uova lesse et pinte “ed ogni Casale era contraddistinto da un particolare colore, espediente questo che serviva come promemoria all’Abate per controllare l’avvenuto pagamento, da parte dei ‘villici’, delle prestazioni dovute  al Convento. Dallo storico Antonio De Nino apprendiamo che in epoche più recenti, quando la povertà era di casa nelle nostre contrade, si prestava di tutto anche le uova, “le quali si misuravano in un cerchietto di ferro “ e quando si dovevano restituire esse dovevano avere lo stesso diametro di quelle avute in prestito. D’inverno, scrive sempre il De Nino, quando la famiglia era riunita attorno al camino e la cena, come al solito, era stata magra per tutti, si organizzava il giuoco chiamato “spacca l’uovo”. Un uovo sodo e sgusciato veniva sistemato dalla persona di casa più anziana in un punto del tavolo della cucina e ne diventava padrone l’esponente della famiglia che, bendato e fatto girare più volte su se stesso per fargli perdere l’orientamento, riusciva a tagliare l’uovo con un solo colpo di coltello. Antica e originale è anche l’usanza dell’ ammaccatura  dell’uovo sodo. Il giuoco si svolge tuttora nella piazza principale di Spoltore (Pescara) fra due concorrenti che, nella mattina di Pasqua, si affrontano con il proprio uovo sodo in mano, non sgusciato, e lo tengono ad una distanza di circa 2 cm l’uno dall’altro. Vince la singolar gara quello che per primo riesce ad ammaccare con un solo colpo l’uovo dell’altro e ne diventa in tal modo possessore.

BENEDIZIONE ALLE UOVA A PASQUA (secondo il Benedizionale CEI) Rito breve

Il ministro inizia il rito dicendo:

V. Sia benedetto Cristo, nostra Pasqua. [Alleluia.]

R. Ora e sempre. [Alleluia.]

Quindi, secondo l'opportunità introduce il rito di benedizione con brevi parole. 

Poi uno dei presenti legge un brano della Sacra Scrittura:

Rm 6,4. "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova."

2 Cor 5,15-17: "Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove."

Ef 4,22-24: "Fratelli, dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera."

1 Pt 3, 15: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi".

Quindi il ministro dice:

Preghiamo. Tutti pregano per qualche momento in silenzio. 

Il ministro, con le braccia allargate, prosegue: Benedetto sei tu, Signore del cielo e della terra, che nella radiosa luce del Cristo risorto ridesti l'uomo e il mondo alla vita nuova che scaturisce dalle sorgenti del Salvatore: guarda a noi tuoi fedeli e a quanti si ciberanno di queste uova, umile e domestico richiamo alle feste pasquali; fa' che ci apriamo alla fraternità nella gioia del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore, che ha vinto la morte e vive e regna nei secoli dei secoli.

R. Amen.

Quindi il ministro asperge con l'acqua benedetta i presenti e le uova dicendo queste parole o altre simili: "Ravviva in noi, o Padre, nel segno di quest'acqua benedetta il ricordo del nostro Battesimo e l'adesione a Cristo, crocifisso e risorto per la nostra salvezza".


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email:mancinellielisabetta@gmail.com



Le tradizioni popolari in Abruzzo.


L’etimologia del termine “folklore” deriva dall’unione di due parole di antica origine sassone: “folk” popolo e “lore” sapere, sapere del popolo. Lo studio e l’interpretazione delle tradizioni popolari in Abruzzo sono iniziati ad opera di studiosi che ne avevano intuito l’importanza molto tempo prima che Gramsci così definisse il folclore: “non una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola ma una cosa molto seria. Finora il folclore è stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco, occorrerebbe studiarlo invece come concezione del mondo e della vita”. Uno dei padri delle tradizioni popolari si deve ritenere il medico siciliano Giuseppe Pitrè che iniziò il lavoro di raccolta, studio ed interpretazione del folclore con la creazione della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. 

Egli uscì dai confini della sua isola e si relazionò con altri studiosi tra cui l’eminente antropologo Gennaro Finamore (Gessopalena 1836-1923) che per primo sistemò organicamente la cultura popolare abruzzese; anch’egli medico, proprio dall’esercizio della sua professione ebbe il primo impulso a raccogliere i documenti della vita popolare della nostra regione. I suoi due volumi “Curiosità e credenze “costituiscono il corpus più completo delle tradizioni regionali: materiale relativo a credenze, consuetudini, superstizioni, norme di medicina popolare. Suo contemporaneo e altro studioso del folclore abruzzese fu Antonio De Nino ( Pratola Peligna 1832- 1907) che si dedicò agli studi demiologici e linguistici contenuti nella sua raccolta “Tradizioni popolari abruzzesi” che fu definita letteraria in contrapposizione a quella dello scientifico Finamore. Un saggio di questa tipologia di studi è il racconto “La gallina nera” ispirato alla credenza popolare secondo cui la cresta della gallina nera guarisce dal mal di testa. Anche il sulmonese Giovanni Pansa (1865-1929) legò il suo nome ad importanti ricerche relative a superstizioni e miti abruzzesi. I suoi due volumi “Miti e leggende e superstizioni d’Abruzzo” sono ritenuti fondamentali per gli studi etnografici regionali. Il Pansa si è dedicato nello specifico al culto delle grotte, delle pietre miracolose e alle usanze devozionali nei pellegrinaggi in particolare agli ‘strofinamenti rituali’ nei confronti dei quali lo studioso mostra uno spirito interpretativo all’avanguardia ritenendo queste antiche pratiche, ancora esercitate in qualche santuario, finalizzate ad ottenere un contatto completo con la divinità dalla quale ci si aspetta di ricevere guarigioni e grazie.

Domenico Ciampoli (Atessa 1852-Roma 1926) narratore e saggista fu un fecondo scrittore di fiabe e racconti in stile verista ispirati alla tradizione folcloristica abruzzese e, anche se non fu un vero e proprio studioso, trascrisse leggende e credenze della vita popolare del proprio tempo. Nella sua raccolta “ Fiabe abruzzesi” descrive il mondo agropastorale, le celebrazioni votive del mese di maggio in onore della Madonna e le consuetudini magico-sacrali legate al matrimonio.

CREDENZE POPOLARI, RITI E PRATICHE MAGICHE

Dalle ricerche e dagli studi compiuti da questi padri del folklore e delle tradizioni popolari sono venuti alla luce tutta una serie di documenti riguardanti i riti di magia, le superstizioni e le terapie naturali dei tempi passati. Tante erano le pratiche magiche che avevano lo scopo di scongiurare gli eventi da ogni influsso negativo proveniente dal soprannaturale. Queste riguardavano tutti gli aspetti e le tappe della vita umana secondo un ritmo cadenzato del tempo: la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la morte. Numerose erano le credenze popolari che accompagnavano la nascita di un bimbo e i suoi primi anni di vita, si tratta in genere di una serie di precauzioni miranti a tenere lontano i mali, da quelli reali a quelli “magici”. La necessità di protezione da quanto può provocare danno anche da un’occhiata invidiosa, causa di malocchio, si spiega con il fatto che la venuta dei figli era considerato segno della benevolenza divina in Abruzzo come in tutto il centro Sud. Antiche usanze al riguardo erano il divieto di baciare il bambino prima del battesimo e quella di appendere alla camicina del neonato cornetti , oggetti d’oro e d’argento a forma di cuore. Molti erano gli scongiuri per i mali dell’infanzia dalle forme di incantesimo per la verminara e il Fuoco di Sant’Antonio ai riti per la propiziazione del buon afflusso del latte materno con il ricorso all’acqua “terapeutica” di alcune fontane considerate miracolose, dedicate alla Madonna a Santa Scolastica e Santa Eufemia. Riguardo il fidanzamento e gli usi nuziali vi erano norme particolari nella scelta della sposa , la richiesta ai genitori, il trasporto della dote, il canto della partenza, il pianto rituale della madre per il distacco dalla figlia. Ma un momento importante era rappresentato dal trasporto della dote nuziale: venivano scritti veri e propri contratti tra i genitori degli sposi nel corso di lunghe riunioni alla presenza di testimoni. Il trasporto avveniva il un lungo corteo di carri addobbati in cui la biancheria veniva esposta in modo che tutti ne potessero ammirare merletti e ricami. In alcuni paesi vi era l’usanza di seguire gli sposi in corteo dopo il rito religioso e creare barriere di nastri colorati con cui i partecipanti sbarravano il cammino al seguito nuziale che potevano venire tagliati dallo sposo solo dopo il pagamento di un metaforico pedaggio in dolci, confetti e denaro.

La festa comportava la partecipazione di tutto il paese e le più antiche costumanze vogliono che il banchetto nuziale considerato un vero e proprio rito di aggregazione, si tenesse a casa della sposa e durasse molte ore. Esso era rallegrato da canti e brindisi che inneggiavano alla bellezze della sposa, auguravano ricchezza e abbondanza soprattutto di figli e tessevano complimenti per il cibo e il vino. Le usanze legate alla morte secondo arcaiche tradizioni comportavano tutta una serie di rituali dopo la constatazione del decesso. I familiari del defunto interrompevano il lavoro, non dovevano pulire la casa e stare in silenzio. Al trapassato venivano fatti indossare gli abiti migliori, le mani gli venivano giunte sul petto e gli si metteva una moneta in bocca o in tasca che gli doveva servire perché si potesse pagare il tragitto verso l’aldilà. La bara veniva corredata di tutti quegli oggetti che furono in vita cari all’estinto, cappello, pipa, bastone, attrezzi per la barba. Largamente in uso era il pranzo funebre, chiamato “consolo” preparato da parenti ed amici della famiglia dell’estinto a scopo consolatorio.

Terapie naturali dei nostri nonni

Gli abruzzesi per secoli per curarsi hanno ricorso alla cosiddetta “farmacia del buon Dio” cioè alle erbe e ad altri prodotti naturali. Si trattava di ricette molto diffuse tra il popolo e alla portata di tutti a base di sambuco, rosmarino, salvia, menta, camomilla, vino che venivano usati come veri e propri medicamenti. Per ogni malattia c’erano almeno cinque erbe a curarla. L’acqua del fiore di sambuco era considerata un rinfrescante, l’infuso di rosmarino misto a vino fermentato era usato per purificare le gengive e profumare l’alito, il succo delle rose veniva ritenuto un ottimo aperitivo, mentre quello delle viole un efficace purgativo.

I distillati di fiori di sambuco, di finocchi e di salvia servivano per lenire il male agli occhi, mentre il mal d’orecchi si curava con succo di zucca unito ad olio. Per far maturare i foruncoli si usava un miscuglio di farina di miglio, mentre l’impasto di farina di fave serviva a curare le piaghe. Per lenire gli arrossamenti dei lattanti si spalmava olio d’oliva talvolta mescolato con cipria. Il male alle ginocchia si curava applicando stoppa imbevuta di vino nero.

Il singhiozzo si debellava sorseggiando lentamente uno sciroppo di papaveri misto ad orzo, il succo di ciclamino serviva invece ad arrestare un’emorragia nasale, infine le piume di pioppo, raccolte a suo tempo, sostituivano il cotone idrofilo.



Saponi e detersivi di un tempo.

Le casalinghe di un tempo portavano a lavare lenzuola, federe e tovaglie al fiume le sbattevano contro i sassi e poi le stendevano al sole sui prati finchè non acquistavano il candore ed il profumo caratteristico del bucato di un tempo.

Il sapone per lavare la biancheria si ricavava da lunghi e pazienti procedimenti. Si mettevano, in un sacco appeso ad un chiodo della cucina o del fondaco, cenere, legna e calce miste ad acqua che si aggiungeva di tanto in tanto. Il liquido che da esso gocciolava, che aveva forti proprietà detergenti, veniva raccolto in un recipiente e poi, mescolato ad olio d’oliva di scarto ed a grassi di maiale, veniva fatto bollire fino ad ottenerne un miscuglio pastoso e sodo. Una volta raffreddato veniva tagliato in pezzi di sapone. La liscivia veniva ricavata dalla decantazione della cenere di legna nell’acqua bollente e poi usata in dosi misurate per mettere in ammollo la biancheria sporca. Un altro lavoro che richiedeva fatica e pazienza alle massaie di un tempo era la lucidatura dei recipienti di rame: conche, pentole, tegami, bracieri e scaldini. Specialmente in prossimità delle feste le donne di casa toglievano a questi recipienti la patina scura strofinandoli con sabbia bagnata e poi con aceto e sale risciacquando alla fine con acqua e sapone. La sabbia, il sale e l’aceto erano usati quotidianamente dopo ogni pasto nel lavaggio di pentole e posate per farle tornare nitide e terse.


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli.

e.mail: mancinellielisabetta@gmail.com

I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato, da “Il carnevale tradizionale abruzzese” di Francesco Stoppa; da “Folklore abruzzese” Lia Giancristofaro e da “Abruzzo” di Luciano Verdone.

Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci