lunedì 30 dicembre 2019

Il CAPODANNO DI UN TEMPO IN ABRUZZO

In Abruzzo  fino  a  qualche  ventennio  fa  un miscuglio  di tradizioni cristiane e pagane  pastorali, zampogne, cornamuse, dolci e pietanze varie,  erano la cornice che conferiva  suggestione  e mistero al periodo  tra  Natale e Capodanno. In questi  magici giorni  si respirava  aria di festa nei  paesini posti  sui  cocuzzoli  e tra i monti silenziosi  che  custodivano costumi e credenze  che purtroppo sono in gran parte scomparsi.  Un tempo nell’aquilano allo spegnersi del giorno gli animali percorrevano placidi le strade innevate. mentre  per i maiali  iniziava  spietato lo sterminio.  Erano gli ultimi  momenti dell’anno che moriva.     
La sera di San Silvestro nella chiesa parrocchiale  dalle Congreghe, saliva il canto del “Te Deum”. Nelle famiglie si preparava il cenone con carne di “porcu”  perché, come si credeva da vivo, spingendo in avanti  la  terra che muove, porta fortuna, al contrario del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza”.
Un po’ dappertutto nella regione  ma soprattutto  nell’aquilano, la sera dell’ultimo giorno dell’anno festose brigate di ragazzi andavano a cantare  gli auguri  sotto le case chiedendo in cambio dei regali e, se essi venivano rifiutati, gli auguri si trasformavano in  scherzose imprecazioni.  






A  Pescocostanzo, la mattina del primo giorno dell’anno gli amici più mattinieri  andavano a svegliare i più pigri  chiedendo loro una mancia. Vigeva la credenza che ‘quel che se fa a Capodanno  se fa tuttu j’annu’   per dirla in dialetto aquilano; per cui in tale giorno bisognava evitare ciò ch’è male: piangere, bisticciarsi, adirarsi e fare il maggior numero di cose possibili.

 Sempre in occasione del Capodanno le figlie maritate o lontane tornavano alla casa materna perché “a Capodanno ogni  figlia  revà  alla  mamma”.  
Le ragazze, scese con la conca ad attingere acqua alle fontanelle, accettavano un po’ schizzinose i doni dei  morosi , anellini, torrone, ricambiando con sciarpe fatte a mano, canestrelle di amaretti per dire che l’amore è “frizzicarello” dolce ma anche amaro.                               
                           









  L’ANTICO CENONE DI SAN SILVESTRO
Nelle famiglie si preparava il cenone prevalentemente  con carne di “porcu”  perché, come si credeva da vivo , spingendo in avanti  la  terra che muove, porta fortuna al contrario del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza. Sovente le scarse disponibilità economiche non  permettevano l’acquisto di carne pregiata  sicchè si ripiegava su quella di coniglio, di agnello o di pecora  considerate di scarso pregio.    
Sotto la “ronza” del camino e nei forni si cuocevano le “rape rosce”. Si consumavano le ultime “appese di strutto” per preparare” ji fritteji” ripieni di  fichi secchi, cotognata, marmellata. I fritti  venivano apparecchiati  nelle zuppiere di coccio, ma prima erano stesi nei “capisteri” per dolcificarli col miele e spolverati con lo zucchero. Contorno prelibato erano “i cavoli strascinati” ripassati con l’uvetta secca passita. La frutta era costituita da spicchi di mela seccati al sole chiamati “spaccarelle di sorbe”, spicchi di mela seccati al sole e qualche “portugallo” . Un’altra portata era “la cicerchia”  ma  su  tutte  le mense  non mancavano mai   “le lenticchie colla salsiccia o ju zamponu”  poiché si diceva “Se te magni le lenticchie a Capodannu, conti ji sordi tuttu  jannu”. I fagioli “la carne dei poveri “cucinati in bianco e insieme ai ceci  venivano serviti con il baccalà in umido o fritto.


                                         Le antiche usanze e credenze popolari
Dopo il cenone si usciva fuori al fresco a fumare il sigaro toscano o la sigaretta fatta con il  trinciato”forte” che  ammazzava sette spiriti e si usava  orinare sull’anno vecchio, non si spazzava la casa sino al 2 gennaio per non scacciare le anime benedette tornate in spirito a festeggiare, ma soprattutto per non scacciare “sgarrire” la fortuna. In cucina intanto si riattizzava  il  fuoco con la legna stagionata di acero dal cui scintillio si traevano auspici : se salivano dritte nel camino era “bona ventura”, se scoppiettavano verso l’interno “difficoltà” se il legno “soffiava” erano le malelingue che bruciavano. Alla mezzanotte le vecchiette rigiravano il fuoco negli “scallini” per dire che avevano ancora calore e tutti  brindavano con bicchieri colmi di vino e rosicchiavano ceci “abbruscati” e fichi secchi. Poi prima di coricarsi si spazzava dalla neve la soglia dell’uscio perché il nuovo anno entrasse benvenuto in casa. Gli auguri di Capodanno erano dati da frotte di ragazzi vispi e saltellanti che la mattina del primo dell’anno bussavano rumorosamente più volte agitando i battenti dei portoni,   chiedendo un omaggio di leccornie: la cosiddetta  “sandalivecchia”: un miscuglio fatto  con grasso di ventresca , lenticchie simboleggianti la  prosperità, i ceci  la laboriosità e le castagne  l’abbondanza.  I ragazzi in cantilena così  cantavano:

“Se me dà la la Sandalivecchia
Ddio te remerita e sé fa festa
Ma se nò la vvu ddà
Que te se pozza fracidà”

Il  pomeriggio del giorno di Capodanno  si organizzavano “ricreazioni” nelle stallette dove si offriva una pizza  nella  cui pasta era stata introdotta una monetina che avrebbe portato fortuna a chi l’avrebbe trovata. Le ragazze su di un vassoio distribuivano insieme a pezzi di torrone, ferratelle e amaretti consumati insieme al vinello. Poi la coppia più anziana apriva il ballo e volteggiava nel cerchio dei presenti, nessuno, se richiesto, poteva negare un giro di danza agli intervenuti. Tutti saltellavano al suono della fisarmonica accompagnata dal tamburello. Le ragazze  danzavano nelle lunghe gonne danzavano dritte  come fusi con i corpetti di raso tenuti rigidi dalle stecche d’osso di balena. I visi erano chiusi nei fazzoletti ricamati a fiorellini gialli e rossi che si annodavano dietro la nuca da cui uscivano i “tuppi” dei capelli fermati  con le forcine e i pettinini luccicanti di brillantini di vetro colorato.    
Ballavano a turno anche i ragazzi in pantaloncini corti e scarponcini lucidati con lo strutto. Per accomiatarsi dal vecchio anno, che se ne andava al di là dei monti, si festeggiava con rumorosità  e tutti   salutavano col bicchiere di vino in mano il neonato nuovo anno che, emanando i primi vagiti, suscitava  anche apprensione per il futuro.







Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli 
email: mancinellielisabetta@gmail.com    

venerdì 13 dicembre 2019

Il PRESEPIO LA SUA STORIA E IL CULTO DEI SANTI BAMBINI IN ABRUZZO

 LA  STORIA

 


 

Il  presepio o presepe (= davanti alla siepe che racchiudeva le bestie, quindi “stazzo, stalla) è la figurazione scenica della nascita di Gesù. Questa tradizione ha un’origine antichissima e si rifà alle drammatizzazioni liturgiche come le sequenze e le laudi che già nel Medioevo arricchivano le celebrazioni natalizie. L’introduzione del presepe, come tradizione natalizia ufficiale, si  fa risalire a San Francesco d’Assisi il quale,  dopo essere stato in Terra Santa e aver visto coi propri occhi la grotta di Betlemme, giunto a Greccio chiese ed ottenne dal papa Onorio III l’autorizzazione a celebrare la messa di Natale in una grotta e con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velta regalò all'umanità  il primo  presepe della storia. Era il Natale del 1223. I Frati minori diffusero dovunque per il mondo questa sacra  rappresentazione.

 

  IL PRESEPIO in terra d’ Abruzzo

In Abruzzo la figurazione scenica della Natività di Cristo, arricchita da centinaia di figure che si ambientano in località tipiche, probabilmente trae origine dai culti preromani, soprattutto etruschi, come il culto della “grotta” che rientra nelle “civiltà della madre”. Nelle caratteristiche costruzioni dei presepi che avvengono non solo nei luoghi religiosi ma anche nelle case singole, i personaggi non sono soltanto  il Bambinello,  la Vergine, San Giuseppe, i Magi, il bue, l’asino, gli angeli, ma anche quelli che rappresentano il mondo agro-pastorale della regione  e gli  antichi mestieri.

In Abruzzo la tradizione presepiale ha messo profonde radici. E’ difficile rintracciarne le origini ma i documenti più antichi risalgono al XV secolo. Nella regione questa antica rappresentazione scenica della nascita di Gesù ha messo radici profonde probabilmente per la particolare conformazione del territorio che, con i suoi monti, le sue valli, le sue tradizioni pastorali e i centri abitati spesso arroccati sulle montagne e sulle colline, appare esso stesso come un presepe.

 

Dove non si poteva realizzare il presepio con i personaggi principali, ci si limitava all'immagine del Santo Bambino posta nel punto più visibile. Ogni chiesa anche la più sperduta e povera aveva il suo Bambinello lavorato in cera o col gesso o scolpito in legno. Un Natale senza l’effigie di Gesù bambino non sarebbe stato più Natale per gli abruzzesi, perciò sull'altare maggiore di ogni chiesa c’era una cuna in cui giaceva tra luci e fiori il Bambino o  del tutto ignudo o rivestito di seriche vesti.

 

 

  Il Santo Bambino e la devozione in Abruzzo


 

 

Particolarmente legate al culto del Bambino Gesù sono delle statuette che lo raffigurano in fasce, con tessuti pregiati, tavolta disteso, altre volte in piedi e benedicente con la corona.  Si tratta di effigi dei Santi Bambini che i missionari in Terra Santa riportavano da lì al ritorno nei luoghi d'origine. Esse divennero subito immagini veneratissime dalla popolazione, alle quali si attribuivano speciali poteri taumaturgici e  il ruolo di protettori della comunità, proprio per la loro provenienza Gerusalemme e Betlemme.

Il più famoso è il Bambino  della chiesa di Santa Maria d'Aracoeli a Roma  del XV secolo,  che tuttavia è  una copia,  essendo stato rubato l'originale dal 1994, il cui legno proverrebbe addirittura dal Getsemani. Molti altri se ne diffusero nel periodo compreso tra Seicento e Ottocento, e proprio al XVIII secolo si  datano i "Santi Bambini" abruzzesi.

Fra i tanti Bambinelli che venivano esposti nel corso degli anni  a Natale all’adorazione dei fedeli  nelle chiese della regione,ne rimangono solo quattro che si distinguono per  origine, fattura  e  grande valore storico-artistico.  Essi sono Il Santo Bambino di Calascio  conservato nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il Santo Bambino di Lama  dei Peligni nella chiesa di San Nicola, il Bambino di Palena venerato nella Chiesa di Sant’Antonio  e il Bambino di Bisenti  conservato nella Parrocchiale. 

Le quattro statuine hanno una caratteristica in comune: provengono, secondo antichi documenti, direttamente dalla Terra Santa.

Il Santo Bambino di Calascio (Aq) venne riportato dalla Palestina da Fra Antonio da Roccacalascio  il quale vi si recò in pellegrinaggio intorno alla metà del XVIII sec. Osservantissimo della povertà non indossò mai alcun abito nuovo. Dormiva solo tre o quattro ore e digiunava la maggior parte dell’anno e affliggeva il suo corpo con cilici. La statuetta che riportò dalla Terra Santa è conservata nella Chiesa del convento dei Frati Minori  posta in un’urna di legno policromo a tutto vetro. Il bambinello è giacente e  avvolto in fasce come si usava nei nostri paesi per i neonati e un corpettino di seta ricamato in oro, un laccetto al collo da cui pende il sigillo in ceralacca del “Guardiano del S. Convento del Monte Sion di Gerusalemme. Della lunghezza di quattro palmi  è in cera ambrata colorata nelle guance paffute e nelle labbra ridenti che la rende simile a quello di Aracoeli  di Roma.

  

Il Santo Bambino di Lama dei Peligni (Ch.) viene ritenuta l’immagine sacra più celebre di tutto l’Abruzzo. Fra’ Pietro Silvestri lo riportò dalla Palestina nel 1760  e lo donò ai suoi concittadini  munito di sigillo e di bolla di autentica. Il Bambino è custodito nella parrocchiale dei Santi Nicola e Clemente, in cera e avvolto in seriche fasce ricamate d'oro, con il capo coperto da una preziosa cuffia, l'immagine costituisce anche un valido documento di costume ed  è oggetto di culto non solo in paese, ma anche in tutto il territorio circostante. Il Bambinello è conservato in una artistica urna d'argento, schermata di cristalli che ne permettono la visione. La sera dell'Epifania tutti gli abitanti del paese e soprattutto i bambini, si recano in chiesa a baciare l'immagine del loro piccolo Protettore e a salutarlo a conclusione del ciclo natalizio. 

 

Il Santo Bambino di Palena

La terza statuetta, nota in tutto l’Abruzzo e proveniente dalla Terra Santa, è conservata a Palena nella chiesa di S. Antonio nel locale  Convento  sull'altare di San Francesco.  E’ di legno dipinto  di 35 cm. di lunghezza giacente in una piccola urna vetrata molto semplice alla cui base è scritto:                     

“A divozione di Fra Serafino da Roccascalegna. Palena - S. Antonio. Anno domini 1850”. 

Questa data secondo dei documenti reperiti, non è certamente quella della venuta del S. Bambino dalla Palestina in Abruzzo che deve risalire intorno al 1770; purtroppo il documento di autenticazione è andato perduto nel corso dei barbari bombardamenti della seconda guerra mondiale.

 

Il Santo  Bambino di  Bisenti

Sia la leggenda che la storia di questa sacra effigie sono molto simili a a quelle di Lama.  Il documento di autentica col suo sigillo del 6 gennaio 1792 dichiara in latino che “la presente immagine rappresentante il divino Bambino Gesù avvolto in fasce  benedetta coi riti sacri riti nella Grotta di Betlemme e nello stesso luogo esposto alla pubblica venerazione dalla sacra Notte della Natività fino al terzo giorno dopo l’Epifania affinchè tutti i Cristiani abbiano in sommo onore questa santa Immagine”. A differenza degli altri santi bambini d’Abruzzo a cui veniva data la semplice benedizione e deposizione sui luoghi santi, a questo veniva dedicato un servizio liturgico di oltre 15 giorni a pubblica adorazione nella S. Grotta. La leggenda parla anche di segni miracolosi sul mare in tempesta e di un approdo miracoloso e infine del felice ritorno del P. Anacleto Catitti nella sua Bisenti dove tornava dopo aver dimorato a Gerusalemme circa sette anni. Questa sacra effigie conservata nella Parrocchiale del paese, ha le braccia serrate sui fianchi e il corpicino stretto dagli omeri ai piedini, da una fascia di seta bianca finemente ricamata in oro, un visetto d’angelo con grandi occhi neri e capelli neri ricciuti, la piccola bocca atteggiata al sorriso.

 

 

ALCUNE DELLE RAPPRESENTAZIONI ARTISTICHE  PRESEPIALI  D’ABRUZZO



Natività con angeli e pastori
Andrea De Litio 
Cattedrale di Atri, seconda metà del XV sec.


 

Natività.  

Collegiata di San Michele

Città Sant’Angelo.  Inizi XV sec.



Natività  
Ignoto pittore  del XVI sec. 
Celano S.Maria Valleverde



NATIVITA' e Fuga in Egitto (sullo sfondo)
d'impronta botticelliana
Sec. XV


Natività con angeli e pastori 
1791.



Trittico
Maestro del Trittico di Beffi
particolare dello sportello sinistro con la Natività di S.Angelo d’Ocre



ADORAZIONE DEL BAMBINO 
Giovanni Antonio da Lucoli 
Museo nazionale dell’Aquila, 1537. 
 


 Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

Le immagini delle sculture raffiguranti il Gesù bambino sono state realizzate dalla scrivente.

email  mancinellielisabetta@gmail.com

Santa Lucia: vita storia e culto in Abruzzo




Santa Lucia nasce  a Siracusa tra il 280 e il 290 d.C. da una ricca famiglia. Orfana di padre  da giovane viene promessa in matrimonio ad un patrizio. La madre  Eutichia, gravemente ammalata,  nonostante le costose cure, non riesce a guarire.  Essendo molto credenti compiono un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata e  la invocano in  affinché le aiuti  a sconfiggere la malattia. Mentre Lucia prega,  le appare Sant’Agata dicendole che lei stessa  porterà  la madre alla guarigione e le preannuncia  che un giorno sarà la Patrona della città di Siracusa.

Al ritorno dal pellegrinaggio Eutichia guarisce, e Lucia decide di dedicare la sua vita al Signore. Comincia così a distribuire le ricchezze che possiede ai poveri e ai bisognosi che incontra.

La persecuzione

Il suo promesso sposo, deluso  per il rifiuto, si vendica e la denuncia come appartenente alla religione cristiana. L’imperatore Diocleziano intanto emana i decreti che autorizzano la persecuzione dei cristiani, così Lucia, scoperta,   viene  catturata e processata.
Davanti ai suoi accusatori sostiene con orgoglio  di essere cristiana. Il proconsole minaccia la donna di mandarla tra le prostitute, ma Lucia gli tiene testa con le parole senza alcun cedimento. La donna è così decisa che riesce a mettere in difficoltà l’Arconte di Siracusa Pascasio.

 

La morte di Santa Lucia

Per piegarla non resta che sottoporla a tortura . Nella sorpresa generale Lucia esce indenne da ogni ferita. Riesce a sopravvivere anche alle fiamme, ma muore il 13 dicembre    dell’anno 304 per decapitazione.
Secondo documenti degli tratti dagli “Atti Latini” Lucia muore con un coltello conficcato in gola e non per decapitazione. Quest’ultima ipotesi è piuttosto diffusa nell’iconografia tradizionale di Santa Lucia.


La devozione per  Santa Lucia  in Abruzzo

Santa Lucia, protettrice della vista, viene venerata   in molti paesi d’Abruzzo e  celebrata con fuochi notturni rituali chiamati “ faugni” che simboleggiano il bisogno umano di illuminare il giorno tradizionalmente considerato il più corto dell’anno prima del solstizio d’inverno.
In passato si accendevano i fuochi non solo per festeggiare  la santa, ma anche il 4 dicembre per Santa Barbara, protettrice dei minatori, artificieri … oltre che per l’Immacolata Concezione.
La festa si celebra il 13 Dicembre, giorno  della morte della beata, probabilmente per la  volontà di sostituire antiche feste popolari che celebravano la luce.

Quindi sarebbe privo di fondamento l'episodio di Lucia che si strappa gli occhi;  l'emblema degli occhi sarebbe  invece da collegare con la devozione popolare che l'ha sempre invocata come  protettrice della vista  dall’etimologia del  suo nome, Lucia, da lux, luce.
In Abruzzo particolarmente significative sono le celebrazioni che si svolgono  a Prezza paesino della conca Peligna, in cui stazionò per un certo periodo il corpo di  Santa Lucia  in viaggio verso Venezia per ordine del Doge Enrico Dandolo , subito dopo la fine delle crociate, per dare ad essa la definitiva sepoltura .
Le spoglie della santa vennero affidate al Vescovo di  Corfinio  il quale decise di custodirle nella fortezza prezzana. In paese si diffuse quindi il culto per Lucia e venne edificata nel 1200  una cappella votiva per i tanti pellegrini che vi si recavano. Nel corso degli anni essa fu circondata da mura e venne costruita  una  parrocchia a lei dedicata.
Oggi la chiesa si trova nel centro del paese e all'interno, in una nicchia, è collocata una preziosa statua lignea della fine del 1400 raffigurante  la santa.
Al mattino di ogni anno, il 13 dicembre al suono delle campane, i prezzani si recano prima in chiesa per la messa solenne e poi sfilano in processione per le viuzze del borgo; le donne portano grandi ceste di ciambelle a forma di occhi da donare ai portatori della statua  e ai partecipanti al rito.
Anche Torre de Passeri (Pe)  il 13 dicembre  venera da secoli  in modo suggestivo la santa, martire siracusana delle origini del Cristianesimo.
In questo giorno ogni anno  il paese si anima di una serie di appuntamenti religiosi e civili che richiamano gli abitanti dei paesi limitrofi e di molti torresi emigrati all’estero che anticipano il ritorno in paese per le feste natalizie. Sin dalle cinque del mattino i botti di mortaretti e la musica della banda “Città d’Introdacqua” danno la sveglia a tutti i torresi.
Nel pomeriggio una solenne Processione, preceduta dalla Santa Messa, sfila tra le vie dell’antico centro e la statua della Santa viene portata a spalla da quattro portatori, in un singolare corteo religioso, guidato dal parroco di Torre de’ Passeri , dal sindaco e numerosi fedeli.
Intorno alle 19, la tradizionale “Pupa”, grande manufatto di cartapesta con le sembianze di donna, viene fatta danzare  da un ballerino che si cela nel suo interno, e in un valzer di fuochi pirotecnici, si concludono i festeggiamenti.
 A Rocca di Cambio (Aq.) si trova l’Abbazia di Santa Lucia luogo di culto simbolo del paese  risalente al XII secolo,  probabilmente edificata sul ramo della via romana Claudia  che congiungeva Alba Fucens a Fossa . All'interno sono custoditi bellissimi  affreschi che risalgono al XII-XIII secolo, simili a quelli delle chiese di Fossa e Bominaco, rappresentanti scene della vita di S. Lucia.

Ricerca storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

giovedì 12 dicembre 2019

LA STORIA DEL PARROZZO


                                             
Il Parrozzo nasce ed affonda le sue origini nella società agricola. Era un antico pane delle mense contadine che, i pastori abruzzesi ricavavano dalla meno pregiata farina di mais, veniva poi cotto nel forno a legna. Nacque come dolce natalizio negli anni Venti per iniziativa del pescarese Luigi D’Amico titolare di un caffè del centro che  ebbe l’idea di renderlo dolce e di produrlo nel suo laboratorio, rielaborando la ricetta senza stravolgerne le caratteristiche originali, infatti s’ispirò all’antico pane delle mense contadine utilizzando anche uno stampo a forma di cupola che ricordasse appunto le pagnotte contadine.
Il Parrozzo fu ideato e preparato per la prima volta  nel 1919 da Luigi D’Amico amico di D’Annunzio,  il quale volle dare forma d’arte ad una trasposizione dolciaria di un’antica ricetta  abruzzese fatta col latte delle greggi profumato di timo e di menta  insieme alle mandorle della montagna:  un pane rustico  detto “Pan rozzo”: pagnotta semisferica che veniva preparata dai contadini con il granoturco e destinata ad essere conservata per molti giorni. D’Amico, ispirato dalle forme e dai colori di questo pane e facendo rimanere la forma inalterata, aveva riprodotto il giallo del granturco con quello delle uova e aveva adoperato una copertura di finissimo cioccolato per imitare lo scuro delle bruciacchiature caratteristiche della cottura nel forno a legna.
La prima persona alla quale Luigi D’Amico fece assaggiare il Parrozzo fu Gabriele d'Annunzio glielo inviò a Gardone, il 27 settembre unitamente ad una lettera

“Illustre Maestro questo Parrozzo – il Pan rozzo d’Abruzzo – vi viene da me offerto con un piccolo nome legato alla vostra e alla mia giovinezza”. 
Il dolce trovò ampio consenso da parte del poeta  che, dopo averlo assaggiato,  scrisse a D’Amico  questo  sonetto dialettale in sua lode.
“È   tante ‘bbone   stu   parrozze  nov e  che  pare  na  pazzie de San Ciattè,  c’avesse  messe a su gran forne   la terre lavorata  da  lu  bbove, la terre grasse e lustre                           che se  coce e che  dovente a poche a poche chiù doce de qualunque  cosa  doce. 
Benedette  D’Amiche  e San Ciattè …”   

Sulla scatola, a ricordare le nobili origini del Parrozzo  letterario, compaiono i versi scritti dal poeta pescarese: “Dice Dante che là da Tagliacozzo,/ ove senz’arme visse il vecchio Alardo,/ Curradino avrie vinto quel leccardo/ se abbuto avesse usbergo di Parrozzo”. Correva l’anno 1927.



Ricostruzione storiografica: Elisabetta Mancinelli
e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

martedì 3 dicembre 2019

LA GALLINA NERA NOVELLA DI ANTONIO DE NINO LA SUA VITA E IL SUO OPERATO.


Una  fanciulla, vieppiù del tiglio flessuosa, girava pel paese di Bagnara, domandando”  Chi tiene una  gallina nera? – Io no. – Io  neanche. – Io l’aveva e mi morì…. Eh chi ne tiene una? Ze Loreta che sta in cima ai Castelli del Duca.- La fanciulla corre su, trova la casa di Ze’ Loreta ed entra. Ze’ Loreta in quel mentre aveva raccolto l’uovo dal nido della gallina nera; e: -Lo vedi com’è grosso? .. ma tu perché stai cossì affannata? – Risponde la fanciulla; - Mi serve la gallina nera, perché la povera mamma non ne può più! –E Ze’ Loreta: -Ah ma la vuoi far morire la povera  feruccia. – Se si muore te la pago. –Ebbè le forbici stanno lì …. E poi alle malate non si deve negar nulla… e se servisse a me? Ma io però , non voglio né vedere né sentire… Me n’esco qui  fuori l’uscio di strada….
La fanciulla  chiude la porta dell’uscio; chiude l’impannata della finestra, e va dietro alla gallina per acchiapparla. La gallina si nasconde dietro al letto. Quando la fanciulla: corre di qua, la gallina corre di là: e questo gioco dura piuttosto a lungo. Ma ecco la furibonda cercatrice sa capacitarsene. Ella resta accoccolata a guardare ancora sotto il letto; e quasi comincia a pensare ai maghi , alle fate, ai mazzemarelli o folletti…. E dove s’è cacciata quella birbona? – Apre la impannata per meglio vedere. E Ze’ Loreta : - Ha ? fatto! –E no –Oh che guaio! La fanciulla si riaccoccola, spalanca tanto d’occhi, e nulla ancora. Finalmente da un poco profumato  grosso  vaso conico che stava dietro a uno scanno, vede spuntare un becco…. La povera gallina  nello svolazzare, era caduta lì dentro, e per paura si stava zitta: E la furibonda flessuosa: - Ah.. là stai ti acconcio io….. -  Copre  il vaso col grembiale, ficca la mano sotto al grembiale ,afferra la gallina , se la chiude fra le gambe, brandisce le forbici con la mano destra, con la sinistra  tiene stretta la cresta della bestìola;  le forbici già addentano quella cresta, e zaccht!  La cresta roesa, sanguinante è staccata! Ella l’avvolge subito in n una pezzuola; spalanca l’uscio, e via a precipizio. Ze’ Loreta rientra  malinconica, compassionevole; e la gallina  La padrona non può rattenere le lagrime. Accoglie nel suo grembo la mutilata  feruccia, e ne medica la ferita spargendola di sale e aceto.
: Coh! Coh coh! - Intanto la fanciulla è rientrata in csa sua; e ha già detto alla mamma: - Coraggio!  L’ho trovata alla fine !  -  La madre  si toglie una densa fascia dal capo.  La figlia tira fuori la cresta sanguinosa p della gallina nera, e la striscia sulla fronte e sulle tempie dell’inferma. -  Non dubitare, mamma: fra poco il dolor di testa cesserà ; anzi, non ne avrai più a soffrire. 

Antonio De Nino nacque a Pratola Peligna  il 15-6-1833 e morì a Sulmona il 1-3-1907 .  Uscito dalla scuola elementare, non potendo andare in collegio perché le condizioni di famiglia non glielo permettevano, fu autodidatta.  Appena ventenne divenne maestro a Leonessa, in seguito   acquistò il titolo di professore “onoris causa “e venne nominato a Rieti, dove insegnò per alcuni anni, poi  tornò nella sua terra natia  ottenendo la direzione della Scuola Tecnica di Sulmona, che mantenne fino alla morte.  In possesso di solide  attitudini letterarie, mostrò  un appassionato interesse per gli studi folcloristici; infaticabilmente, ricercava, recuperava, reintegrava, catalogava il prezioso patrimonio del folclore abruzzese, girando di paese in paese, raccogliendo dalla viva voce del popolo racconti, fiabe, novelle e studiando gli usi, i costumi, le abitudini delle popolazioni. Della grande quantità di materiale raccolto in questo lavoro di ricerca si servì per scrivere  sei  volumi sugli
Usi e costumi abruzzesi “che vennero considerati   di maggiore interesse. 
E a questa opera il D’Annunzio attinse i per il suo lavoro poetico e nella stesura delle sue tragedie: “La fiaccola sotto il moggio” e  “La figlia di Iorio”.  Anche  Francesco Paolo Michetti trasse  ispirazione per le sue tele dai suoi  scritti .  Compose pure  un volumetto  su “Ovidio nella tradizione popolare di Sulmona“ . Fu prezioso collaboratore di molte riviste letterarie del tempo e si dilettò a scrivere novelle e fiabe per i bambini di Abruzzo. Appassionato cultore com’era, si interessò vivamente degli scavi di antiche città romane sepolte in Abruzzo. Furono suo merito  gli scavi iniziati e portati a buon punto dell’antichissima città di Corfinium, capitale della Lega Italica nella guerra contro Roma, e l’aver individuato l’antica sede della città romana di “Aufidena”. Fu lui a far sorgere un interessantissimo museo dove raccolse il prezioso materiale della distrutta Corfinium. Nella vita letteraria d’Abruzzo ha lasciato una traccia profonda ed incancellabile con i suoi  scritti  che costituiscono  un tesoro inesauribile per gli studiosi  che vogliono conoscere la storia della nostra terra, i suoi usi e i suoi costumi

Ricerca storiografica di Elisabetta Mancinelli