venerdì 18 settembre 2020

ANTICHE FESTE E DIVERTIMENTI A PESCARA


Sin dall’1800, da documenti ufficiali, quali gli archivi della Polizia di Chieti e i programmi di festeggiamenti organizzati dal Comune di Pescara, si hanno notizie di feste, festicciole, inaugurazioni molto frequenti nella vita della città. 
Una delle prime testimonianze ci proviene dalle memorie postume del tenente francese Remy d’Hauteroche che fu a Pescara per qualche tempo nel 1806 con l’esercito conquistatore. Egli attesta che, nel febbraio del 1807, in occasione del primo anniversario dell’entrata dei francesi nel regno di Napoli,  la città fu allietata dai consueti fuochi di artificio, dalle esibizioni della banda musicale e dal  lancio di palloni aerostatici. Ma rimase colpito da una singolare gara  che era la passione dei pescaresi dell’epoca: il combattimento fra un toro reso furioso e vari cani. Non c’era festa in cui non se ne organizzasse una, pur trattandosi di un gioco molto pericoloso, tanto che  narra di  non aver mai assistito ad un combattimento senza disgrazie. L’animale veniva prima eccitato con pungoli e petardi quindi spinto tra la folla stipata senza alcuna protezione ai margini della piazza, trattenuto da una semplice corda legata alle sue corna e retta da un solo uomo. Poi gli venivano aizzati contro cinque o sei grossi cani e lo scontro finiva quasi sempre con la morte di qualcuno di questi e il ferimento del toro, cui seguiva il colpo di grazia inferto da un macellaio.


Il tenente d’Hauteroche riferisce con altrettanto stupore, sempre nelle sue memorie, anche di un altro svago particolare dei pescaresi una varietà del gioco della ruzzola: una gara di lancio di un disco per mezzo di uno spago attorcigliato intorno allo stesso alla maniera degli antichi romani. Ma la cosa che lo colpiva maggiormente era che il disco era una pizza di durissimo formaggio tanto duro da non poter essere mangiato, ma solo grattugiato, il quale diveniva di proprietà di chi lo avesse lanciato più lontano. Questo gioco veniva praticato più che a Pescara a Castellammare, come risulta anche da un articolo del Regolamento di Polizia Urbana del 1885, in cui insieme al gioco del formaggio vengono vietati nelle pubbliche strade anche il gioco della “rotola”, e quello a palle di ferro o di legno.

Altre testimonianze ci pervengono dall'archivio di polizia di Chieti e precisamente dalle  richieste di autorizzazione ai festeggiamenti che dovevano essere concessi dal Sindaco purché i divertimenti non turbassero l’ordine pubblico. Si apprende da questa fonte  che  il 13 e il 14 giugno 1818 la città fu allietata da fuochi di artificio, da 1500 colpi di mortaio, da un’intera banda musicale, dal lancio di due palloni aerostatici, da una corsa di  cavalli barberi, dalla illuminazione e da quello che le carte definiscono “uno steccato di tori” che era proprio il combattimento già citato tra un toro e vari cani.

Sempre dall'Archivio di Polizia provengono le testimonianze dei festeggiamenti che il 12 novembre 1826 furono organizzati dalla  congregazione  del SS. Sacramento in onore della  Madonna del Patrocinio. Anche in questa occasione vi furono: fuochi di artificio, corse di cavalli, regate di battelli sul fiume, lancio di palloni aerostatici, illuminazione e bande musicali oltre le cerimonie religiose e la processione.

Per la festa di San Cetteo del 1828 si ha notizia che  il sindaco chiese l’autorizzazione per rappresentazioni sacre relative al martirio di San Valerio, S. Pietro Martire, S Giorgio, S.Agnese, S. Dorotea, S. Bonifacio e S. Sebastiano che si svolsero su due palchi posti in mezzo alla piazza grande nel momento in cui vi giungeva la processione con la statua del protettore.        

Queste rappresentazioni consistevano in pantomime interpretate da persone del luogo vestite con abiti adatti alle stesse.



Anche per il 1842, e precisamente  il 12 e il 13 novembre, abbiamo notizia di una festa in cui la Congregazione del Sacramento onorò la Vergine del Suffragio con banda, fuochi di artificio, corse di  cavalli barberi e altri divertimenti popolari ritenuti leciti.

Nel 1843 risultano promossi festeggiamenti in onore della Madonna del Fuoco e della Madonna del Carmine con processioni, lancio di mortaretti, banda musicale e altri divertimenti. Per il 1844 dalle fonti risulta che la festa in onore di San Cetteo fu  molto più ricca del solito in quanto, oltre alla processione, banda musicale, spari, fuochi di artificio e globi aerostatici, vennero organizzate gare di canotti e cuccagne sul fiume.

La banda musicale non mancava mai di allietare le feste a Pescara tanto che, nell'aprile del 1847, l’organizzatore e maestro Biase De Francesco chiese un sussidio di 200 ducati al sovrano per averne una propria.  Essa fu istituita e, anche se ebbe difficoltà per le spese di  mantenimento, non si sciolse e, come risulta   dalle carte dell’ufficio di  polizia  alla quale si doveva chiedere l’autorizzazione per esibirsi fuori Pescara,  era  attiva nell'estate del 1958, quando suonò a Casoli di Atri e  Montesilvano.  

Pescara, alla metà del 1800, secondo un articolo del giornalista napoletano Cesare Malpica, essendo una fortezza regia, era rallegrata spesso anche da riviste militari, spari e fanfare in occasione delle feste di corte quali: nascite, compleanni, e onomastici di sovrani, principi e principesse. Il giornalista, presente a Pescara il 4 ottobre 1843, giorno dell’onomastico del principe ereditario Francesco, descrive una magnifica  scena dell’evento tra squilli di trombe, fanfare e suono di campane che dettero vita alla città. Mentre le donne si affacciavano timidamente alle finestre gli uomini facevano ala sulla via a ufficiali e soldati  che,con le splendide uniformi gialle e verdi, le spalline e le gorgiere d’oro, presentavano uno spettacolo magnifico.

La festa celebrata il 30 maggio 1851 per l’onomastico del re Ferdinando, secondo la relazione dell’Intendente, fu molto ricca anche di manifestazioni tipiche delle feste religiose. Essa durò tre giorni con esibizioni di bande musicali, cuccagne, corse di battelli sul fiume, lancio di globi aerostatici, fuochi di artificio spari a salve a cui si aggiunsero gli spari di gioia della truppa di guarnigione schierata a far bella mostra di sé nella piazza. Nella relazione viene ricordato che vennero distribuiti ai poveri danari e molto pane: donazioni che del resto erano elargite sempre in simili occasioni sia dal Comune  sia col concorso di offerte volontarie. 

“Nei tanti lunghi giorni senza feste di santi, onomastici e compleanni dinastici da solennizzare la silente Pescara offriva solo taverne e caffè ai più e il circolo degli ufficiali ai pochi. Non per questo mancava il buon umore e  la voglia di ridere e di far ridere, voglia che metteva in allarme i responsabile dell’ordine pubblico”. (Luigi Lopez)

Due grandi manifestazioni rimangono negli annali della storia della nostra città: le Cinque giornate di Pescara del 1922 e la Settimana abruzzese del 1923.

 

Le Cinque giornate, che si svolsero dal 19 al 23 agosto, ebbero come gerente responsabile Zopito Valentino che chiuse l’evento con un deficit di 91.000 lire, in quanto risultarono insufficienti i contributi procuratigli dal suo compaesano di Loreto Aprutino Giacomo Acerbo, tanto che egli dovette emigrare alla ricerca di fondi tra le comunità italiane d’America.

Si celebrarono, con maggiore consistenza a Pescara ma anche a Castellammare, con  gare di canzoni, esibizioni varie e con l’intervento di 150 fanciulle, 40 musicanti, 20 paranze e 40 carri. Ogni carro era abbellito da festoni e rami fioriti,  e dipinto di rosso e di azzurro con la collaborazione di pittori illustri tra cui Basilio Cascella e figli. Era tirato da una coppia di bianchi giovenchi e  recava belle giovinette nei costumi sfolgoranti di ori e broccati che cantavano accompagnate da strumenti popolari organetti, cornamuse, ocarine, mandole.

Ermindo Campana, in un articolo sul Corriere della sera, pubblicò un articolo corredato da fotografie della sfilata delle paranze, dei costumi di Caramanico e di altri paesi, del fiume Pescara al tramonto e di qualcuno dei carri. Il giornalista ci offre una particolare descrizione della manifestazione menzionando tra l’altro la rievocazione delle antiche danze popolari: la cappuccinella, la lavandaia, e il salterello a tre, ballate dal gruppo di Vasto che mandò in visibilio il pubblico che gremiva la sala. “La lavandaia, precisa il Campana, era tutto un ricamo di arguzie e di gentili allegorie, canto e pantomima e tutta una serie di prove che la donna esigeva dall'uomo prima di concedersi a lui per la danza”. 

Ricorda anche  la presenza di ragazze e di giovani venuti a rappresentare il proprio paese da ogni angolo dell’Abruzzo, alloggiati in numero superiore alle normali disponibilità a Pescara e a Castellammare, che risuonavano dovunque e continuamente di ritornelli al chiuso e all'aperto, nei caffè e negli stabilimenti  balneari  e conclude “Mai come in quei  cinque giorni rifulse così bella al sole la mole eterna  della Maiella  e del Gran Sasso”.

 


La Settimana Abruzzese
   si svolse dal 19 al 23 agosto dell’anno successivo ed ebbe come patrocinatore Giacomo Acerbo, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che, non solo procurò cospicui sussidi dal governo e dalle Confederazioni di Industria e Commercio, ma convinse il duce a intervenire per passare in rassegna le otto legioni abruzzesi. Comunque, a parte l’aspetto sicuramente propagandistico del fascismo che si servì di questo evento  per l’ostentazione del proprio successo e la creazione dei consensi alla propria ideologia, fu una vera festa popolare di tutti gli abruzzesi, una rassegna della loro operosità e della loro cultura. Mussolini  giunse alla stazione ferroviaria e, scortato, raggiunse Piazza I Maggio e dal Padiglione Marino (o Kursaal) annesso al Teatro Pomponi, parlò alla folla dichiarando che “l’Abruzzo era il cuore pulsante della Patria e che fervida era la passione, altissima la fede”. Nel pomeriggio fu accolto nel Circolo Aternino decorato a festa e  poi  si recò a visitare la casa di Gabriele D’annunzio  a pochi passi dal Circolo. Tornò quindi a Castellammare per assistere alla sfilata dei carri e la sera fu al Kursaal  per la serata di gala. 
Il corteo dei carri era composto da oltre 100 elementi di cui: 5 di Pescara, 5 di Castellammare, 5 di Sulmona adorna di confetti  e 6 di Orsogna con 80 giovani nei costumi della Maggiolata Abruzzese e altri provenivano dal Molise, dal Chietino e dall'Abruzzo interno. Essi erano adorni di festoni, di papaveri, di alloro o di edera e covoni di grano e carichi di fiorenti ragazze nei costumi tradizionali (quelli di Villa Badessa in costume albanese) tutti trapuntati d’oro.  Partiti da Largo Pomponi, percorsero Corso Umberto, Corso Vittorio, il ponte di ferro e arrivarono a via Conte di Ruvo dove seguì la rassegna degli ori e dei costumi. Vi fu anche la  caratteristica sfilata delle paranze giunte da Giulianova, Silvi Marina, Pescara, Ortona e Vasto che si svolse costeggiando da nord e si concluse sul fiume.  Aggiunse allegria alla settimana festaiola l’esibizione di bande musicali, ogni giornata fu chiusa da fuochi d’artificio tutti alla foce del fiume sulla sinistra. Si disputarono anche gare sportive di vario genere: una motociclistica, una automobilistica, un torneo di calcio, incontri di pugilato di scherma, di pallacanestro, tiro alla fune e ciclismo. Non mancò la tombola di 50000 lire.

La Settimana Abruzzese, che richiamò gente da tutto l’Abruzzo, divagò la folla di turisti e costituì un motivo di richiamo  per gli anni successivi, anche se la qualificata ma costosa kermesse,  sostituita dalla Coppa Acerbo, non fu più ripetuta.

Queste alcune delle manifestazioni  che animarono,  tra il 1800 e il primo trentennio del 1900, la nostra città dalla vocazione sicuramente vivace e festaiola. Circa un secolo dopo, il grande Ennio Flaiano così scriveva della sua città: “Ciò che mi ha sempre colpito nella Pescara di allora era il buonumore delle persone, la loro gaiezza, il loro spirito. Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza ,la pietà cristiana, la benevolenza dell'umore ,la semplicità e la franchezza nelle amicizie” 

Ricostruzione storiografica a cura  di Elisabetta Mancinelli. 

 e-mail : manicinellielisabetta@gmail.com

I documenti e le immagini  sono tratti da: Pescara di Luigi Lopez; Archivio di Stato di Chieti; Archivio di Stato di Pescara; Pescara forma, identità e memoria della città fra XIX e XX secolo di Paolo Avarello, Carlo Pozzi e Antonello Alici e  Pescara a colori  della Fondazione Caripe Carsa Edizioni.

venerdì 4 settembre 2020

INCONTRO DI ETTORE E ANDROMACA NEL VI CANTO DELL’ILIADE


Commovente e tenero passo in cui viene descritto da Omero il momento dell’incontro tra Ettore e Andromaca e il figlioletto Astianatte in cui emerge la contrapposizione tra l’etica femminile e quella maschile. Ettore crede sia meglio anteporre alla famiglia l’onore della guerra e l’amor patrio, mentre Andromaca, dall'animo sensibile, ritiene che sarebbe meglio porre in secondo piano l’onore e la gloria e al primo posto la famiglia.

Ci troviamo dinanzi una delle pagine più soffuse di trasparente umanissima poesia: il saluto dell’eroe troiano alla sposa e al figlio, saluto che si identifica con l’estremo commiato di chi, pur consapevole che era ingiusta, quasi assurda la causa per cui si batteva, spinge l’amore per la patria e per il dovere fino al completo olocausto di sé.



ETTORE E ANDROMACA ALLE PORTE SCEE


“Finito non avea queste parole

la guardïana, che veloce Ettorre

dalle soglie si spicca, e ripetendo        

il già corso sentier, fende diritto

del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee,

onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro

Andromaca venirgli, illustre germe

d’Eezïone, abitator dell’alta            

Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci

dominator nell’ipoplacia Tebe.

Ei ricca di gran dote al grande Ettorre

diede a sposa costei ch’ivi allor corse

ad incontrarlo; e seco iva l’ancella  

tra le braccia portando il pargoletto

unico figlio dell’eroe troiano,

bambin leggiadro come stella. Il padre

Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto

Astïanatte, perchè il padre ei solo     


era dell’alta Troia il difensore.

Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.

Ma di gran pianto Andromaca bagnata

Accostossi al marito, e per la mano

strignendolo, e per nome in dolce suono 

chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!

il tuo valor ti perderà: nessuna

pietà del figlio nè di me tu senti,

crudel, di me che vedova infelice

rimarrommi tra poco, perché tutti        

di concerto gli Achei contro te solo

si scaglieranno a trucidarti intesi;

e a me fia meglio allor, se mi sei tolto,

l’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!

Ch’altro mi resta che perpetuo pianto? 

Orba del padre io sono e della madre.

M’uccise il padre lo spietato Achille

Il dì che de’ Cilíci egli l’eccelsa

popolosa città Tebe distrusse:

m’uccise, io dico, Eezïon quel crudo;  

ma dispogliarlo non osò, compreso

da divino terror. Quindi con tutte

l’armi sul rogo il corpo ne compose,

e un tumulo gli alzò cui di frondosi

olmi le figlie dell’Egíoco Giove          

l’Oreadi pietose incoronaro.

Di ben sette fratelli iva superba

la mia casa. Di questi in un sol giorno

lo stesso figlio della Dea sospinse

l’anime a Pluto, e li trafisse in mezzo 

alle mugghianti mandre ed alle gregge.


Della boscosa Ipoplaco reina

mi rimanea la madre. Il vincitore

coll’altre prede qua l’addusse, e poscia

per largo prezzo in libertà la pose.      

Ma questa pure, ahimè! nelle paterne

stanze lo stral d’Artémide trafisse.

Or mi resti tu solo, Ettore caro,

tu padre mio, tu madre, tu fratello,

tu florido marito. Abbi deh! dunque  

di me pietade, e qui rimanti meco

a questa torre, né voler che sia

vedova la consorte, orfano il figlio.

Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,

ove il nemico alla città scoperse          

più agevole salita e più spedito

lo scalar delle mura. O che agli Achei

abbia mostro quel varco un indovino,

o che spinti ve gli abbia il proprio ardire,

questo ti basti che i più forti quivi      

già fêr tre volte di valor periglio,

ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro

Sire di Creta ed il fatal Tidíde.

  Dolce consorte, le rispose Ettorre,

ciò tutto che dicesti a me pur anco      

ange il pensier; ma de’ Troiani io temo

fortemente lo spregio, e dell’altere

Troiane donne, se guerrier codardo

mi tenessi in disparte, e della pugna

evitassi i cimenti. Ah nol consente,     

no, questo cor. Da lungo tempo appresi

ad esser forte, ed a volar tra’ primi


negli acerbi conflitti alla tutela

della paterna gloria e della mia.

Giorno verrà, presago il cor mel dice,  

verrà giorno che il sacro iliaco muro

e Priamo e tutta la sua gente cada.

Ma nè de’ Teucri il rio dolor, né quello

d’Ecuba stessa, né del padre antico,

né de’ fratei, che molti e valorosi        

sotto il ferro nemico nella polve

cadran distesi, non mi accora, o donna,

sì di questi il dolor, quanto il crudele

tuo destino, se fia che qualche Acheo,

del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo, 

lagrimosa ti tragga in servitude.

Misera! in Argo all’insolente cenno

d’una straniera tesserai le tele:

dal fonte di Messíde o d’Iperéa,

(Ben repugnante, ma dal fato astretta)        

Alla superba recherai le linfe;

e vedendo talun piovere il pianto

dal tuo ciglio, dirà: quella è d’Ettorre

l’alta consorte, di quel prode Ettorre

che fra’ troiani eroi di generosi            

cavalli agitatori era il primiero,

quando intorno a Ilïon si combattea.

Così dirassi da qualcuno; e allora

tu di nuovo dolor l’alma trafitta

più viva in petto sentirai la brama        

di tal marito a scior le tue catene.

Ma pria morto la terra mi ricopra,

ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.


Così detto, distese al caro figlio

l’aperte braccia. Acuto mise un grido 

il bambinello, e declinato il volto,

tutto il nascose alla nudrice in seno,

dalle fiere atterrito armi paterne,

e dal cimiero che di chiome equine

alto su l’elmo orribilmente ondeggia”.


Traduzione di Vincenzo Monti

Ricerca storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

ARSITA

 

L’abitato di Arsita, isola immacolata nel verde cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo  e monti della Laga, è situato sul  versante settentrionale su uno sperone di 470 m. lungo il corso superiore del fiume Fino.

Il paesaggio circostante ha una grande varietà di ambienti, dai campi coltivati della fascia collinare alle fasce boschive pedemontane, dai pendii erbosi alle pareti rocciose delle montagne e con il suo splendido scenario ancora intatto,  offre  una delle piu'  belle e suggestive vedute della regione nell'arco del Gran Sasso d'Italia: da Vado di Sella, o Vado di sole, Monte Prena, Brancastello, Monte Camicia, Monte Corno, fino ai degradanti monti di Pietracamela.  Aurore  e tramonti, dai colori entusiasmanti, riflettono la luce cristallina della neve che ricopre per molti mesi le vette dei monti ed i loro canaloni, fra i quali il famoso Gravone. 

                                                              LA STORIA

Arsita  si chiamava fino al 1905 Bacucco e in antico Bacuccum. Sull’origine dei nomi non ci sono indicazioni precise, spiegazioni attendibili. Arsita forse da arso, andato, bruciato, Bacucco  forse da “bel cucco”, dalla forma ovale dell’abitato, da un tempietto dedicato a Bacco, dal profeta Abacuc o ancora da un’antichissima famiglia che vi abitò. Il territorio di“Bacucco” segnava nel periodo italico il confine tra il territorio dei Vestini e quello dei Petruzzi; infatti lo stesso nome del fiume Fino nella terminologia alto-medievale era indicato come “In Fluvio Fine” cioè “fiume” del confine. Le sue origini non sono purtroppo ben definite perché non abbiamo testimonianze di antichi insediamenti ma, dai diversi ritrovamenti che dalla fine del 1700 si sono protratti fino in epoca contemporanea, si evince che risalgono al periodo preromano.  Reperti archeologici   rinvenuti  nel 1886 nel territorio di Arsita, (nell’agro dove sono attualmente situate Bisenti e Arsita)  testimoniano la presenza in epoca pre-romana  (ca. VII sec.) di Cerbolongo, una grande città vestina citata da Tito Livio e distrutta nel basso impero di cui però si ignora l’ubicazione precisa.  Si tratta di preziose testimonianze: tombe arcaiche con fibule di bronzo ed arette fittili uscite dalle stesse matrici da cui furono tratte quelle delle necropoli dell’Esquilino ma anche urne cinerarie, vasi lacrimali, lucerne, pavimenti, monete romane. A partire dal 1000  accanto a Bacucco comincia a comparire anche il nome Arsita: si tratta di un documento relativo ad un atto di donazione del conte Trasmondo di tre castelli tra cui Bacucco ed Arsita, rocche difensive del Ducato di Benevento, al monastero di Montecassino (1085). Anche nel Giustizierato d’Abruzzo i due nomi figuravano insieme. Il centro storico si sviluppò tra il XII ed il XIII secolo intorno a un antichissimo castello, detto Cima della Rocca che probabilmente è lo stesso che viene  rappresentato in molte opere di Raffaello conservate nelle logge del  Vaticano. Nel 1273 invece, furono citati ‘Bacuccum ed Arsita cum Podio’ nel diploma concesso ad Alife da Carlo I d’Angiò, mentre le decime vaticane del 1324 parlano sia di “Bacucco” sia della “ecclesia S. Johannis de Arsita”. Come si evince dai documenti i due insediamenti dovevano essere vicini forse complementari: il primo corrispondeva all'incastellamento attuale, mentre il secondo coincideva probabilmente con la cosiddetta “Cima della Rocca” (quota 923) e con la sottostante Chiesa di San Giovanni che si trova sul “colle di San Giovanni” ad un’altitudine di 729 metri. In seguito il duca di Calabria Alfonso donò il borgo ed il castello alla città di Penne, ma  nel 1496, la cittadina risultava sotto la giurisdizione aquilana.  Il suo territorio era ricoperto da selve estese di querce e di faggi col cui legname si fabbricavano remi di particolare pregio, che venivano ricercati lungo l’intero litorale adriatico. Nel frattempo Bacucco divenne fondo di Cola Gentile nel 1507, quindi degli Orsini ed infine dal XVI sec. del casato Farnese. Nel 1532 Bacucco aveva 50 fuochi (famiglie): 300 persone circa; nel 1545 di fuochi ne contava 67. In una pergamena del 1599 si apprende che i cittadini venivano esentati dal pagar dazi e gabelle alla città di Teramo per servizi resi e che si contavano 89 fuochi (famiglie). Dal catasto conciario del 1747 si evince che contava 900 anime. Nel 1804, secondo il dizionario topografico della provincia di Teramo, contava 945 abitanti, compresa la frazione di Roccafinadamo. Un anno importante è il 1830, quando Bacucco, riprende vita autonoma, separandosi da Bisenti, a cui era stata annessa nel 1809. Il 3 settembre del 1905 in una delibera del Consiglio Comunale, viene riportato “Cambiamento del nome di questo Comune in quello di Arsita”. Il nome si fa derivare da Figliolarsita, menzionata come contrada molto importante nel Sovrano Decreto del Regno delle Due Sicilie nel 1787. La data del 3 settembre 1905 rappresenta un momento storico molto significativo, una data epocale perché segna lo spartiacque da cui si dipartono due versanti, uno rivolto al passato e l’altro al futuro: Bacucco da una parte, Arsita dall'altra.

 

                                                              I  DOCUMENTI

Sono di fondamentale importanza per la storia del paese due documenti. Il primo è stato trovato nell'archivio comunale di Penne  da Candido Greco si tratta di un atto di compravendita del Contado di San Valentino da parte di Margarita d’Austria del 3 febbraio del 1583.

Dal suddetto documento sappiamo quanto segue.

Di questo contado faceva parte, oltre Pianella detta “granaio della Provincia d’Abruzzo”, anche Bacucco descritta “castello di ‘forma ovata’ bagnata dal Fino e posto alle radici dell’Appennino”. Il suo territorio benché montuoso era fertile per la produzione di grano, olio, biade, vino e frutta di buona qualità, possedeva selve estese con pascoli e montagne, una delle quali inaccessibile per le nevi perenni delle sue vallate con una fonte dall'Acqua Santa per curare la rogna e il mal di fegato.

L’Università era retta da un Camerlengo e quattro massari con otto consiglieri, proprietà ducali erano un mulino e un’osteria a cui l’Informazione anonima aggiunge “un poco di abitazione come il Castello, la quale serve ancora per carceri”.

Nel Contado Madama Margarita fu padrona assoluta e incontrastata, mancando quasi del tutto la nobiltà ed essendo i benefici ecclesiastici di sua collazione.

Diversamente che a Penne possedeva tutte le botteghe, le osterie, i tappeti, i mulini.

Proibiva ai suoi sudditi di macinare altrove le olive e il grano. Estesi uliveti, campi di  grano erano di Madama, le apparteneva quasi tutto il terreno coltivabile di Bacucco. In uno Stato  in cui tutto era di Madama il “buon governo” non poteva essere in funzione dei suoi sudditi. Con la morte della duchessa svanì anche il senso di Giustizia che Ella aveva inculcato ai suoi ufficiali e agli interessi della Camera ducale si sommarono gli interessi di costoro e si aprì la strada alla corruzione che portò il Contado ancora florido, descritto dal Marchesi nel 1593, a quello incredibilmente deficitario dell’Informazione, stesa da uno scrupoloso ufficiale intorno al 1628. “I bargelli (funzionari capo della polizia) sono senza paga e senza birri (poliziotti); a Bacucco è senza paga finanche il Capitano.

S. Valentino è definita terra povera e “disfatta”, indebitata grandemente con la Camera ducale, Bacucco “è delle ( università) più povere che habbi Sua Altezza”.

E’ gran merito della Duchessa l’aver impedito che questa corruzione, sorta quarantanni dopo la sua morte ma già imperante a Napoli mentre Ella era in vita, dilagasse nel suo  secolo. Altro suo merito fu quello di aver fatto residenza in Abruzzo, impedendone l’emarginazione culturale e sociale. 

Il secondo documento importante, sia sull'aspetto paesaggistico che sulle peculiarità caratteriali del bacucchese di allora e forse anche attuale, è quello che ci fornisce Serafino Razzi . Sacerdote domenicano, chiamato dalla Chiesa, poco tempo dopo la grande vittoria cristiana di Lepanto nel “Viaggio alla riforma d’Abruzzi”, si stabilì  nel convento domenicano di Penne, con l’incarico di reggerne il priorato e muovendosi per i centri vicini e lontani, aveva lo specifico compito di portare e diffondere il messaggio cristiano e l’esempio mariano.

Giovanni Rotondi nel Bollettino dell’Archivio Storico Lombardo afferma a questo proposito: “E’ veramente interessante seguire da un capo all'altro dell’Italia questo frate viaggiatore che, pur nelle brevi soste delle sue lunghe marce pedestri, non si lascia sfuggire l’occasione di ricercare una notizia erudita che gli possa giovare per i suoi studi di agiografia domenicane, di vedere e di descrivere un’opera d’arte, o di  trascrivere un’iscrizione antica, o di raccogliere i proverbi o di indagare l’etimologia del nome del paese ove si trova”.

Giunto ad Arsita, quando si chiamava Abbaccuch, il 23 luglio 1575 partendo dopo il Vespro da Civita di Penne con un compagno così descrive l’arrivo nel paese: “Andai a certa terra lontana 7 miglia detta Abbaccuch posta su la riva del fiume Fino, in luogo murato, e pieno di precipizii, stando a piè d’altissime montagne e sopra dirupate valli. E ci fu dato alloggio da un Rev. Arciprete della Terra. Et avvenne che essendo stato scaricato un archibugio da un certo bifolco  a un Terrazzano, che guardava un pero, si levò il romore, e si diede all’armi da gli uomini del castello: stimandosi che fossero banditi, essendo già notte buia. Ma il suscitato romore fe in un  tempo stesso fuggire l’uno e l’altro.”

In sostanza si racconta la storia  di un contadino “Abbacucchese” che cercava di rubare delle pere ad un piccolo proprietario terriero del posto, sempre da guardia al suo “bene”. Per riuscire nel suo intento carica a salve (con la carta) il suo archibugio e tenta così di spaventare il padrone del pero . Il rumore però fa accorrere i soldati di stanza al castello e, a quel punto, entrambi sono costretti a fuggire senza che nessuno dei due riesca nel proprio intento. Un episodio emblematico che serve a spiegare anche la natura del bacucchese. I cittadini di Arsita ricordano il poeta dialettale Antonio Basilicati che nel “Verbumcaro” satira sui difetti dei suoi compaesani.    

 

 

                                           

 

                                                        ARSITA OGGI

Arsita attualmente si presenta con le caratteristiche di un centro medievale lungo il quale si affacciano palazzi gentilizi e la chiesa madre, collega le varie parti dell’abitato con la rocca, dov'è posto un torrione  struttura rotonda su pianta ottagonale: segno superstite della cinta fortificata e merlata del piccolo Castello di Bacucco. Del passato, oltre ai resti del “Castello di Bacucco” restano la casa seicentesca dei Basilicati, l’ex palazzo De Victoris, l’edificio comunale e la facciata semplice e lineare della vecchia casa della famiglia Picelli Gaetano, raro cimelio di un’antica abitazione di paese. Resta anche lo stemma del Comune che ha nel centro una torre con alla base la scritta “ Città di Bacucco” e nella parte superiore una corona gentilizia e intorno delle foglie ornamentali.

Nel centro storico è presente la chiesa madre parrocchiale, Santa Vittoria con un facciata ottocentesca che copre quella precedente, risalente al 1700. L’interno ad un’unica navata rivela una tipologia settecentesca, su ristrutturazione di una chiesa, probabilmente anteriore al 1500, con edicole laterali contenenti statue, tra cui quella di san Nicola di Bari, patrono di Arsita..Particolare è la settecentesca scultura lignea del Cristo, di scuola napoletana. Dello stesso periodo(1790)  è il pregevole quadro ovale che rappresenta San Vittoria, sovrastata dalla Madonna delle Grazie. Parzialmente conservata all’esterno è la cappella gentilizia settecentesca, situata su una ripida salita, che presenta un portale, con ante lignee e formelle con bassorilievi , raffiguranti angeli, mostri marini, simboli astrologici, di gusto tipicamente popolare.



Fuori dal paese sulla strada per Penne,  in un’oasi di pace, accanto ad una secolare quercia, è la fatiscente chiesa romanica (‘500) di San Maria d’Aragona. Di linea semplice è realizzata con mattoni a vista e ingentilita da un porticato. Conserva una terracotta dipinta del 1531 raffigurante la “Madonna con il Bambino” in grembo,  del 1531 (ha la particolarità delle mani snodabili).  


La Chiesa della SS. Trinità  infine  è del 1874, di essa restano soltanto la facciata e presso il Municipio, le ante del portone in legno, artigianalmente scolpite a formelle con angeli e animali.

Il Vecchio comune: una bella costruzione al centro del paese, vecchia sede comunale, che attualmente ospita un punto informativo del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.


Castello "Bacucco"
 è situato all'estremità settentrionale del paese sovrastante le abitazioni,   si tratta di un complesso fortificato, risalente al XII secolo, di cui restano parti delle mura ed una torre angolare circolare del castello. Alla fine dell'800 fu ristrutturato ed adibito a residenza nobiliare.








Mulino Di Francesco - È un antico ed interessante mulino ad acqua, in località Acquasanta, sul fiume Fino lungo l'antico «sentiero dei mulini». Vi si accede dalla strada per Collemesole. Recentemente restaurato, è di proprietà privata; ma l'accesso ai dintorni è libero e consente di godere la bellezza del luogo, con lo scroscio delle acque del fiume in sottofondo

                                             

                                                        

                                                                       LA NATURA


Il paese, circondato da boschi di pino montano, faggio, tasso, quercia,  ed in vista dei monti, dal vicino Monte Camicia al più lontano Gran Sasso, fino al Pizzo di Sevo ed al monte Vettore, offre piacevoli panorami soprattutto quello che si può godere dalla Cima della Rocca, un rilievo di 923 m , con una particolare forma che ricorda quella di un vulcano. L'estensione dei boschi e la diversa altitudine consentono la vita di una fauna molto varia sia a terra, che in aria.  

In particolare, oltre alla presenza del camoscio (sul monte Coppe e sul Dente di Lupo), si segnala quella di cinghiali e di esemplari di lupo. Tra gli uccelli, quelli tipici della foresta e varie specie di rapaci, come aquila reale, nibbio, poiana, astore, sparviero. Tra i numerosi anfibi, la salamandra appenninica e più rara, la salamandra dagli occhiali. Il territorio consente la possibilità di passeggiate naturalistiche nei boschi, al rifugio Fonte Torricella, alle sorgenti del Fino, alle gole dell'Inferno Spaccato, alla Fonte dei Banditi, ed escursioni sui monti Coppe, Siella, Tramoggia, Camicia ed al nevaio del Gravone.

                                                           

                                                       

 

                                                      ARTIGIANATO


A
questo piccolo ed affascinante paese , la cultura contadina ha  elaborato una precisa connotazione: i colori ,  gli odori della campagna hanno un fascino tutto particolare. In passato si coltivava il lino con la conseguente lavorazione domestica e artigianale per la produzione di biancheria. Come in tutte le zone montane,  era  anche diffusa la lavorazione del legno, con una particolarità: la notevole e quasi specifica produzione di remi per le barche, che  è andata però in disuso. Vi  si trova ancora invece qualche attività artigianale del ferro battuto, del legno scolpito e dell'intarsio.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli. 

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

I documenti e le immagini sono tratti dall’Archivio comunale di  Penne (Atti di Bacucco del 1617) e di Arsita, da:"La vita in Abruzzo nel 500”  descritta da Serafino Razzi (Adelmo editore) e dalla Associazione culturale “Città di Bacucco”.