lunedì 21 novembre 2022

Patrizia D’Andrea: artista dall’ intensa ed emozionale linfa estetica e cromatica.

 



La pittrice Patrizia D’Andrea nasce a Penne (Pe) e vive a Pineto (Te) dove ha il suo apprezzato atelier. La ricerca artistica l’accompagna durante l’adolescenza e la giovinezza con studi relativi ai modelli classici e contemporanei della storia dell’arte, finché nel 1993 entra a far parte dello studio d’arte del Maestro Gianni Massacesi, dove prosegue la sua ricerca, con l’obiettivo di acquisire uno stile personale e la padronanza del linguaggio pittorico.

La sua intensa policromia dona ottimismo e luminosità interiore; la sua pittura si inserisce nelle connotazioni linguistiche dell’Espressionismo: cromatismo libero e violento, contrasti chiaroscurali,  gestualità diretta e impetuosa costituiscono coordinate stilistiche eccellenti.
Cosi l’artista si descrive: “Dipingere per me è un bisogno essenziale e irrefrenabile. La pittura mi regala straordinarie emozioni e soddisfa la mia inesauribile ansia di creare. I miei dipinti nascono da sentimenti, quali la tristezza, l’inquietudine, che mi portano ad avere uno sviluppo positivo, e per uno strano contrasto il mio stato d’animo migliora perché fare arte è prendersi cura del proprio sé generando bellezza. Comunque i veri protagonisti della mia pittura sono i colori; infatti la ricerca di un cromatismo forte diviene il tramite per esprimere calma, allegria, serenità, passione, tormento, silenzio”.  (Patrizia D’Andrea)  

Come scrive il critico Leo Strozzieri, Patrizia D'Andrea è una delle voci più autorevoli della ricerca pittorica al femminile non solo in Abruzzo, avendo ormai una notorietà internazionale, come sta a dimostrare la sua attività espositiva in importanti città italiane ed estere, come Napoli, Biblioteca Civica “A. Labriola”, Roma Galleria d’Arte Medina, Urbino Galleria Federico Barocci, presso il Collegio Raffaello, Molfetta Sala Templari curata da Vincenzo Scardigno e Vincenzo Cordero, il Museo MACA  a cura di Giorgio Di Genova ed Enzo Le Pera, Siena Palazzo Pubblico nella Sala Delle Lupe e Piazza Del Campo, infine a Firenze presso il Circolo degli Artisti e Casa di Dante
A Mosca Galleria Selenograd curata da  Gianfranco Maiorano, ad Amsterdam Esposizione alla settima edizione dell’ADAF, Annual Dutch Art Fair, presso il celebre World Fashion Centre.

La pittrice ha vinto numerosi Premi e Riconoscimenti come il Premio Istituzionale della Regione Liguria alla Mostra Internazionale d’Arte “Ligures”, Riconoscimento dal Comune di Napoli, Premio Gabriele d’Annunzio a Pescara. 



Nel 2018 fonda con altre tre donne il Gruppo 4, che inaugura la Rassegna “Arte&Donna" e la mostra “L’arte al femminile nel mondo liquido” presso il Museo Vittoria Colonna di Pescara presentata Vittorio Sgarbi, Carlo Fabrizio Carli, Marialuisa De Santis e Cosimo Savastano. 


Nel 2020 ha vinto il Premio della Critica al Concorso Artistico "Le Immagini della Memoria - covid19" Chieti.

Nel 2019 presso la galleria di “Progetto Auto” è curatrice della mostra "Da Basilio a Basilè: 30 opere dei Cascella lungo un secolo".

Nel 2021 ha ricevuto una menzione speciale alla 3°edizione di Art-e orizzonti artistici dal direttore del Maco Museum Luciano Costantini. Inoltre a Castelbuono (PA) vince il 3° Premio al Concorso Internazionale d’Arte Pittorica “Castelbuono Cuore d’Artista”.

Nel 2022 riceve il Premio Speciale della Critica al Premio Accademico Internazionale d’Arte Contemporanea “Apollo Dionisiaco” IX edizione. E’ presente in cataloghi nazionali e internazionali, tra cui il Rubbettino Editore “Percorsi d’Arte in Italia 2015” e “Annuario d’Arte Moderna” Artisti Contemporanei 2022.

La sua bibliografia vanta oltre cento pubblicazioni.  Le sue opere figurano in collezioni private, luoghi di culto, e musei, come il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara, la Camera di Commercio di Chieti, la Pinacoteca Corrado Gizzi, presso Guglionesi (CB) e il Museo Patini Castel di Sangro. Ha fatto parte della giuria premiante in importanti manifestazioni artistiche, tra le quali il prestigioso Premio Celommi.  
Hanno scritto di lei: Vittorio Sgarbi, Sandro Melarangelo, Marialuisa De Santis,  Elisabetta Mancinelli, Enrico Trubiano, Leo e Chiara Strozzieri, Carlo Fabrizio Carli, Cosimo Savastano.  
 
Diversi critici d’arte hanno cosi recensito la pittrice. 
                        
 Marialuisa De Santis
La pittura di Patrizia D’Andrea spazia liberamente dall’aniconico ad opere in cui il colore si condensa e finisce col determinare con completezza figurale immagini per lo più femminili. L’uso sapiente del colore di derivazione, potremmo dire solo in maniera superficiale e non esaustiva, espressionista è in realtà metafora esso stesso del fluttuare contemporaneo e di un apparire emotivo e poco nascosto  magmatico universo femminile che dà vita ad un cromatismo luminoso e seducente.
Arte che condiziona la vita e viceversa; per D’Andrea non esiste l’una senza l’altra e ad entrambe è data una funzione conoscitiva sia pure di un sapere instabile e mutevole: un sapere turgido di sensazioni, palpitante ed emozionale, un tutt’uno con un caleidoscopio di colori avvolgenti, lontani da qualsiasi crudezza oggettiva, capaci di stupire e di sedurre, nell’abbondanza di toni e accostamenti.”
Il suono fragoroso della sua “cascata pittorica”  si rovescia sulla tela in sapienza di colori e di tagli prospettici, si addolcisce, si fa forte, a volte lontano, si fa linee, colori creando uno spazio intensamente e sensualmente cromatico. 
In un mondo, quello dell’arte, in cui la donna è stata quasi sempre musa e raramente artista, e quindi quasi sempre dipinta con uno sguardo essenzialmente maschile, privilegiare figure femminili va letto, nel caso di D’Andrea, come affermazione della propria identità, del proprio sentire ma anche del proprio corpo e  della propria sessualità: tutte le sue figure femminili sono ideali autoritratti in cui coglie le diverse psicologie del suo essere donna.
La sua non è però una pittura della donna in quanto tale poiché come ha scritto Simone De Beauvoir: “Essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia. Non c’è un destino biologico e psicologico che definisce la donna in quanto tale. Tale destino è la conseguenza della storia della civiltà, e per ogni donna la storia della sua vita”.
La pittura di D’Andrea è quindi pittura del suo particolare sentire, delle sue esperienze, di ciò che ha condizionato o arricchito la sua esistenza.In lei però si fa particolarmente evidente la qualità di coloro che sono state escluse per secoli, dal mondo dell’arte: l’ indole combattiva nient’affatto intimorita o dimessa: la sua è pittura di  grande forza e di grande seduzione che vive, senza alcun pregiudizio, in un gioco dinamico e godibile di segni e di immagini.


                           
 Cosimo Savastano 

I personaggi maschili e prevalentemente femminili, che vivono nelle tele di Patrizia D’Andrea fra disinvolti e persuasivi richiami di stampo figurativo non privi di scoperte allusioni narrative  soffusamente poetiche ma non svilite da frange dolciastre, si accampano fra spazi circonfusi da un articolato e deciso sovrapporsi o digradare di tinte splendenti proposte attraverso tassellature dalla variegata intensità lirica e qualità cromatica. Ne derivano spartiti pittorici che, pur rispondendo ad una univoca conseguenzialità di ispirazione e conservando una loro stretta coerenza, si configurano felicemente proclivi, nelle diverse prove, ad un fertile, continuo e sempre persuasivo rinnovarsi  della fioritura creativa, mostrandosi ove intesi a perseguire una sintesi fra forma e colore  ed ove proclivi a superarne termini e propositi per assumere, in corso d’opera, una loro incontenibile e convinta preminenza di tale intensità da tendere verso soluzioni che sfiorano l’astrattismo o l’informale






                               
Vittorio Sgarbi
“Patrizia D’Andrea adotta un linguaggio espressivo di matrice informale che non esclude la figurazione dai propri orizzonti. Non si tratta, però, di una figurazione che assume una sua centralità nell’elaborazione delle opere, quanto di una conseguenza indiretta, talvolta perfino incidentale, che scaturisce dall’interazione fra pulsioni cromatiche entro le quali sembra concentrarsi tutta l’energia possibile. Le forze in ballo si dispongono lungo strutture diversificate, ora a grappolo, ora a spazio più racchiuso, confidan


do sul vigore di pennellate piene e la vitalità generata dal contrasto perenne fra toni caldi e freddi che fanno da sensori a un’emotività fortemente coinvolta e trascinante.”

Conclusioni

Il percorso personale ed emozionale di Patrizia D’Andrea nel tempo ha avuto un’ evoluzione in cui la completezza figurale delle immagini, fluttuando nel contemporaneo, lascia un apparire diverso suscitando sensazioni avvolgenti in grado di sedurre con i suoi incisivi tratti di colore intensi e sensualmente romantici.



 Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com

p.dandrea@yahoo.it  
 www.patriziadandrea.com 
www.facebook.com/dandreart/


giovedì 9 giugno 2022

VILLA BADESSA : UNA PICCOLA OASI ORIENTALE


In Italia sono presenti diverse isole allogene di antico insediamento, comunità appartenenti ad altra stirpe che convivono  con la popolazione locale pur conservando i propri riti e la propria lingua. Il più “giovane e settentrionale” insediamento di origine albanese risale al XVIII secolo ed è localizzato in Abruzzo a Villa Badessa un paesino situato nella fertile vallata del fiume Nora immerso nel verde della campagna pescarese tra coltivazioni di viti e ulivi.

 

LA STORIA

Sin dal XV secolo molte famiglie albanesi, per sfuggire all’oppressiva egemonia e persecuzione religiosa dei turchi, emigrarono in Italia in epoche diverse nelle regioni: Abruzzo, Molise Puglie, Lucania, Calabria Sicilia. Provenivano dall’Epiro storica regione a sud dell’Albania ed erano originari dei villaggi epiroti di Piqèras Ljukòva, Nivizza, Shen Vasilj, Corfù.

Un nucleo, composto da circa 23 famiglie, arrivò in Italia nella prima metà del XVIII secolo, si fermò nella nostra regione e trovò benevola accoglienza ed ospitalità dal Re Carlo III, Borbone di Napoli, che li accolse prima nel tenimento di "Bacucco", attuale Arsita, dipendente del Feudo di Penne, poi nel territorio di Pianella, ed elargì loro i terreni ereditati dalla madre Elisabetta Farnese, ed espropriò per loro altri appezzamenti tenuti in enfiteusi dal Signori Taddei, in Contrada "Abbadessa" di Pianella, e da cui il Paese prese il nome: Villa Badessa.


Il piccolo nucleo, che era accompagnato da due sacerdoti ortodossi ai quali fu affidata la cura spirituale della comunità, si insediò ufficialmente in Abruzzo il 4 marzo 1744. Questo si evince da atti notarili dell’epoca che rilevano che le famiglie albanesi giunte nel territorio di Pianella erano proprio 23 di cui sono annotati i cognomi , i terreni assegnati, gli approvvigionamenti, le condizioni e le garanzie da osservare verso la casa Reale. Il documento che conferma l’epoca di arrivo della comunità cosiddetta “arberesche” in Abruzzo è un vecchio registro dei battezzati presente nella casa canonica in cui si trova anche l’annotazione del primo battezzato che reca la data del 18 novembre 1743.

La peculiarità di questo villaggio risiede nella preziosità dei suoi riti e della sua cultura. Le tradizioni del paese d’ origine si sono tramandate nei secoli e sono tutt’ora rispettate e gli Albanesi di Villa Badessa come, tutte le popolazioni che si rifugiarono in Italia, continuano ad esprimersi nel loro idioma, e a seguire la liturgia di rito greco bizantino. Battesimi, matrimoni, funerali, celebrazioni ma anche la messa domenicale, hanno caratteri e cerimoniali di grande suggestione, assai diversi da quelli occidentali soprattutto per la mancanza di simulacri scolpiti, al loro posto icone tutte di grande importanza storica e documentale e alcune di notevole valore artistico, presenti nei riti e nelle processioni.

 

LA CHIESA  PARROCCHIALE

La Chiesa parrocchiale è dedicata alla Theotocos Assunta in cielo, Kimisis, costruita nel 1754 , è l’unica in Abruzzo di  rito greco-bizantino che fa capo all’Eparchia di Lungo in Calabria.

Un piccolo edificio con elementi tipici dell’architettura religiosa greco balcanica con struttura esterna semplice e austera, trifore sulla facciata e un pronao semicircolare che mette in comunicazione il mondo esterno con l’interno accompagnando il fedele durante l’ingresso nell’ambiente sacro. Ma è l’interno che colpisce e stupisce con l’iconostasi nella zona terminale, la parete, il paravento che separa lo spazio dei fedeli da quello riservato al papas e soprattutto le 75 preziose icone: dipinti su tavole dal XV al XX secolo. Le brillantissime Iconostasi risplendono arricchite da sfondi in oro puro che conferiscono sacralità e richiamano al legame della ritualità greco-bizantina con quella delle origini. Nel 1965 alcune tra le più preziose icone furono interessate da un'importante campagna di restauro voluta dal papàs (parroco) Lino Bellizzi e dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione (divenuto poi Ministero dei beni culturali) che le dichiarò “opere di interesse nazionale” tali da costituire la più ricca collezione di icone epirote.


Nella cultura bizantina e slava le icone sono prestigiose e culturalmente molto importanti. Dal greco “eikon” “immagine” queste sacre raffigurazioni sono dipinte su tavola di legno scavate all’interno in modo da creare uno sbalzo sul bordo che era la cornice dell’opera. In realtà l'icona è l'espressione grafica del messaggio cristiano, per questo motivo nelle lingue slave le icone non si dipingono ma si “scrivono”, al punto che si può parlare di arte teologica e non di arte religiosa.

 

                             




                                       

LE FESTIVITA'


Una importante ricorrenza dell’anno liturgico bizantino, è la festa di Maria Odigitria (“che ci guida”) si svolge l’8 settembre a Villa Badessa. Si celebra con una suggestiva processione serale di sontuosa scenografia orientale, in cui viene portata la preziosa icona di arte greco-bizantina raffigurante l’Odigitria custodita nella chiesa dell’ Assunta insieme a molte altre realizzate tra il XV e il XX secolo.






Le celebrazioni della Settimana Santa a Villa Badessa hanno inizio con gli “enkomia”, il pianto delle donne durante la veglia notturna sulla icona della deposizione di Cristo. Nelle ore antelucane della domenica di Pasqua, il papas, rivestiti i paramenti solenni con l’icona della Resurrezione e seguito dai fedeli che hanno passato con lui la notte in preghiera nella piccola chiesa, dà vita ad una suggestiva processione che, partendo dalla iconostasi interna si reca sul narcete che si apre davanti alla costruzione sacra. I partecipanti sfilano tenendo in mano delle fiaccole che illuminano le ultime ore della notte in un grande silenzio. Al sorgere del sole il papas canta il primo verso del Vangelo secondo Giovanni e, intonando canti di gioia e con toni di grande giubilo che ricordano le antiche danze della liturgia greca, riavvia il corteo all'interno della chiesa, dove i partecipanti, conclusa la liturgia del mattino, si scambiano gli auguri donando si a vicenda uova dipinte e decorate.

Una festa pagana è invece è La Ruzzola: un gioco antichissimo che sembra risalire al tempo degli Etruschi (come si evince da un affresco nella “Tomba dell’ Olimpiade” di Tarquinia in cui viene raffigurato un lanciatore di formaggio). Si gioca con delle forme di pecorino stagionate che vengono lanciate facendole ruzzolare con l'aiuto di una cordicella legata al polso del giocatore e avvolta a spirale sulla forma. La forma corre veloce lungo la strada. Vince chi percorre la maggiore distanza in tre lanci. Le forme sono di peso diverso per categoria: uomini, donne, ragazzi, bambini. Con la pula del grano si asciuga l'olio che trasuda dalla forma per farla mantenere stabile alla presa e al lancio. Le forme devono essere di stagionatura giusta per essere rigide da non rompersi ma anche elastiche da riuscire a superare ostacoli e asperità delle strade. Un tempo la ruzzola si svolgeva in concomitanza della festa del patrono S. Spiridione l’8 settembre ma dal 1991 la gara si svolge il 1 maggio.



 Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

sabato 26 febbraio 2022

Giovanna Guardiani, scrittrice dalla prosa di forte valenza psicologica ed emozionale.


Giovanna Guardiani è un’insegnante nata a Sanremo ma abruzzese di famiglia; vive a Pescara da molti anni. Ama leggere e i libri che predilige sono quelli riguardanti pedagogia, psicologia e spiritualità e da alcuni anni si è particolarmente avvicinata al mondo orientale. La scrittura per la Giovanna è un piacere e una professione, requisiti cui risponde con la delicatezza del suo tratto e la cura per la forma e il contenuto.




Il libro che ha segnato il suo esordio, la sua opera prima è: “Un dono per te e per me”, un viaggio fra i ricordi dall'infanzia all'età adulta, intrapreso con entusiasmo nei confronti della vita; un dono meraviglioso ricevuto e da trasmettere. L’autrice descrive la sua esistenza di bimba d'altri tempi, rimedi, segreti che si usavano una volta ,ormai scomparsi e le riflessioni, recriminazioni ed accuse al mondo d'oggi. 










Nell’ottobre 2013 pubblica il suo secondo libro di forte impatto emozionale: “Tachea in cui la protagonista, una simpatica settantacinquenne, donna ormai affrancata da tutto ciò che la società attuale impone, si sente finalmente libera di vivere secondo i suoi ritmi, di esprimere quello che pensa e attraverso la danza dei silenzi e delle parole, di evidenziare la presenza dell’amore intorno a lei.




“COME SALVARSI LA VITA”  (ed. Nulla Die): 

“Come salvarsi la vita”: l’opera terza della scrittrice Giovanna Guardiani:  presentato al Rosadonna nel  2014, è una storia  intensa e profonda  nella  quale la protagonista,  Sofì, dialoga con se stessa e con gli  altri cercando risposte a quei problemi della vita quotidiana di fronte ai quali si  è spesso come nudi, con il rischio di venirne  soffocati.  Una sorta di  viaggio tra ricordi che coinvolgono e arricchiscono l’anima, esperienze dolorose e la via d’uscita:  la “Bellezza” dell’arte  che  allieta  e solleva  ogni essere umano che  scoprirà la grande  potenzialità  del  vivere che nonostante tutto   è meraviglioso   un dono per tutti.
L’autrice affronta il tema dell’abbandono e della terribile spirale che ti avvolge come un tunnel e non ti lascia più il respiro, ti distrugge emotivamente portandoti alla soglia della disperazione. Dopo il terribile  impatto iniziale un pensiero viene a salvarla: “Come mi salvo?  Come salvo la mia vita?”
L’interrogativo martella i suoi giorni, le sue ore, la sua vita. Un pozzo nero allo stomaco la fa scivolare sempre più giù. Continua tuttavia a percorrere il suo cammino quotidiano: l’amicizia, l’impatto provvidenziale con il suo computer: Mimì, il lavoro di insegnante che cura come cura i bimbi che non lascia a scuola ma porta con sé nel suo cuore soprattutto quelli più difficili quelli sprovveduti che hanno bisogno che si indichi loro la via da percorrere.
La narrazione, accurata ma diretta, si dipana attraverso una sorta di  monologo interiore che abbraccia la realtà  nascosta di Sofì  senza mai separarla dal suo vissuto personale e affronta anche temi umani e sociali di grande rilevanza, il potere, la natura, il pensiero. L’autrice infine risponde per sé all’interrogativo che è guida dell’intero romanzo, una risposta di coraggio a non arrendersi e perdersi. Ci si può salvare la vita? Certo che sì, “se si vuole vivere e non sopravvivere soltanto” come Oscar Wilde affermava.



Recensione a cura di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

lunedì 14 febbraio 2022

Nik Metani l’artista che con le sue affascinanti policromie ritrae scenari e paesaggi di grande empatia e suggestione.

Nato a Durazzo nel Febbraio del '67 é cresciuto in Abruzzo a Casoli (Ch).

I colori, la musica, e la poesia hanno sempre fatto parte della sua vita. Disegnare per lui  era un segreto custodito con gelosia.

Sin da giovanissimo ha sempre macchiato la tela di cromie  che  spesso teneva per sè; ma la forza di esporre i colori al pubblico è poi emersa ed è stato come mettere a nudo la sua anima".





Le sue tecniche sono olio ed acrilico, pennello e spatola, e il dripping.

                                        

                                                 


                                            

     

                                       

Mostre ed esposizioni


Ha esposto dai piccoli borghi ai grandi castelli di Casoli e Roccascalegna (CH), e in vari musei italiani, Pescara, Bari, Teramo, Forte dei Marmi, Torino ed anche all'estero come le Canarie e la Spagna.


  • Dal 13/08/2016 al 27/08/2016 Castello Ducale di Casoli (CH) esposizione personale dal titolo "Quando i colori ti macchiano l’anima".
  • Dal 4 all'11 dicembre 2016 grande soddisfazione con il premio speciale della giuria al 24° Concorso Internazionale di Pittura e Scultura "Premio Gabriele D'Annunzio" a Pescara presso il Circolo ternino P.zza Garibaldi Pescara a cura della Prof.ssa Angela Di Teodoro "Le Muse Atelier”.
  • VIII Edizione, presso la Sala degli Artisti, Piazz.le Michelucci AURUM Pescara, coordinatore e direttore artistico prof. Giorgio Del Bono. 
  • Dal 13/08/2016 al 27/08/2016 al Castello Ducale di Casoli (CH):  esposizione personale dal titolo "Quando i colori ti macchiano l’anima".
  • Dal 4 all'11 dicembre 2016 menzione e  premio speciale della giuria al 24 ° Concorso Internazionale di Pittura e Scultura "Premio Gabriele D'Annunzio" a Pescara presso il Circolo ternino P.zza Garibaldi Pescara a cura della Prof.ssa Angela Di Teodoro "Le Muse Atelier”.
  • Dal 1 al 10 giugno 2018 Rassegna Internazionale delle Arti e Cultura Mediterranee.
  • Dal 4 al 11 Giugno 2018 Mostra collettiva Arti Figurative "Oltre l'orizzonte".
  • Dal 10 settembre al 6 ottobre 2018 “I colori dell'anima" a cura di Massimo Pasqualone. Mostar collettiva d'arte FuerteVentura. Centro di Arte Canario Casa Manè Canarie.
  • Dal 1 al 10 giugno 2018 Rassegna Internazionale delle Arti e Cultura Mediterranee.







                                      

LA SUA INTERIORITA’

Così l’artista si descriveDipingere per me è come prendere un pezzo di mare e metterlo sulla tela, in morbide pennellate blu che scivolano lentamente affinché la piccola tela diventi un immenso mare; dall’orizzonte alla riva. Stanco mi addormento al tramonto sulla sabbia argentata, illuminata dal giallo delle ginestre sulla collina, le pietre in riva al mare, i miei smeraldi più preziosi. 

Vecchi ricordi e profumi, ricordano il giardino pieno di rose di mia madre. In ogni fiore dipinto rimane vivo il suo ricordo. Nella pittura astratta prende forma la mia protesta, la ribellione,
e il grido per un mondo migliore.










Recensione  a cura di Elisabetta Mancinelli. 

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com








mercoledì 2 febbraio 2022

PESCARA E IL FIUME

"Pescara con  il suo mare e il fiume ha la magia di farti sentire bene con il mondo, senza che ciò ti richieda sforzo alcuno". Con queste parole il celebre giornalista e studioso dell'Italia, Tim Parks sintetizzò con un articolo sul Daily Telegraph l'essenza della pescaresità. Quella essenza che ha permesso a spiriti eletti come D'Annunzio e Flaiano di trasferire il senso della vita e della cultura nelle loro opere.


La Pescara, il gran fiume che dall’Appennino centrale scende al mare Adriatico, è stato per secoli il fulcro e l’ anima della città di Pescara. Il ruolo del corso d’acqua, sui due lati del quale era raccolto l’abitato, sembra essere stato duplice nella storia dei pescaresi. Se per un verso era considerato linea di divisione tra i due territori, accentuando le rivalità, i contrasti  le competizioni tra gli abitanti di Porta Nuova e di Centrale, per l’altro è stato anche un elemento di coesione e di unione fra le due realtà e un punto di aggregazione, sulla cui acqua, allora potabile, si svolgevano le occupazioni quotidiane come il lavaggio dei panni le attività lavorative, il mercato delle arance il rimessaggio delle barche da pesca, i giochi dei ragazzi e le feste: San Cetteo sulla sponda sud e Sant’Andrea su quella a nord che intorno al fiume riunivano per giorni tutta la popolazione. La Pescara ha avuto dunque un’ enorme importanza  nella tradizione e nella storia sociale della città e il forte legame di essa con il suo fiume prosegue nella storia moderna. Secondo una recente teoria, il toponimo potrebbe derivare più che dalla pescosità della zona, da "pescos" (in greco antico “pephcòs”) termine che indica il pino marittimo assai diffuso lungo il litorale e la valle del fiume e da “Pescasis” ("coperto di pini marittimi"). Nei documenti storici e nella tradizione orale perdurata a lungo la Pescara viene declinato prevalentemente al femminile: fatto questo assai particolare e comune a pochi corsi d’acqua italiani, una quindicina, che con il nostro  condividono anche un altro aspetto: tutti sono caratterizzati, nel tratto finale, da una elevata sedimentazione, quindi da un alto tasso di sostanze organiche in grado di innescare, almeno in passato, ricche catene alimentari, culminanti in una grande abbondanza di pesci ma anche di uccelli.  Un  fiume “femmina” dunque e “madre” perché  era a ragione percepito come una madre, che nutre e protegge. Infatti durante i bombardamenti dell’ultima guerra, che distrussero la città, molti Pescaresi vollero rifugiarsi tra la folta vegetazione delle sue rive.

 

                                        I CARATTERI GEOGRAFICI

 

Il fiume Pescara propriamente detto, ha origine dalle sorgenti di Capo Pescara, poco a monte dell’abitato di Popoli e, dopo un percorso di circa 68 Km fluviali sfocia nel porto canale della città omonima. L´Aterno- Pescara  è il fiume più lungo d’Abruzzo e il maggiore per estensione di bacino fra quelli che sfociano nell'Adriatico a sud del Reno, precedendo anche l'Ofanto. Scorre per 152 Km attraversando l’Abruzzo da ovest verso est. La sua sorgente (detta Fonte Ciarelli) si trova sui Monti della Laga, a nord- est della frazione di Aringo, vicino Montereale, attraversa le valli Amiternina e Subequana e le selvagge Gole di San Venanzio giungendo all'altezza di Raiano nella Valle Peligna o conca di Sulmona. Qui vi si immette il suo principale tributario di destra, il Sagittario, proveniente dal Lago di Scanno e il fiume muta per qualche chilometro la denominazione in Aterno-Sagittario.  Più avanti, presso Popoli, il corso dell'Aterno-Sagittario si unisce a quello, proveniente da sinistra, del Pescara, brevissimo fiume sorgivo assai ricco di acque, che gli reca un tributo minimo assoluto di magra di 7 metri cubi al secondo. Da questo punto in poi il fiume viene spesso chiamato Aterno-Pescara o anche solo Pescara. Notevolmente ingrossato, raccoglie altri affluenti di una certa importanza (in particolare il Tirino), incrementando ancora il suo volume d'acqua, prima di arrivare al Mare Adriatico presso l'omonima città di Pescara .

                                                          LA STORIA                                       

Cerniera geografica tra l’Abruzzo interno e l’Abruzzo marittimo, la valle del fiume Pescara, insieme a quella dell’Aterno, ha svolto un ruolo determinante di raccordo tra l’interno della penisola e il mar Adriatico, diventando un’arteria di collegamento cruciale, crocevia di popoli, culture e commerci. La valle è stata percorsa e abitata fin da tempi antichissimi, come rivelano le tracce di insediamenti dell’età del Bronzo (1800-1500 a.C.) trovati nei pressi di Torre de’ Passeri e Tocco da Casauria, resti di capanne e villaggi di genti che vivevano ai bordi del fiume. In epoca storica queste terre erano abitate dagli Italici, con cui Roma sarebbe entrata in conflitto dal IV al I secolo a.C. I Marruccini occupavano la sponda destra del fiume, i Vestini la sponda sinistra, mentre i Piceni  si insediarono lungo il litorale tra i fiumi Pescara e Tronto. Il territorio dell’attuale Popoli, crocevia tra i fiumi Aterno, Sagittario e Pescara, era invece dominio dei Peligni, che avevano in Corfinio la propria roccaforte, divenuta capitale della Lega Italica nel grande scontro con Roma nel I secolo a.C. Nel 210 a.C. Annibale, sceso con un potente esercito da Forca Caruso ( Forca di Penne),  si accampò a Corfinium  dove pose il comando delle armate. Costruì poi un vero e proprio porto fluviale a Pagus (Popoli) qui allestì capannoni, rimesse e un deposito di armi e vettovaglie che venivano trasportate a valle con barconi a fondo piatto che, spinti dalla corrente  sulla sponda destra del fiume, raggiungevano in circa otto ore il Forte di Ostia Aternum creato dallo stesso Annibale per la conquista dell’Occidente. Esso si estendeva da Porta Romana  (attualmente sottopassaggio sulla Tiburtina) fino all’attuale via Bardet.  A circa 100 metri dalla foce del Pescara il generale cartaginese fece costruire un ponte in mattoni a sei archi, ardita opera per l’ingegneria di quei tempi. Collegò poi, mediante la via consolare Tiburtina Valeria, che quasi in linea retta tagliava lo Stivale in due per 260 km, Ostia Aternum ad Ostia Romana alla foce del Tevere creato per la conquista dell’Occidente.  La città diventa quindi un importante scalo commerciale verso e dai paesi illirici e balcanici, e la valle del Pescara diventa l’asse di collegamento tra la capitale dell’Impero e i suoi territori medio- adriatici. Il toponimo Piscaria, attestato per la prima volta nell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, designò dapprima il solo fiume e, dal XII secolo, anche la città adriatica. La prima traccia del nome attuale compare nel 1035 quando nel Chronicon casauriense si annota che “Gualtiero del fu Rainaldo s’impegnava contrattualmente col monastero per 300 moggi di terreno iuxta fluvium Pischarie…”. Da quel momento tutti i documenti storici riportano il nome Pischarie, riferito molto probabilmente alla pescosità delle sue acque, e come tale è indicato nelle mappe cinquecentesche, talvolta con l’aggiunta di Aternum olim. 

Nel lungo periodo di abbandono e di spopolamento seguito alla caduta dell’Impero Romano, questo territorio cadde nell’oblio come del resto successe in quasi tutta Italia. Nei primi secoli dell’Alto Medioevo, che segnarono la lenta ripresa sociale ed economica, gran parte della viabilità e della razionale organizzazione romana del territorio erano ormai scomparsi tra gli impaludamenti del fiume Pescara che, come tutti i corsi d’acqua nell’Occidente Cristiano in quell’epoca, straripa, dilaga, spadroneggia sul territorio, si riprende le terre coltivate, sommerge le strade e tiene in pugno uomini e città. Lungo le sue rive e tra le golene formate dalle esondazioni cresceva una vasta foresta fluviale, talmente intricata da aver suscitato tra gli sparuti abitanti di allora paure e superstizioni di cui resta ancora il ricordo in certi toponimi, come quello di Dragonara. In epoca medievale le dragonare indicavano infatti le paludi e le anse fluviali abbandonate dal fiume, talmente terrifiche ed impenetrabili da essere ritenute la dimora dei draghi. In quest’epoca, dunque, è il fiume a dominare il territorio, condizionando profondamente la localizzazione e la tipologia dei centri abitati che pian piano risorgono nella valle tra l’XI e il XIII secolo. Gli insediamenti non si sviluppano più lungo il Pescara, ma si arroccano sui fianchi della valle. Il ripopolamento interessa successivamente  anche le foci: nel 1145 il porto viene restaurato dal re normanno Ruggero d’Altavilla e torna ad essere uno scalo importante. Gli unici insediamenti stabili nel fondovalle erano i piccoli centri nati come strutture militari di avvistamento, come Torre de’ Passeri ed i grandi centri monastici, come le abbazie di S. Clemente a Casauria e di S. Maria d’Arabona. Come in molte altre zone d’Italia e d’Europa, furono infatti i monaci i primi ad affrontare, da veri pionieri, il caos di quei secoli e ad avviare una nuova organizzazione del territorio, strappando terra alle paludi e restituendola all’agricoltura, diventando centri di aggregazione sociale e punti di sosta e di riferimento per i viandanti, ma esercitando anche una grande influenza politica. Il Trecento vede il pieno rifiorire delle vie di comunicazione, dei commerci e degli scambi culturali, in cui la valle del Pescara e la valle dell’Aterno si riappropriano dell’antico ruolo di assi di collegamento. Uno dei grandi itinerari commerciali e culturali dell’Italia trecentesca, la “Via degli Abruzzi”, arteria angioina dell’oro e della lana, proprio attraverso la valle dell’Aterno raccordava Napoli con l’Umbria e la Toscana, mentre attraverso la diramazione adriatica, costituita dalla valle del Pescara, raggiungeva le Marche e l’Italia settentrionale. All’incrocio di queste importantissime arterie si trovava Popoli, che a questa posizione strategica deve la fama di fiorente centro di commerci che detenne fino al XIX secolo.

                                      LE FESTE  LUNGO IL FIUME

San Cetteo sulla sponda sud e Sant’Andrea su quella a nord erano le principali feste che, intorno al fiume, riunivano per giorni tutta la popolazione. Già nella metà del 1800  durante queste ricorrenze patronali   lungo il corso della Pescara oltre alla processione, i fuochi d’artificio, le bande musicali, si svolgevano gare di canotti e cuccagne e all'imbrunire, venivano messi a galleggiare migliaia  di lumini che arrivavano fino al mare aperto, ed il fiume era illuminato per ore e ore.  I lumini venivano messi nel fiume da un barcone all'altezza di Sambuceto ed erano fatti con uno stoppino infilato in un pezzo di sughero avvolto da carta colorata. Sotto il ponte si mettevano le barche che vendevano le arance e i pellegrini che venivano a Pescara per le feste si fermavano vicino al ponte per comprarle. Passavano anche "li picurare" che venivano accolti con allegria e i pescatori gli davano  sardelle, sale, pizze di ''randigna'' e anche qualche pesce, loro li ricambiavano con il formaggio e la ricotta. Lungo il fiume si svolsero  anche  imponenti manifestazioni non a carattere religioso come “Le Cinque Giornate di Pescara” che, dal 19 al 23 agosto del 1922,  allietarono la città. Sfilarono lungo la Pescara 30 paranze abbellite da festoni e rami fioriti dipinti di rosso e d’azzurro con la collaborazione di Basilio Cascella e Ermindo Campana pubblicò un articolo sul Corriere della Sera, con suggestive fotografie della sfilata delle paranze e dei costumi di Caramanico e di altri paesi sul fiume al tramonto. Anche la Settimana Abruzzese, dal 19 al 23 agosto del 1923, patrocinata da Acerbo, fu una festa popolare che si svolse prevalentemente lungo il fiume anche se non mancò l’aspetto propagandistico del fascismo che si servì di questo evento per l’ostentazione del proprio successo. Giunsero le paranze da Giulianova, Silvi Marina, Ortona, e Vasto che, oltre a quelle di Pescara, sfilarono costeggiando da nord fino alla foce sulla sinistra dove la manifestazione si concluse con imponenti fuochi d’artificio lungo il fiume.

                                      GABRIELE D'ANNUNZIO E IL FIUME


Gabriele D’Annunzio, vide la luce in una “Una città provinciale tutta raccolta intorno alla sua chiesa, fra l’antica fortezza spagnola e il ponte cavalcante il bel fiume… la Maiella innevata, sacra e materna, il litorale sabbioso con i pini smilzi e contorti, i tramonti di luglio pieni di nuvole scarlatte e dorate sul fiume”,  ma anche in una città divisa proprio dal Pescara: a nord Castellamare Adriatico che era parte della provincia di Teramo e a sud Pescara che era provincia di Chieti. Il poeta soffre per il campanilismo che divide i due centri e per il conflitto tra le due progenie i cui rapporti erano da sempre caratterizzati da antagonismo e gelosia. Così descrive queste ostilità nella Novella  ‘La guerra del ponte’ . 

"....Un'antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e rappresaglie, l'una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell'altra. E poichè oggi e' prima fonte di prosperità la mercatura, e poichè Pescara ha molta dovizia di industrie, i Castellamaresi da tempo mirano a trasferire i mercanti su la loro riva con ogni sorte di astuzia e di allettamenti." Per la riunificazione degli abitanti delle due sponde e per la nascita della nuova provincia ci furono moltissime trattative, volte a stabilire soprattutto la denominazione della nuova comunità. Quando il poeta apprese la notizia della riunione, nel 1927, delle due città in un solo comune, Pescara appunto, esclamò: “Il fiume non divide i due territori come non divide Roma il Tevere e Firenze l’Arno…. Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara ringiovanirà, diventerà sempre più poderosa e ardimentosa degna del privilegio”.

Il poeta, dopo lunghe peregrinazioni e una vita cosmopolita e vagabonda, torna nella sua terra perchè la sente come una “corazza, un pezzo d’armatura”, capace di difenderlo e di proteggerlo dalle intemperie della vita”. Quindi, prescindendo dai luoghi in cui visse e spese la gran parte della sua vita, il poeta rimase sempre indissolubilmente legato  e alla sua città natale e al suo fiume.  Anche il titolo che dà alle sue “Novelle della Pescara” è significativo: come il fiume, prima di arrivare al mare, attraversa paesi e contrade, popolate da genti antiche, così il poeta viaggerà idealmente raccogliendo “novelle” delle sue genti per poi narrarcele. simboli della poetica dannunziana sono quelli  decadenti: “il mare, la terra, l’acqua in un vortice di ristoro tra ventilazione salina e refrigerio fluviale…” (da Le Novelle della Pescara, “La Vergine Orsola”). "L’acqua era il fiume Pescara, arteria navigabile naturale legata alle emozioni e contemplazioni del "gran pescarese", connaturato alla terra natia, da cui partivano visioni e promesse di “sponde lontane”. Nella visione poetica, così come nel cuore dei cittadini, il suo nome era “territorio (acqua e terra), riconoscenza, designazione di suolo vitale, via aperta per l’Adriatico”. E’ qui che traspare il legame profondo tra le genti e il fiume, il suo mondo antico, l’epos, le tradizioni religiose. La giovinezza di Gabriele fu costellata di scorribande lungo il suo fiume e molteplici e splendide sono le immagini che il poeta ci offre di questo elemento essenziale del suo paesaggio natio. Il suo fiume assume il simbolo di “dolce remigare nell’arcano, malia, stupore…”, che gli procurano  un’ esaltazione poetica e umana  come  si evince dai  versi che così omaggiano la Pescara:

“Gli alberi s’inchinavano in attitudini pacifiche alla contemplazione delle acque. Quasi un respiro lento e solenne emanava dal sonno del fiume sotto la luna…”. (da Le Novelle della Pescara).

Ed è quasi tenero quando sussurra:

“...nella scorsa notte quanti pensieri, quanti ricordi, quanti sogni, quanti rimpianti; che avean tutto il sapore dolciastro o salmastro della Pescara alla sua foce...”.(da una lettera ad Acerbo).

E ancora: "Rientran lente da le liete pésche sette vele latine, e portan seco delle ondate fresche di fragranze marine." (da “Primo Vere”,Vespro d’Agosto) e dalle Novelle della Pescara: “Il fiume è pieno di riflessi; a schiera le sette vele stanche vengono innanzi insieme con la sera: son gialle, rosse, e bianche…”Scendono: l'acque tranquille de 'l fiume scorron verdi tra 'l verde, e le nuvole sparse de 'l vespro vi treman entro in vaghi riflessi di minio e di giallo; da l'altra riva un uomo sta immobil pescando con l'amo.  E m'apparve il bel fiume ove nato fui di stirpe sabella, Aterno di rossa corrente cui cavalca il ponte construtto di carene di travi d'ormeggi, spalmato di pece, in vista al monte nevoso che ha forma d'ubero pieno. E la tomba m'apparve sul poggio chiomante di pini, ove il padre riposa le sue grandi ossa ond'io m'ebbi tempra sì dura”.                                

E da “La vergine Anna” (“Novelle della Pescara”), "...Nella primavera del 1856, un giorno, mentre sul greto della Pescara ella sbatteva i panni lavati, vide una torma di barche passare la foce e navigar lentamente…le due rive si rispecchiavano in fondo abbracciandosi; alcuni ramoscelli verdi e alcune ceste di giunchi natavano nel mezzo della corrente, come simboli pacifici, verso il mare; e le barche…avanzavano così nel bel fiume santificato dalla leggenda di San Cetteo liberatore. I ricordi del paese natale si svegliarono nell'animo della donna con un tumulto improvviso…”.

                                                           LE  PIENE

Mediamente durante tutto l’anno il Pescara versa nel mare 54 mc di acqua al secondo cioè più di 4.500.000 di mc al giorno. Tale portata media annua è nettamente superiore a quella di tutti i corsi d’acqua abruzzesi. Questa caratteristica deriva dal fatto che nel fiume, nel suo tratto terminale, confluiscono da tutto il bacino idrografico sia le piogge  (autunno-primavera), sia le acque dello scioglimento delle nevi (fine primavera-estate), sia il tributo delle cospicue sorgenti (tutto l’anno). In occasione delle precipitazioni piovose particolarmente intense, in prossimità della foce, a Pescara, quindi si riversano grandi quantità d’acqua che, sommate al normale e costante flusso fluviale, aumentano improvvisamente e pericolosamente anche se per pochi giorni, il livello delle acque nell’alveo. Alla fine del  1800, presso la foce del fiume, si susseguivano in ordine sparso le case dei marinai di creta e di canne dove si accendeva il fuoco con i rifiuti del mare. Sulla destra del fiume, uscendo da porta Ortona, si giungeva ad una depressione fangosa “il lago salso della Palata” (La Vergine Orsola da Le Novelle della Pescara): il braccio destro del Pescara da tempo abbandonato dalla corrente dove era facile contrarre “la febbre palustre”. Anche l’altra sponda era depressa rispetto al livello circostante così tutta la zona risultava acquitrinosa e andava soggetta a piene disastrose a memoria dei vecchi di Pescara. Lo stesso D’Annunzio ne “La guerra del ponte” vi allude accennando all’esistenza di cucine pubbliche che entravano in funzione nelle vicinanze di Porta Nuova nei periodi di inondazione in un luogo dove precedentemente vi era un teatro all’aperto.                                                 

Romeo Tommolini, una figura tipica di pescarese dannunziano, tra le varie memorie pubblicate su quotidiani ha lasciato una efficace descrizione delle alluvioni del 1887 e del 1888 di cui fu testimone da bambino. “Si unirono in piena il fiume Pescara e il fiume Saline: dall’alto della terrazza di Silvi sembrava tutto un mare. La nostra vallata da Sambuceto fino alla Pineta era inondata, in certi punti l’acqua arrivava a circa due metri di altezza. I poveri contadini si rifugiavano sui tetti per salvare le famiglie e gli animali piccoli pecore maiali e polli mentre i buoi, cavalli e asini parte vennero a rifugiarsi nei portoni ampi dei palazzi parte si salvarono a nuoto e andarono ai piedi di San Donato e parte morirono travolti dalla violenza della corrente. La furia delle acque fece cadere 32 case coloniche e morirono diversi contadini. In via Delle Caserme i soldati con battelli stendevano agli inquilini del primo piano rancio, pane, acqua…Si andava continuamente ad osservare il terribile spettacolo della piena sul ponte di ferro della ferrovia dello Stato…tutte le barche, compreso il ponte in legno, vennero trasportate dalla corrente come stecchini parte si affondava al fiume e parte alla foce. La corrente trasportava dai paesi interni animali morti e masserizie”. (da "Il Messaggero"). Altre imponenti inondazioni si sono verificate il 10 novembre 1934 con una portata d’acqua di 982 mc al secondo e il 10 aprile del 1992 quando la portata, in seguito a due giorni di piogge molto forti, raggiunse quasi 1200 mc al secondo. E non sono questi due casi isolati.


Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com

I documenti e le immagini sono tratti da: “Pescara da vicus a urbs” di Lucia Gorgoni Lanzetta; da “Racconti della memoria di una Pescara dannunziana” di  Federico Valeriani; da “Era Pescara” della Sovrintendenza Archivistica per l’Abruzzo” e dall’Archivio di Stato di Pescara. 

Le foto sono tratte dall’Archivio fotografico di Tonino Tucci che ne autorizza la pubblicazione.  

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