mercoledì 23 gennaio 2019

Gabriele d’ Annunzio e l’amore per le sue tre sorelle

Gabriele d’ Annunzio figlio terzogenito di Francesco Paolo D’ Annunzio e Luisa De Benedictis ebbe un fratello Antonio e tre sorelle: Anna, Elvira e Ernesta a lui molto care. Anna la maggiore morì nel 1914 a soli 55 anni per un male incurabile, fu la prediletta dal poeta che per lei scrisse nel 1928 questa lettera:
“ Ebbi già una sorella di nome Anna a me dilettissima, creatura d’amore e di sacrificio, degna di essere nomata la “Aura Christi”, per tutti partita fuorchè per la mia attenzione fedele… Anna in me dice che tutto è fatto presente dalla forza dell’amore ! L’ombra diviene luce. Quel che è lontano diviene prossimo. La separazione si converte in assiduità, la morte culmina in vita suprema”.




Il poeta amò teneramente anche le altre due sorelle a cui dedicò questi versi :
“ Le tre sorelle”
“…o sorelle
tre come le porte del tempio
tre come il trifoglio dei paschi,
tre come le cariti leni,
la prima dai floridi ricci
salubre qual cespo di menta
in docile rio, la seconda
a me somigliante nel volto
ma quasi d’un velo soffusa
argenteo sì ch’io mi creda
specchiarmi in sul fare dell’alba
a un fonte di acque serene,
la terza dagli occhi bovini
robusta qual fu giovanetta
la figlia di Rea, della madre
sostegno ridente, o mie dolci
sorelle, io non vi oblai
e di me voi favellate
nel vespero forse, dal tetto
arguto di nidi guardando
verso l’Adriatico Mare
da “Maia”
Ricerca storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli 
email mancinellielisabetta@gmail.com

sabato 19 gennaio 2019

Francesco Di Lauro il "cantore" di Pescara

Un grande maestro artista sensibile “cantore” della città di Pescara Francesco Di Lauro è uno dei principali protagonisti dell’arte figurativa della seconda metà del Novecento abruzzese, che nelle sue opere è riuscito a coniugare tradizione e modernità, raffigurando il mondo abruzzese intriso di valori e consuetudini con uno stile originale ed innovativo, caratterizzato da un audace uso del colore.

Profondamente riconoscente e legato alla propria terra ha saputo rappresentare la “cultura” dello studio delle proprie origini e dell’amore per le stesse riuscendo a cogliere e trasporre sulla tela gli aspetti significativi della vita quotidiana della gente. Nasce a Guardiagrele il 12-2-1933 ma si trasferisce fin da piccolo con la famiglia a Pescara città con cui stringe nel tempo un legame profondo, sincero, sanguigno. Sin dalla più tenera età manifesta la sua passione per l’arte pittorica, passione che non abbandonerà mai.
Conseguita la maturità presso il Liceo Artistico di Pescara usufruendo dei preziosi insegnamenti di famosi e rappresentativi maestri abruzzesi, quali Misticoni, Melarangelo e Gammelli; pur prediligendo l’arte pittorica apre un colloquio con altri linguaggi di attività espressive, è figurinista, ceramista pubblicista, designer, e grafico. Lavora soprattutto nel suo studio di Pescara, lontano dal mercato dell’arte, dove realizza dei veri e propri capolavori che si ispirano alla propria terra, alla propria gente, alle generazioni di un Abruzzo lontano dai gesti semplici e vitali dalla raccolta delle olive alla pesca.
E’ questo Abruzzo sano e solare che Di Lauro porta nel mondo: AL Museum of Modern Art di New York, al Museo d’arte figurativa Puskin di Mosca, alla Galleria d’arte Moderna di Roma, e ancora a Stoccolma, Parigi, Detroit, città in cui vive e lavora per diversi anni, anche qui cogliendo gli aspetti significativi della vita quotidiana della gente del luogo. L’arista muore a Pescara nel 1999.
LE SUE OPERE PITTORICHE
La sua produzione copiosa densa di soggetti interessanti, resi con una figurazione personale e fortemente espressiva, è conservata con amore dalla sorella Maria Luisa. Francesco era molto riservato, lavorava continuamente impegnandosi nella pubblicità, nella ceramica, nel designer, ma le sue predilezioni erano la grafica e soprattutto la pittura ad acrilico su tela.
Pur avendo partecipato ad importanti esposizioni e risieduto per due periodi distinti in America, rare volte ha esposto in Abruzzo, tuttavia con successo. Conduceva una vita semplice, operativa, solitaria ma ricca di riflessioni, ricordi, letture, idee, progetti. Una personalità seria ma sfiorata dall'intelligente soffio dell’umorismo, che permetteva al suo volto di assumere una espressione convincente e umanamente vicina all'interlocutore. Ritrae sia nelle tinte dense del sole e della terra bruciata sia nelle tinte chiare e profonde del mare con l’immediatezza di giochi geometrici dai toni brillanti.
I suoi soggetti sono le “lavandaie dannunziane”, le pescivendole, i castagnai, i braccianti e i pescatori riscoprendo i valori della gente contadina e operaia: lavoratori sia singolarmente nella quotidianità sia nel lavoro collettivo simboleggiato da cantieri e campagne dense di uomini e donne di un Abruzzo ‘vergine’ Lo hanno definito "l'ultimo cantore pittorico dell'emigrazione italiana.


Riesce a trattare, sotto forma di un originale figurativismo, la tematica dell'emigrazione, integrandola con le esperienze vissute direttamente. I suoi dipinti appaiono di una semplicità fresca e disarmante densa di toni vivaci e caldi, di figure umane e cose spesso accalcate, affidate ad una rappresentazione elementare caratterizzata da forme grossolane e distorte, da un espressionismo quasi grottesco.
Ama le classi umili in primo piano in una visione prismatica in cui il colore ferma il tempo ed unifica lo spazio e definisce l’essenza delle persone rivendicando per loro l’eternità della rappresentazione. Gli uomini e le donne vivono nella realtà dei toni, sono parte integrante dei colori, ne deriva un atteggiamento giocoso dell’autore, che vivacizza il grigio del quotidiano e l’uniformità della routine a cui sono legate le sue creature conferendo loro una vivezza infantile e l’assoluta eguaglianza degli uomini, delle cose, delle piante, degli animali di fronte all'osservatore.

La maggior parte delle sue opere, esposte nel 2008 in una mostra al Museo delle genti d’Abruzzo, sono state suddivise in tre sezioni. Nella prima erano raccolti i quadri più grandi, quelli che raffigurano la veduta di una città viva in funzione del mare. Tra le opere: “Rematori”, “Paranze”, “Molo nord”, “Gli innamorati” e la “La sciabica”. Alla prima sezione appartengono anche due lavori legati tra loro e che si riferiscono a una tematica storica e sociale: “Pescara 31 agosto 1943” un dipinto ispirato al primo bombardamento avvenuto in città nel corso del secondo conflitto mondiale; in primo piano delle donne e degli uomini si aggirano attoniti tra i resti di mura , sul retro emergono, come da una lontana reminiscenza, figure che si muovono tra forme architettoniche sconnesse con gesti precisi e decisi.
Queste figure sembrano preannunciare quanto si vede nel quadro dal titolo “Cantiere” che rappresenta il momento successivo al disastro quando emerge la volontà della ricostruzione per la quale degli uomini s’impegnano con febbrile alacrità.

Nella seconda sezione intitolata “Quando anche il piccolo formato è grande” erano raccolte opere della stessa misura: cm. 30 x 40 e cm. 10 x 15, si tratta di tante brevi e intense immagini di donne e uomini impegnati in attività diverse anche colti in atteggiamenti di riposo o di meditazione. La terza sezione riguarda “ Gabriele D’Annunzio e la sua Pescara.
Di Lauro soprattutto attraverso la grafica, rappresenta una città del primo Novecento ancora divisa in Pescara Porta Nuova e Castellammare proponendo le “sue” figure che, pur indossando sempre gli stessi panni, vesti semplici, soprattutto per le donne spesso ammantate, assumono ruoli diversi in epoche varie.


In questo settore prendono largo spazio i disegni in bianco e nero e quindici vignette a colori che l’autore dedica a Gabriele D’Annunzio che ritrae con la maestria di un vero e proprio figurinista con le sue impeccabili divise e completi di alta sartoria. Si tratta di una sequenza di scene caratterizzate dall'ironia, dalla cura del particolare, dalla vivacità dell’idea, dalla spigliatezza del segno.
Tra le opere dedicate alla sua città merita particolare menzione un dipinto dai colori accesi (acrilico 30x40) dedicato al santo patrono di Pescara Cetteo a cui dà finalmente un volto e lo raffigura tra i torrioni di Porta Nuova e le paranze. “Una città, diceva Di Lauro, deve avere un’anima e l’immagine del patrono può servire a riunire tutti i punti della città”. Meritano menzione due piccoli capolavori: “La fanciulla che rimira la coccinella” una deliziosa e amabile composizione e “I ramai” in cui si coglie, nella sua piena misura, nella compressione impressa ai due personaggi, la forza non comune dell’autore che si rivela come una delle componenti più rappresentative della sua personalità.
Ma questa è solo una parte delle sua della sua produzione che comprende altre tele e molti disegni e interessanti percorsi che meritano di essere conosciuti in programmate esposizioni raccogliendo anche le opere che sono esposte a New Jork, Mosca, Parigi, Stoccolma, Roma. Dal carattere schivo, Di Lauro ha pagato la sua riservatezza con riconoscimenti talvolta tardivi. Tuttavia oggi più che mai lasciando emergere una validità e uno spessore che si rivelano senza tempo come prezioso lascito a questa città che lui ha tanto amato. Tuttavia le opere di quest’artista, scomparso nel novembre di otto anni fa, si impongono in maniera esponenziale, lasciando emergere una validità e uno spessore che si rivelano senza tempo, come prezioso lascito a questa città che lui ha tanto amato.
Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli 

Un suggestivo e antico rito: la Processione delle Verginelle a Rapino






Un ancestrale rito religioso “La processione delle verginelle” si svolge l’8 Maggio di ogni anno a Rapino (Chieti) un borgo alle falde del massiccio della Majella. Si tratta di una festa che fa parte del culto per la Madonna nel mese di Maggio; ma la cerimonia ha antiche origini pagane ed è ricca di elementi simbolici che la ricollegano ad antichi riti agrari legati alla fecondità della Grande Madre Terra.
Nella zona di Rapino, fin dai tempi italici, la gente marrucina venerava Ceria Iovia grande Madre agraria e divinità delle messi. Ne sono testimonianza interessanti reperti archeologici emersi nei luoghi del complesso cultuale del territorio : tra questi un bronzetto raffigurante una offerente che porge alla dea una ciotola con tre spighe di grano e il “Bronzo di Rapino”: una tavoletta liturgica che porta incisa ,in lingua italica, la legge sacra delle cerimonie religiose. L’amministrazione del rito era affidata ad un collegio femminile che accoglieva ogni anno bambine e fanciulle destinate alla verginità rituale e al santuario che venivano ornate di oro e gioielli per propiziare la presenza dell’acqua, di cui l’oro è un simbolo mitico, che nel mese di maggio ha un peso determinante nella produzione agricola.
La cultura cristiana ha fatto proprio questo antico rito celebrando la festa della Madonna del Carpineto che ricorda il miracolo avvenuto nel 1794, quando la Vergine fece cadere una pioggia provvidenziale dopo una lunga siccità che stava distruggendo il raccolto e da allora si rinnova ogni anno affinché l’acqua torni a benedire la terra.










La leggenda
Questa Madonna apparve la prima volta su un carpine; la leggenda vuole che Maria apparve ad un pastorello con un bimbo in braccio, chiedendogli di chiamare un prete; quando il pastore tornò sul luogo, tra i rami del carpine non trovò più la Madonna ma una statua che la rappresentava. Molti contadini seppero del prodigio e accorsero sul luogo; si decise così di portare la statua nella chiesa parrocchiale di S. Lorenzo, ma l'indomani la Vergine era miracolosamente tornata nel luogo in cui era apparsa, lì dove oggi sorge il santuario che i rapinesi vollero dedicarle.
In onore di questa Madonna miracolosa si svolge ogni anno un suggestivo e caratteristico rito che richiama l’antica consuetudine pagana: La processione delle Verginelle in cui le bambine del paese tra i 6 e i 10 anni vestite di tuniche bianche, rosa o celesti e adornate di ori e monili di famiglia e di amici e abbellite con decorazioni floreali, sfilano in processione dalla chiesa parrocchiale fino al santuario dedicato alla Madonna di Carpineto, a cui simbolicamente vengono offerte, affinché propizi la pioggia.
Questo rituale richiama la verginità della Madonna, infatti non a caso sono scelte bambine, che sono segno di castità, purezza e fede. Le accompagnano bambini dai due a tre anni vestiti da angioletti addobbati con ori tradizionali realizzati dai maestri dell'artigianato locale, e insieme seguono l'effige della Madonna . Le famiglie vivono festosamente la partecipazione di una figlia alla processione delle Verginelle in quanto la considerano un privilegio e solitamente solennizzano la giornata con un pranzo che riunisce la parentela. La caratteristica processione delle verginelle ha sempre costituito un forte richiamo per le popolazioni della Maiella orientale che ieri come oggi vi partecipano numerose.
Nel secolo scorso la celebrazione colpì la fantasia di molti artisti legati alla rappresentazione mitica dell’Abruzzo, come Francesco Paolo Michetti e Michele Cascella e Gioacchino Cascella.
Anche quest’anno Mercoledì 8 Maggio 2013, a Rapino ( Chieti) si ripeterà questo tradizionale e suggestivo rito popolare abruzzese. La processione partirà alle ore 10 dalla Parrocchia di San Lorenzo Martire in direzione del Santuario della Madonna di Carpineto.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
Documenti e le immagini sono tratti dall’Archivio di Stato, da Testi di Maria Concetta Nicolai e dal patrimonio fotografico messo a disposizione dal web.

Le antiche Chiese di Pescara


Nei documenti pontifici più antichi, anteriori al XIII secolo, si ha menzione, nella città chiamata ancora Aterno, di cinque chiese tutte appartenenti al vescovo di Chieti. S. Salvatore di cui si ha notizia che nel secolo IX fu donata a S.Benedetto e ai monaci di Montecassino dalla contessa Iselgarda insieme alla metà del porto: la sua posizione era sul fiume nella fortezza della città. 

S. Nicola detta fuori le mura exterius proprio perché posta verso l'esterno della fortezza. S. Gerusalemme che sorgeva sul sagrato dell'attuale cattedrale dalla parte di via Gabriele D'Annunzio . S. Tommaso, ai piedi della città, presso la porta che guardava il mare e citata nella Passione di S. Cetteo.
La parrocchiale dei Santi Leguziano e Domiziano detta 'plebem' ossia pieve nei documenti cioè parrocchiale posta al piede della città.
A queste vanno aggiunte le Chiese di S. Paolo e S. Lorenzo che una bolla di Alessandro III nel secolo XII riconosce appartenente a S. Giovanni in Venere. Trascorsi solo alcuni secoli di tutte queste chiese l'unica superstite fu Santa Maria di Gerusalemme che assunse la funzione di parrocchiale e nel 1600 prese ad essere detta di S. Cetteo.
Nella vecchia Pescara in via dei Bastioni: che era la via più importante della città vi sorgevano tutte e tre la chiese principali Santa Maria di Gerusalemme, San Giacomo e la chiesa del Rosario Unita all'ospedale militare, verso Piazza Unione era la chiesa di S. Giacomo (fig. di fianco in alto). La costruirono gli spagnoli devotissimi di quel santo probabilmente nel tardo '600 ed era in pratica la parrocchia dei militari della fortezza. Fu distrutta dai bombardamenti del 1943. Questi distrussero anche un'altra vecchia chiesa quella del Rosario anch'essa del tardo 1600) (fig. di fianco in basso) della omonima confraternita ricordata come vicina a quella dei francescani, anch'essa del tardo '600.
La relazione della visita pastorale dell'arcivescovo di Chieti ci informa che era di forma rettangolare di quasi 16 metri per tre divisa in tre navate ovali; aveva tre porte ognuna corrispondente a una navata, non aveva cupola né vere colonne ma la divisione in navate derivava da quattro pilastri. La minuziosa descrizione precisa che l'organo era in pessimo stato che il pavimento era di mattoni che tre erano i suoi altari e due le campane, l'una di 180 Kg, l'altra di circa 125 ed era ricca di 86 candelabri di legno dorato. Sempre le visite pastorali degli arcivescovi di Chieti, a partire dal XVI secolo, accanto a Santa Maria di Gerusalemme, menzionano la chiesa di S. Agostino e quella di S. Francesco annesse rispettivamente al convento degli agostiniani e dei francescani e quella della S.S. Annunziata annessa al convento benedettino femminile. Il convento e la chiesa di S. Agostino furono l'uno soppresso e l'altra sconsacrata e trasformati in deposito di sale: il convento aveva allora due soli ospiti quanti ne aveva nel 1500. La chiesa e il convento di S. Francesco furono inizialmente intitolati a S. Lorenzo Martire: la loro fondazione sembra risalire al 1200 infatti il convento pescarese è compreso nel primo elenco delle case dell'ordine compilato all'inizio del 1300.
Anche questo convento, quando fu soppresso, all'inizio del 1800, ospitava due soli frati come due soli ne ospitava anche nel 1500. I locali furono trasformati in caserma nel 1819 poi ospitarono l'ufficio telegrafico e furono demoliti alla fine del secolo. Al momento della soppressione la comunità , che in passato doveva essere stata abbastanza numerosa, a giudicare dai locali, risultava composta da sette stanze disposte attorno al cortile nel piano terra, di cui una adibita a cantina e da ventuno nel primo piano. Per quanto riguarda la S.S. Annunziata ospitava le monache della regola celestiniana che occupavano il cosiddetto 'padiglione delle monache' poi sostituito dal mercato coperto di porta Nuova.Anche questo complesso fu soppresso nel 1800.

 Non fu soppresso all'inizio del 1800 il convento dei Cappuccini, alla sinistra del fiume, in territorio di Castellammare. Era stato fondato col titolo di San Giuseppe nel 1631, nella zona attuale del vecchio ospedale, allora quasi disabitata e perciò rispondente alle esigenze dell'ordine che prediligeva aprire le sue case in zone isolate. Proprio nel chiostro di questo convento fu redatto, secondo documenti dell'epoca, l'atto notarile col quale nel dicembre del 1665 i capifamiglia della villa di Castel­lammare si impegnarono a corrispondere il noto quantitativo di grano per il mantenimento del parroco nella nuova chiesa parrocchiale della Madonna dei Sette Dolori.
Nei primi decenni del 1700 la comunità era costituita da una dozzina di frati ridotti anch'essi a due soli nel 1808 ai quali l'amministrazione comunale di Pescara elargiva un'elemosina annua di dodici ducati. Il convento fu soppresso nel 1866 ma i frati vi restarono fino al 1880.
I cappuccini tornarono a Pescara nel 1941, inizialmente come coadiutori nella parrocchia della Madonna dei Sette Dolori, poi nel loro convento in seguito edificato presso la basilica. Al momento della riunificazione di Pescara e Castellammare in un'unica città le chiese parrocchiali erano tre: quella del Sacramento, detta San Cetteo nella vecchia Pescara, la Madonna dei Sette Dolori (fig. in basso)









 e il Sacro Cuore  (fig. in basso) nella ex Castellammare;non molte per una popolazione che nel censimento del 1921 era risultata di 26 mila abitanti e che nel 1927 fu ufficiosamente valutata in 40 mila.










Si era avviata lentamente la costruzione della chiesa dedicata a Maria Stella del Mare in cui nel 1936, pur incompleta si officiavano i culti. Nel 1948 la chiesa, appena terminata accolse un sarcofago con le spoglie dell'umile e fattivo Padre Domenico, che l'aveva voluta. Nel 1930 Raffaele Verrocchio, ricco proprietario di Castellammare di cui era stato a lungo anche amministratore, donò ai suoi colli 4 mila metri quadrati di terreno ai Padri Gesuiti i quali subito posero la prima pietra della loro casa e della loro cappella, divenuta in seguito la chiesa parrocchiale di Cristo Re.
Nel luglio del 1935 fu posta la prima pietra della chiesa di S. Antonio su un terreno ceduto qualche anno prima al vescovo di Penne dalla società ferrovieri "Casa nostra" Questo terreno era adiacente a una piccola chiesa dedicata a S. Teresa del Bambino Gesù, per cui il titolo completo, unito alla quale fu costruito nell'immediato dopoguerra l'attuale convento francescano, è S. Antonio e S. Teresa del bambino Gesù. Essa fu completata nel 1949 e divenne parrocchiale. Meritano attenzione due circostanze particolari riguardo la nomenclatura dei luoghi di culto della nostra città.
La prima è che diverse chiese di Pescara hanno oggi il titolo che, nella vecchia chiesa parrocchiale, era stato solo di un altare : nel 1600 in Santa Maria di Gerusalemme vi erano infatti, tra gli altri, gli altari dello Spirito Santo, di S. Andrea, di S. Caterina. La seconda circostanza è che il titolo di alcune chiese scomparse è oggi rinnovato in chiese moderne, come la Madonna del Rosario in via Cavour e il S.S. Sacramento in via dei Bastioni.

SANTA MARIA DI GERUSALEMME
La struttura originaria della chiesa si fa risalire ad un edificio tardoantico a pianta centrale degli inizi del IV sec. d.c. PESCARA Intorno al XII-XIII sec. quando probabilmente la struttura era una sinagoga, fu trasformata in chiesa (a sinistra colonna in cotto e pianta) in espiazione dell'oltraggio arrecato tre anni prima da alcuni ebrei, proprio nella sinagoga, all'immagine di Cristo, dalla quale, secondo la leggenda, miracolosamente sgorgarono gocce di sangue. La chiesa prese il nome di S. Maria di Gerusalemme di essa oggi sono visibili, di fronte alla cattedrale di S.Cetteo, due delle colonne trilobate (fig. in basso).
 La chiesa, contigua ad un'altra quella del S.S. Sacramento, occupava quello che oggi è un improprio sagrato dell'attuale Duomo, il tratto di viale D'Annunzio che lo fronteggia.Il Duomo occupa a sua volta il sito che fu del S.S. Sacramento, la cui facciata però era rivolta su Piazza Garibaldi. Dalle carte di archivio del 1800 risulta che la ricostruzione della chiesa cadente (fig. in basso) fu affidata nel 1783 all'ingegnere militare del Genio di Pescara Giovanni Fontana. Dopo un sopralluogo egli attribuì, in un suo resoconto, la rovina dell'edificio, che minacciava di estendersi anche al S.S. Sacramento, mai disposto alcun restauro, per cui le volte esposte alla caduta delle acque, avevano causato il crollo dei sei pilastri che sostenevano la cupola.

La straordinaria importanza di questa relazione, rileva lo storico Luigi Lopez (in "Pescara" da cui sono stati tratti alcuni di questi documenti) nasce dal fatto che essa ci informa che già la vecchia chiesa aveva la forma nella quale prese ad essere ricostruita nel 1783 e in particolare la cupola.
Approvato il suo progetto l'11 giugno del 1783 il Fontana pose mano ai lavori, e riportò in un mese l'altezza delle mura della rotonda a 3,7 metri. La spesa fu di 2700 ducati che il sovrano attinse dalle rendite della badia di Corropoli fino al 1798 quando i lavori furono sospesi a causa della guerra tra il governo borbonico e la Repubblica Partenopea terminata nel 1799 col martirio di Gabriele Manthonè ed Ettore Carafa.
Poi secondo l'inventariato esistente, il tetto della cappella dell'altare maggiore e quello della cappella di destra erano crollati e il muro circolare, destinato a mantenere la cupola, mostrava i danni causati dalle intemperie e dalla vegetazione spontanea, quindi l'edificio era rimasto privo di copertura in molte sue parti. Un progetto per la sua ristrutturazione e il suo completamento fu redatto nel 1837 da Albino Mayo, ma non fu mai realizzato perché i prezzi della stima furono giudicati bassi e nessun imprenditore era disposto ad eseguire l'opera a quelle condizioni.
In seguito il sacerdote Settimio de Marinis, appassionato sostenitore del completamento della costruzione della chiesa e animato da grande entusiasmo, non ancora trentenne, se ne era fatto promotore, impegnandosi personalmente. Con una offerta accolta con Sovrano Rescritto del 1845, incaricò del nuovo progetto l'ingegnere Giovanni Gazzella e assicurò l'intendente della provincia di Chieti che avrebbe affrontato con le offerte dei fedeli le spese eccedenti, la somma di 7700 ducati ,concessi dal re Ferdinando II già nel 1839 sulla base del precedente disegno del Mayo, giudicato dal De Marinis troppo modesto per un edificio che meritava maggior fasto.
Ma altre difficoltà si frapposero al proseguimento dell'opera per cui la sede parrocchiale fu trasferita nel 1857 presso la chiesa del S.S. Sacramento che già da decenni veniva utilizzata per le celebrazioni a causa dell'inagibilità di San Cetteo e, benché il provvedimento fosse ritenuto provvisorio, esso sarebbe presto diventato definitivo. Un nuovo progetto fu redatto nel 1860 da Raffaele Pepe per interessamento dell'abate Giuseppe Corazzini quando sedeva sul trono di Napoli Francesco n. Ma, dopo pochi mesi, il re fuggì a Gaeta per l'avanzata delle truppe garibaldine provenienti dalla Calabria che avrebbe poi provocato la caduta del Regno delle Due Sicilie.
Nel 1867 infine, in seguito ad un decreto governativo che disponeva l'abolizione delle opere fortificate nel soppresso Regno di Napoli, il Consiglio comunale di Pescara deliberò l'acquisizione dell'area della fortezza. Le nuove esigenze di espansione urbana e di inserimento dell'antico borgo in una rete nazionale di scambi commerciali e di iniziative imprenditoriali contribuirono a far tramontare definitivamente ogni proposito di ricostruzione della chiesa a pianta centrale.
CHIESA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO
La chiesa di San Cetteo, colpita dall'artiglieria il 20 maggio 1799, ospitava la parrocchia intitolata al santo protettore Cetteo, ma in realtà era la chiesa del S. S. Sacramento ad essa contigua. Pescara non ebbe mai infatti, fino agli anni Trenta del nostro secolo, una chiesa espressamente costruita in onore del santo. Occupava quello che oggi è un improprio sagrato dell'attuale Duomo, il tratto di Viale D'Annunzio che lo fronteggia, ma la facciata era rivolta su Piazza Garibaldi.
La relazione della visita pastorale dell'arcivescovo di Chieti del 1841 l'aveva definita di forma irregolare non conforme ad alcun ordine architettonico e priva di qualsiasi abbellimento; l'abate Giuseppe Corazzini, in una lettera all'intendente, la disse "deforme" e l'abate don Settimio de Marinis definiva rozze le due navate che la costituivano. Il pavimento si trovava in cattivo stato ma buono era il soffitto ed era fornita di otto luci con vetrate, una sola porta corrispondente alla navata destra, un piccolo organo, un pulpito di gesso, otto altari, due campane su un campanile in non buone condizioni.
Disprezzata forse più di quanto meritava, era costituita da due navate ineguali, divise da cinque archi: più corta quella di destra detta di S. Giovanni e più lunga quella di sinistra, in fondo alla quale, più alto di due gradini , era l'altare maggiore detto del Sacramento. Di questa chiesa trasfigurando i ricordi dell'infanzia, Gabriele D'Annunzio ne parlò nella novella "La vergine Orsola", accennando ai pilastri enormi sostenenti la navate, coperti di barbare sculture cristiane, ad avanzi di mosaici rilucenti nella penombra delle candele alle pareti, agli ex voto degli scampati a naufragi e alle rosee colonne a spirale sorreggenti il pulpito di marmo, all'ambone fiorito di acanti e animato di bassorilievi.
LA CATTEDRALE DI SAN CETTEO

Con l'istituzione, nel 1927, della nuova provincia di Pescara, si ebbe un notevole incremento di iniziative rivolte alla creazione di strutture adeguate alla nuova realtà della città; ed è in quest'ambito che si inserisce la storia della edificazione della Cattedrale di S. Cetteo, legata alla figura e alla volontà di Don Brandano.

Questi, chiamato a reggerla nel 1929, si assunse l'impegno di dotare Pescara di una nuova chiesa, in sostituzione della vecchia S. Cetteo. Questa sua decisione fu approvata caldamente da Gabriele D'Annunzio, in una lettera del 15 dicembre del 1929 anche perché l'edificio era destinato ad accogliere le spoglie della madre. La chiesa, infatti, si presentava in stato di estremo degrado :i dati fomiti all'epoca dal Genio Civile di Pescara, rilevavano il deterioramento delle strutture murarie, dei pavimenti e, in particolare gravi alterazioni statiche del campanile e delle volte. Ne seguì nel luglio del 1930 una ordinanza del Commissario Prefettizio di Pescara che ingiunse di abbattere il Campanile  di sospendere le funzioni nella Cappella di San Cetteo e di chiudere la Chiesa.
L'intervento si rese necessario perché la chiesa era inserita nell'elenco degli edifici monumentali: presentava infatti, pur nella semplice struttura muraria, un portale di pietra rinascimentale di particolare interesse storico. Con la chiusura della chiesa al pubblico, si fece più pressante l'esigenza di ricostruire integralmente il nuovo tempio. Nel febbraio del 1932, con decreto prefettizio, il Comune di Pescara fu autorizzato ad occupare il suolo occorrente per la costruzione del tempio, adiacente alla vecchia chiesa di San Cetteo e il 27 dello stesso mese Don Brandano, alla presenza delle autorità e di tutta la cittadinanza, prese ufficialmente possesso del suolo dandone immediata comunicazione a D'Annunzio.
Nel maggio successivo il Comune di Pescara deliberava di acquistare dalla sig.ra Filomena Ricci Bucco alcuni immobili e di cederli gratuitamente all'Amministrazione della Parrocchia, dopo la formalizzazione della compravendita, a condizione che essi fossero destinati alla ricostruzione della chiesa di San Cetteo.
A luglio il Ministero dell'Educazione Nazionale autorizzava la demolizione della Chiesa e del moncone del Campanile ad essa addossato per far posto alla costruzione della nuova Cattedrale. 112 aprile 1933 fu posta la prima pietra e in questa occasione Don Brandano pubblicò un manifesto in cui ricordava "... il nuovo tempio di San Cetteo... sorgerà... dove una decrepita casa che pure ora abbiamo rasa al suolo ci ricordava il luogo dove Gioacchino Murat scrisse il "Proclama di Rimini" In questa occasione Gabriele D'Annunzio, a mezzo della sign. Luisa Baccara e del Senatore Alfredo Felici venuto a rappresentarlo, mandò all'onorevole Giacomo Acerbo, ministro allora dell'Agricoltura e Presidente del Comitato d'onore la seguente lettera del 31 maggio del 1933: 
"Mio caro Giacomo, non sono ancora interamente guarito.Per ciò ti scrivo breve, chè il duro sgabello risveglia a quando a quando lo spasimo. Nella scorsa notte quanti sogni, quanti rimpianti; che avean tutti il sapore dolciastro o salmastro della Pescara alla sua foce. Nella mia infanzia io fui un vero" mortaretto" d'agosto per San Cetteo. Come mio padre mi ha trasmesso gli ingegni e le arti del decoratore, io tuttavia lo vedo nell'atto di fabbricare le lanterne (li palluncine) e di sospenderle in ghirlande alle nostre finestre e ai nostri balconi. Anche l'odo recitare, non senza ilarità sottile, alcune strof di un inno composto da un de' miei maestri rimatore corale: "Viva la Santo Cetteo Viva viva lo gran Protettore! Or noi tutti facciamogli onore In Pescara che è rocca di fe.Questo nostro è un fiume letèo? Obliammo dei tempi l'ingiuria? Ecco, il tetto di Dio nell'incuria Gia si crolla. Un sol gemito: Ohimè Siam noi dunque un popolo reo S'Bi ci chiede la Chiesa novella? Con la pietra di Nostra Maiella Sia rifatto l'Altar, Dio mercè" Mio padre mi chiese "mbè, Gabbriè, che ne dice di schti vierse?" Ero lontanissimo dal sentire" Il nuovo Tempio Nazionale della Conciliazione dedicato, oltre che a san Cetteo a tutti i Santi Sommi Pontefici, fu il primo sorto in Italia a ricordo del Concordato tra la Chiesa e lo Stato, avvenimento che il papa Pio XI volle celebrare con il Giubileo speciale di "umana Redenzione".

Il progetto del nuovo Tempio (fig. in alto) fu affidato da Don Brandano all'ingegnere Cesare Bazzani, scelta approvata pienamente da D'Annunzio, il quale suggerì di adottare lo stile romanico abruzzese nelle linee architettoniche della nuova chiesa: in particolare quello della chiesa di S. Maria di Collemaggio. La facciata monumentale a coronamento rettilineo, tutta costruita in pietra, fiancheggiata dal corpo del Campanile da un lato e dal battistero dall'altro, è scandita da lesene in tre parti, ognuna delle quali presenta un portale sormontato da una finestra circolare, corrispondenti alla suddivisione interna in tre navate.
La costruzione" a rustico" con il campanile fu terminata i129 giugno 1934; qualche giorno più tardi, il 2 luglio, il Tempio fu aperto al pubblico. I lavori poterono essere ultimati grazie al contributo degli enti locali e della cittadinanza, ma soprattutto grazie ali'apporto di due milioni erogati dal Governo con Regio Decreto del 17 dicembre 1936. La costruzione del Tempio e dell'adiacente palazzo vescovile fu portata a termine tra il 1938 e il 1939, non completa ancora di rivestimenti in marmo e con l'apporto di alcune modifiche al progetto originario del Bazzani.  Successivamente nel 1949, venne istituita la nuova Diocesi che prese il nome di Penne-Pescara e solo nel 1977 la chiesa fu consacrata Cattedrale. Don Pasquale Brandano deceduto nel giugno del 1987, a più di novant'anni, fu abate di San Cetteo per circa 60 anni. Gli è succeduto Don Giuseppe Natoli.

CHIESA DELLA MADONNA DEL CARMINE
Una nota a parte merita la Chiesa della Madonna del Carmine che si trovava all'interno dell'attuale area demaniale della Caserma Manfredo Fanti a Pescara, adibita ora a Questura. Don Rinaldo, parroco dell'attuale chiesa, ha compiuto degli studi e delle ricerche e ha redatto una relazione sul percorso storico e ricostruttivo della stessa da cui vengono questi documenti tratti da: 'Notizie storiche di G.Muzi' ; 'Pescara' di L. Lopez ; ' Relazioni sull'altorilievo della Madonna del Carmine' di R. Molisani e M.C. Semproni.

La sua odierna collocazione in un contesto militare rievoca curiosamente le sue origini, che la vedevano affiancata ad abitazioni di soldati: "... per la difesa di detto fianco, sinistro, (del fiume Pescara) vi è un fosso murato e fortificato con due baluardi e fosso attorno che lo dicono Villa Rampina nel quale non sono altro che due case per quartiere dei soldati e una cappella definita 'Eclesiae villae Rampinae intus Fortellicium Piscariae'.

Dedicata alla Madonna del Carmine, era .."l'unica chiesa parrocchiale che esisteva a Castellammare e tale rimase fino al novembre del 1665, quando venne aperta al culto la chiesa sulla collina di Castellammare col nome di "Madonna dei sette Dolori". Sfortunatamente la scarsezza delle fonti rinvenute impedisce una più ampia ed approfondita ricostruzione delle sue origini storiche. Al suo interno, nella parete di fondo era situato un altorilievo in gesso del 1600 di modesta fattura, raffigurante la Madonna del Carmine che sorregge il Bambino e testine di angeli che completano l'insieme della raffigurazione, il tutto racchiuso in una duplice cornice centinata ad arco a tutto sesto, arricchita da un cordone di motivi naturalistici.
La facciata principale era a sua volta circoscritta da una cornice fortemente aggettante, che proseguiva in basso con andamento spezzato ed angolare, lungo tutto il perimetro della parete della chiesa. La volta rilevava un ordito sottile di riquadri in stucco arricchiti da motivi fitomorfi in stile compendiarlo. Nel tempo venne denominata chiesa militare fino a perdere la sua destinazione originaria. Per ciò che concerne la storia recente sappiamo che, quando la Caserma M. Fanti veniva utilizzata come Scuola di Polizia Giudiziaria Amministrativa ed Investigativa, (POL.G.A.I). la Chiesa era adibita a deposito e magazzino. Nel 1997 il Provveditorato alle Opere Pubbliche per l'Abruzzo ha iniziato la ristrutturazione dell'intero complesso al fine di ridare al manufatto la sua destinazione originaria.
I lavori realizzati sono stati quelli necessari per rendere riutilizzabile la chiesa e salvaguardare le strutture portanti da una notevole umidità ascendente, che le aveva fortemente degradate. E' stata per prima cosa isolata la pavimentazione interna dal sottostante terreno con l'applicazione di un vespaio aerato, realizzato utilizzando elementi plastici, che, incastrati tra loro, formano una struttura portante, al di sopra della quale è stata predisposta una soletta in cemento armato per la creazione della pavimentazione. Analogo intervento è stato effettuato sul perimetro esterno, dove, grazie ad un sistema di tubazioni di collegamento interno-esterno, si crea una ventilazione continua e naturale della muratura portante. Poi questa è stata isolata alla base per evitare la salita dell'umidità eseguendo dei fori nella muratura.
Le pareti esterne, precedentemente scalcinate, sono state trattate, con intonaco macroscopico di risanamento a base di leganti speciali. Le tinteggiature interne sono state eseguite in tricromia con pittura a base di latte di calce su pareti, cornicioni, lesene, festoni, lo stesso tipo di pittura è stata utilizzata per le pareti esterne. Per il rifacimento della pavimentazione sono stati utilizzati marmi e pietra locale bianca. E' stato infine eretto un altare in pietra locale all'uopo progettato e realizzato. I lavori , dopo una gara mediante pubblico incanto per l'appalto degli stessi, sono stati aggiudicati all'impresa Costruzioni d'Auditorio di Montorio al Vornano per l'importo di L. 112.767.188. La ristrutturazione iniziata nel 2001 è stata ultimata nell'agosto dello stesso anno con i risultati che si possono vedere dalle immagini sottostanti.


LA MADONNA DEI SETTE DOLORI
La leggenda devozionale dell'apparizione della Madonna dei Sette Dolori risale alla fine del XVI secolo o agli inizi del XVII secolo. (fig. in basso) Nel luogo ove sorge l'attuale santuario, oggi Largo Madonna, vi era una folta foresta di querce dove spesso i contadini conducevano al pascolo il loro gregge. In un giorno imprecisato, in mezzo ai cespugli, sarebbe "apparsa", dipinta su una pietra, la scena della Deposizione dalla Croce raffigurante la Madonna con sette spade conficcate nel cuore e sulle ginocchia il corpo esanime di Gesù.

Dopo lo smarrimento iniziale, i credenti si convinsero che si trattasse di un evento straordinario, per cui fu deciso di portare l'immagine in una modesta cappella (luogo abituale di culto) sita in Colle Ruscitelli (odierna contrada De Jacobis), ove, dietro consultazioni, era stato stabilito di erigere una chiesa.
Ma il mattino successivo si verificò un episodio che fu giudicato dai credenti "strabiliante": ai molti curiosi recatisi sul luogo dell'apparizione" per rendersi conto dell'accaduto, l'immagine sembrò essere nel suo posto primitivo, nell'identica posizione del giorno avanti. Si credette ad uno scherzo e pertanto, a sera, il dipinto fu ricollocato al suo posto nella cappella. L'indomani, però, l'episodio si ripropose.
L'immagine fu ricondotta di nuovo nella cappella e furono prese più sicure precauzioni, ispezionando ogni angolo, assicurando per bene porte e finestre e ponendovi una guardia notturna. I guardiani, al mattino, insieme ai devoti accorsi, riferirono del misterioso ritorno dell'immagine nel luogo primitivo, interpretando l'accaduto come il segno della predilezione della Madonna verso quel luogo. Una nuova e singolare leggenda contribuì a sviluppare la devozione verso la Madonna dei Sette Dolori. Contro la siccità che imperversava sulle campagne della zona, i fedeli invocarono l'intercessione di Maria, la cui immagine fu portata in processione per alcuni giorni.
Il 12 maggio, mentre la processione si dirigeva verso il mare, piovve abbondantemente, i raccolti furono salvi e i devoti videro nell'evento meteorologico un segno dell'intervento divino. Ogni anno, a ricordo dell'accaduto, il 12 maggio ricorre la celebrazione religiosa della "giornata del ringraziamento". Poco tempo dopo tempo l'apparizione mariana, fu eretta una cappella con un altare su cui posero l'immagine. Vi eressero una cupola dove sistemarono una campana che fu successivamente (1888) collocata sulla odierna torre campanaria e precisamente nel finestrone rivolto verso il mare. Il 26 novembre 1665 (giorno in cui si tenne il primo battesimo) fu istituita dal vesco­vo Raffaele Esuberanzio la parrocchia con il titolo "Santa Maria dei Sette Dolori".
In seguito fu progettato e realizzato un nuovo e più grande santuario che, probabilmente, ha inglobato la primitiva e piccola cappella. L'attuale santuario venne consacrato ufficialmente il 30 maggio 1757 dal vescovo di Penne e Atri Monsignor Gennaro Fezzelli.

L'8 dicembre 1948 il santuario veniva affidato dalla Santa Sede all'Ordine dei Frati Minori Cappuccini ed il 6 marzo 1949 Alberto da Vasto fu nominato parroco della parrocchia della Madonna dei Sette Dolori, anno in cui Benedetto Falcucci divenne primo vescovo della nuova Diocesi di Penne-Pescara. 113 dicembre 1952 il papa Pio XII proclamava in perpetuo la Madonna dei Sette Dolori celeste patrona della Diocesi di Penne-Pescara.

Desiderando che il santuario mariano accrescesse la sua importanza, per poterne propagare di più il culto, dietro istanza del vescovo Benedetto Falcucci prima, e per interessamento dell'arcivescovo Antonio Jannucci poi, con decreto del 16 gennaio 1959 del papa Giovanni XXIII, si eleva la chiesa, consacrata a Dio in onore della Beata Vergine Maria dei Sette Dolori, alla dignità di Basilica Minore.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
I documenti e le immagini sono tratti dall’Archivio di Stato di Pescara.

Federico Caffè, maestro di economia e di vita

Nella pagina dedicata ai personaggi illustri della città ci occuperemo questa volta di Federico Caffè grande maestro di economia e di vita, uomo di cultura ed intellettuale di grande spessore morale che ha posto sempre alla base del suo pensiero il disprezzo per lo sfruttamento degli emarginati e delle categorie più deboli. La sua visione economica non era infatti di tipo elitario ma attenta alle vicende della gente comune che produce e risparmia, alle fasce più deboli della società. Ma Caffè va ricordato soprattutto per aver lasciato ai giovani, fra i tanti insegnamenti, quello che la ricerca della conoscenza deve essere svincolata da ogni interesse di parte.

BIOGRAFIA
Federico Caffè nacque a Pescara il 6 gennaio 1914. Sulla sua data di nascita una volta scherzo' sopra dicendo: la Befana mi ha lasciato in una calza, ma era piccola, piccola. Il professore fisicamente non era un gigante: arrivava a malapena al metro e mezzo.
Ma non ha mai dato segni di soffrire per la sua altezza. Anzi, a volte ci scherzava: al bar quando gli offrivamo un caffe', specificava "corto" o "ristretto".
Il padre uomo pratico, privo di titoli di studio, faceva l’assistente capo-merci delle Ferrovie dello Stato e fu il primo Caffè a pagare in maniera pesante le sfortune economiche che si erano abbattute una generazione prima su quella che era stata una famiglia di un certo rango. Suo padre, il nonno Federico, aveva posseduto una villa settecentesca nella parte storica di Pescara e una dimora signorile estiva in collina . Suo nonno si vantava della propria origine , anche se ormai aveva perduto tutto ed era sommerso dai debiti accumulati oltre che da lui stesso anche dai suoi avi. Avrebbe voluto fare il medico ma, dopo la licenza liceale fu costretto ad impiegarsi nelle Ferrovie dello Stato nelle quali farà poi entrare anche il figlio, il padre di Federico.

Il crollo era sopravvenuto per cattiva amministrazione : avevano preteso troppo dalle proprie rendite vivendo di padre in figlio soltanto di esse. Dalla ricchezza all’indigenza , i remoti splendori furono sempre soprattutto motivo di sorriso , tanto non restava più niente se non la casa in collina che il nonno era riuscito a proteggere dai creditori. Una Costanzella Caffè viene così ricordata in una delle “Novelle della Pescara” di Gabriele D’annunzio: La contessa di Amalfi : “ Costanzella Caffè la più agile e la più infaticabile fra le danzatrici e la più bionda, volava da un’estremità all’altra in un baleno…” Costanzella era una zia del bisnonno di Federico.
In casa nessuno lo chiamava Federico, sino alla fine lo chiameranno Vinicio, come a rimarcare una volta di più la differenza tra il Caffè professore e uomo pubblico e il Caffè delle mura domestiche.
Lo chiamavano Vinicio perché il nonno paterno Federico, quando lui nacque, pur mostrandosi soddisfatto che gli avessero dato il suo nome, disse in maniera secca che non era affatto morto, allora la madre, per rispetto verso il suocero, cominciò a chiamarlo con il suo secondo nome, perché di Federico doveva essercene uno solo.

La madre, donna creativa ed estrosa “quasi geniale” secondo il figlio, arrotondava le entrate ricamando, anzi dirigendo un vero e proprio laboratorio di ricamo nel quale lavoravano parecchie ragazze. Per la madre Caffè nutrirà un’autentica venerazione, così come lei ne nutrirà per questo figlio insopportabilmente piccolo, ma indubbiamente geniale, una sorta di orgogliosa predilezione, convinta di essere stata risarcita dalla vita attraverso di lui, di quello insoddisfatto bisogno di cultura che si portava dentro da sempre. Ma ,comunque se la cavassero economicamente, le porte della casa si spalancarono subito all’arrivo di una ragazzina raccomandata dal parroco Giulia che diverrà l’angelo custode della famiglia. Crebbe Mariannina la primogenita, Vinicio e Alfonso l’ultimogenito. Fu una seconda madre più che una “tata”, che morirà vecchissima assistita con grande amore e pazienza da Federico.
Sin dalla prima giovinezza Vinicio mostrò una natura orgogliosa e severa ; a dieci anni la madre già gli affidava missioni da adulto: un giorno lo mandò a trattare la locazione di un appartamento: “ Vedrai che te la caverai benissimo” gli disse dopo avergli dato le necessarie istruzioni. Il piccolo spiegò infatti alla proprietaria : i limiti insuperabili dell’eventuale affitto, la composizione della propria famiglia, le reciproche convenienze a stipulare quel contratto. La locatrice ne rimase talmente incantata da accettare in blocco tutte le sue condizioni.
Avrebbe voluto suonare il violino e fu lui stesso, ancora molto piccolo, a chiedere alla madre di ricevere lezioni private che gli consentissero di imparare il suo strumento preferito. Se ne era innamorato frequentando la sala cinematografica dello zio Antonio Di Silvestro che in Italia è stato uno dei pionieri dei fratelli Lumière. Mariannina a proposito di quel periodo ricorda che lei e Vinicio erano stregati dal cinema e dalla sala che riempiva la vita di entrambi ma soprattutto di Vinicio che dedicò parecchio tempo all’ Excelsior staccando i biglietti al botteghino e tenendo a sera la contabilità. Frequentava regolarmente la sala Michetti : minuto di statura col pizzetto accompagnato da Annunziata sua moglie donna altissima.
Ogni volta che poteva il ragazzo vi si recava per i film certo, ma anche per ascoltare l’anziano violinista che sembrava facesse volare l’archetto sulle corde del suo strumento. Era capace di starlo a guardare con ammirazione per ore, tanto che un giorno il musicista gli chiese , se gli piaceva così tanto il violino, perché non lo diceva a sua madre, anzi che l’indomani sarebbe andato lui a chiederglielo. Così fece.
Il giovane Vinicio, dopo un paio d’anni di studio, però fu costretto a smettere in quanto la madre, preoccupata per la sua gracilità , si era rivolta ad un medico che le aveva suggerito di non sovraccaricare il figlio . Fu il padre a comunicargli la sentenza dicendogli che la vita non era un gioco e che gli studi di ragioneria gli avrebbero permesso sbocchi professionali futuri e soprattutto un reddito.
Pescara allora si poteva racchiudere in un guscio di noce: compatta , visibile in ogni sua parte col porto dei pescherecci, i villini distanziati sul lungomare, la linea curva del Bagno borbonico. Dalle finestre della casa della nonna materna, che abitava a Colle di Mezzo, Vinicio ( lo ha raccontato lui stesso a Nadia Tarantini, autrice di un suo ritratto) girando lo sguardo”poteva godersi tutta la cornice di mezza costa da Colle Telegrafo a Colle Innamorati”.
Dopo le elementari Mariannina e Vinicio furono iscritti all’Istituto Tecnico “Tito Acerbo” ; una necessità dato che, a quei tempi a Pescara non esisteva altro tipo di scuola, il Liceo sarà istituito soltanto nel 1930. Caffè divenne dunque economista suo malgrado , visto che prima la musica e poi gli studi umanistici, che avrebbe preferito, gli furono interdetti.
Ma al “Tito Acerbo” in quegli anni non si studiava soltanto ragioneria : si respirava un’atmosfera culturale diversa grazie al preside il prof. fiorentino Ugo Fazzini che incitava alla lettura e organizzava concerti di musica classica nell’aula magna che erano di stimolo per studenti e genitori.
A scuola la sua intelligenza e preparazione gli valsero ben presto una rispettosa popolarità : i compagni non facevano niente che lui non volesse. Quando Vinicio sostenne la prova di maturità il commissario d’esame , arrivato a Pescara da un’altra città , rimase fortemente impressionato dalla sua maturità e preparazione. Gli chiese allora quale Università avesse deciso di frequentare ma lui rispose “Non credo che andrò all’Università: ho bisogno di lavorare.” Il commissario incredulo si presentò di persona alla Stazione di Pescara per parlare con papà Caffè : caschi il mondo il suo ragazzo deve continuare a studiare. La questione fu risolta la sera stessa da sua madre che confessò di essere già in trattativa per la vendita di un piccolo terreno che aveva conservato proprio a questo scopo.
E Federico partì per Roma giurando in cuor suo di riacquistare la proprietà al più presto il che ( testimonia Giovanna la nipote figlia di Mariannina) avvenne pochi anni dopo. Si laureò nel 1936 con lode in Scienze Economiche e Commerciali e dal 1939 fu assistente volontario alla cattedra di politica economica e finanziaria. Dopo un periodo di servizio militare nel 1945 fu consulente del Ministro della Ricostruzione M. Ruini durante il governo Parri. Nell’anno 1946-1947 vinse una borsa di studio presso la London School of Economics. Tornato in Italia, ebbe incarichi in varie universita': Bologna , Messina e Roma. Visse solo pur compiendo frequenti viaggi e lunghi soggiorni a Pescara fino al 1959 quando diventò professore ordinario di Politica economica. Prese allora in casa la “tata” Giulia , la madre rimasta vedova e Piero , figlio di Mariannina ,che aveva gravi problemi di salute. Si era infatti ammalato per ragioni oscure forse per un danno avvenuto alla nascita prodotto dal forcipe. Morirà all’età di tredici anni. Il ragazzo rimase a casa dello zio pochi anni durante i quali lui fece tutto quello che era umanamente possibile per alleviare le sue sofferenze con grande cura e dedizione.
Racconta Giovanna la nipote, che era un uomo dolcissimo e che la sua brillante conversazione riempiva di allegria e intelligenza le loro domeniche e i giorni festivi quando venivano da Pescara gli zii. Ricorda anche la dedizione all'insegnamento, alla ricerca e ai giovani, ai poveri e agli emarginati, ma e soprattutto la sua umanita', dalla quale discendevano gli altri aspetti del suo carattere e la sua condotta, sia nel suo luogo di lavoro, l'universita', che nella societa'. Era questa umanita' coerente che lo portava ad interpretare la professione di pubblico impiegato nel modo piu' pieno e attivo, con orari che egli definiva "da metalmeccanico".
Occupò la cattedra di Politica economica e finanziaria dell' Universita' “La Sapienza di Roma, dove rimase fino al compimento dei 73 anni.

LA POLITICA ECONOMICA
Caffe' , a volte definito"riformista radicale", era di formazione keynesiana e fece sempre una coerente opposizione all'ondata liberista e monetarista che dominava la scena all'inizio degli anni '90. La sua concezione economica è in netto contrasto con la cosiddetta "cultura dell'imprenditoria" thatcheriana e reaganiana degli anni '80. Sostenitore della centralità dello Stato Sociale, quindi convinto che le sue disfunzioni dipendano solo dal malcostume del clientelismo, riteneva che l'economia ha il dovere di risolvere le condizioni di vita dei più deboli favorendo l'assottigliamento delle disuguaglianze.
Caffe' era un liberale ma riteneva che il partito liberale avrebbe potuto essere lo strumento migliore di progresso solo con una guida forte e il programma giusto.
Era un liberale aristocratico e progressista come il Keynes di cui colse gli elementi di novità. Di lui amava ricordare che: “presto o tardi sono le idee e non gli interessi costituiti che sono pericolose sia in bene che in male”
Ma fu un liberale che scriveva soltanto su un quotidiano comunista. Una spiegazione probabile e' che Caffe' vedeva nel "Manifesto" l'unico giornale, il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto, e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero e soprattutto per mantenere una assoluta indipendenza di giudizio. Egli era contro il mercato fine a se stesso, contro la dottrina che affida alla cosiddetta “mano invisibile” il governo del mondo. Ma la sua battaglia più dura fu contro il mercato finanziario.
E’ memorabile la sua definizione della “ borsa” che egli considera “un gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori..”. Ma egli fu anche un uomo delle grandi istituzioni dello Stato alla cui funzioni credette fermamente, è noto a questo proposito il suo legame con la Banca d’Italia. Significativo il ricordo di Carlo Azeglio Ciampi : “… nella relazione annuale ..era sempre presente, seduto in silenzio, Federico Caffè. I suoi interventi erano i più misurati… la sua presenza era utilissima , perché spesso gli animi si scaldavano e quando c’erano contrasti o critiche , contraddizioni molto forti,, Caffè, con la sua matitina, vergava sul margine delle bozze la soluzione che accontentava tutti. Era un forte elemento di moderazione anche linguistica, proprio lui che veniva considerato di sinistra…”

FEDERICO CAFFE’ E IL MISTERO DELLA SUA SCOMPARSA
La notte tra il 14 aprile e il 15 aprile 1987 Federico Caffè uscì in punta di piedi dalla sua casa romana di via Cadiolo 42, a Monte Mario e fece perdere ogni traccia. Aveva 73 anni. Il giallo della sua scomparsa iniziò a un'ora imprecisata ma avvenne all'insegna dell'ordine e della disciplina che aveva caratterizzato tutta la sua vita: indossò pantaloni grigi, giacca scura e leggero soprabito blu, tipico di certe nottate primaverili romane; sul tavolo lasciò in bella vista orologio, passaporto, libretto degli assegni, portafoglio, chiavi di casa , quasi avesse voluto operare una cesura con la sua identità precedente di studioso e di uomo.
Si chiuse alle spalle la porta di quella stanzetta ammobiliata dell'indispensabile ,senza neppure quadri alle pareti, al di fuori della riproduzione di un crocefisso di Giotto. E scivolò all'esterno come un'ombra, senza che nessuno lo notasse. C'erano i netturbini ad affaccendarsi per le strade, una nuova alba si preparava a sorgere su Roma. Solo intorno alle sette il fratello Alfonso notò il letto vuoto, mai pensando che da quel 15 aprile lo sarebbe rimasto per sempre.
Amici e conoscenti li chiamavano "i due Caffè" con l'affetto e la simpatia che si può avere per due fratelli che sin da giovani avevano deciso di non sposarsi, vivendo sotto lo stesso tetto e dividendo per decenni, abitudini, discussioni, progetti. La sorella che viveva a Pescara e i loro nipoti più volte avevano insistito affinché si trasferissero sull'Adriatico o quantomeno andassero a trascorrere molti dei loro mesi al mare. D'altronde Federico Caffè non aveva più i suoi impegni fissi all'Università. E anche Alfonso aveva lasciato l' Istituto "Massimo" dei Gesuiti dov'era stato professore di lettere. Ma i due non riuscivano a immaginarsi lontani da Roma. Ed erano rimasti nella capitale nonostante continuassero a fare una vita molto appartata. Insieme avevano visto morire l'ormai anzianissima madre. Insieme avevano accompagnato all'ultima dimora anche la tenera “tata” Giulia. Logico pensare che "i due Caffè", persone distinte e perbene, si sarebbero fatti compagnia sino alla fine dei loro giorni. Invece, quel 15 aprile del 1987, ecco quel letto vuoto.
"Era lucidissimo, ma chiaramente in preda alla depressione", disse qualcuno. Per il Professore la lontananza dalle aule universitarie, la tanto sospirata pensione non era diventata "l'agognato riposo di una vita di lavoro" ma era vissuta quasi come un esilio.
Ad aggravare certi suoi stati d'animo la tragica perdita in un paio d'anni di tre discepoli: Ezio Tarantelli massacrato dalle Brigate Rosse , Fausto Vicarelli morto in un incidente stradale e Franco Franciosi in un lettino d'ospedale, ucciso dal cancro. Erano i tre discepoli che stravedevano per la sensibilità, la preparazione e la cultura del Professore.
E il Professore li ripagava con uguale stima e amore. Ma il sentirsi sempre più solo,con quel suo unico fratello che adorava e da cui era adorato, poteva valere quella scomparsa all'improvviso? Chi però avrebbe potuto dirsi sicuro che la decisione fosse davvero maturata senza che nulla la preannunciasse? Quando, quattro giorni prima della sua scomparsa, il discorso era caduto sul suicidio dello scrittore Primo Levi (gettatosi si pensa dalla tromba delle scale) si racconta che Caffè se ne sarebbe uscito con questa frase: "Che gran brutta maniera di uccidersi. Che spettacolo straziante farsi trovare così dai parenti". Un indizio da far sospettare che anche l'economista pensasse al suicidio, ma in un modo meno clamoroso e meno pubblico. Comunque la sua silenziosa scomparsa e la mancanza del cadavere non poteva che alimentare ipotesi e congetture. Il "caso Caffè" entrava tra "i misteri d'Italia.
Bruno Amoroso, nel suo libro : “La stanza rossa” ripercorre l´avventura intellettuale ed esistenziale del suo maestro e ne rivela le tensioni profonde, gettando una luce inedita sulla sua scelta finale. Non è un caso che Caffè fosse rimasto colpito dalla fuga di Tolstoj. L’economista, che per tutto il libro racconta in prima persona, giudicava positivamente l ´usanza degli indiani vecchi di andarsene a morire lontano dalla tribù o degli anziani eschimesi di allontanarsi verso nord scomparendo tra i ghiacci .
Il ritratto di Caffè che emerge dalle pagine di questo libro, dalle numerose lettere inedite del maestro all´allievo e amico, è quello di uno studioso attento alla vita quotidiana della gente, che preferiva fare in autobus il tragitto fra l´abitazione e l´università per poter osservare la varia umanità che l´autobus inglobava al suo interno. Sono davvero toccanti le pagine in cui Amoroso racconta la simpatia di Caffè ‹‹per quelle migliaia di persone di cui non si parla mai, delle quali si sa poco o nulla›› e che il grande economista osservava con occhio attento e con partecipe simpatia. L´autobus era per lui il punto d´osservazione per studiare il mutamento dell´Italia degli anni del boom economico. È sorprendente questo cattedratico che preferisce le escursioni domenicali nelle borgate romane agli incontri accademici e che è cosciente del “ghetto di privilegi” in cui vivono gli intellettuali.
Anche Ermanno Rea, napoletano giornalista che ebbe a vivere vent'anni fa la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli ,con stile scrupoloso e paziente ha ricostruito l'ultimo periodo della vita di Caffè nel suo libro “L’ultima lezione” .
Non è una biografia ma la storia di un caso umano, di un grande economista diventato un "uomo guardingo", nel senso che si serviva della riservatezza, e della naturale timidezza, "come di uno schermo dietro il quale nascondersi". Quando fuggì, era anche "fisicamente debilitato", per cui non appariva in grado di affrontare lunghi percorsi; d'altronde nessun taxi andò a prelevarlo, nessun conducente di autobus lo ricorda.

Caffè si sentiva comunque un uomo solo: "Diceva: ecco, guarda come tutto finisce... Oppure: ma perché la sorte si è accanita contro di loro, così giovani, e non contro di me, così vecchio e malandato?" ››. Il libro è scritto come un giallo: perché Caffè scomparve e che cosa accadde di lui?. L'ipotesi del suicidio è stata tacitamente accettata dalla maggior parte delle persone che conoscevano l'economista, ma Rea prende anche in considerazione la possibilità che Caffè abbia scelto la segregazione tra le mura di un convento. Il sottosegretario della congregazione che si occupa degli istituti "di vita consacrata" da lui interpellato, ha spiegato, infatti, che la Chiesa è disponibile a dare protezione a chi desidera isolarsi dal mondo, entrando come laico in una comunità di monaci o di eremiti: "E’ certo che nessuno saprà più niente di lui".
La vicenda di Caffè è stata avvicinata a quella del fisico nucleare Ettore Maiorana anche lui misteriosamente scomparso (si imbarcò da Napoli la sera del 25 marzo 1938 e non arrivò mai a Palermo) e anche per lui si ipotizza che abbia scelto di rifugiarsi in un convento. Questo evento viene trattato da Sciascia nel suo libro: “La scomparsa di Ettore Majorana”. Caffè amava Sciascia e , fatto curioso, sembra che dalla libreria del professore mancasse proprio quel libro”.
La vicenda Di Federico Caffè e della sua misteriosa scomparsa è stata raccontata anche nel film di Francesco Rosi, “L’ultima lezione” liberamente tratto dal libro omonimo di Ermanno Rea.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
I documenti e le immagini sono tratti da “L’ultima lezione” di Ermanno Rea, “Federico Caffè” a cura di Nicola Mattoscio e Silvestro Profico, “La stanza rossa “ di Bruno Amoroso, “La scomparsa di Ettore Maiorana” di Leonardo Sciascia