domenica 15 gennaio 2023

PIETRO CASCELLA. RICORDO DI UN GRANDE ARTISTA PESCARESE.

Il 18 maggio 2008, all’età di 87 anni, morì uno dei maggiori scultori italiani del secondo Novecento, Pietro Cascella. Si spense nella sua casa di Marina di Pietrasanta, in provincia di Lucca, il luogo dove si era trasferito anche perchè gli permetteva di avere a disposizione il marmo che desiderava plasmare. Al suo capezzale la moglie Cordelia Von den Steinen, anch'ella scultrice, conosciuti durante il progetto Campo del Sole nel 1984 e i loro figli, Tommaso junior e Jacopo. Pietro pur vivendo da tempo lontano dall’’Abruzzo era molto legato alla sua terra e a Pescara ma alla vecchia città non alla Castellammare nata in modo frenetico che definiva un "agglomerato di palazzi e palazzoni". Non per qualche motivo campanilistico ma solo perché, dopo la guerra, era cresciuta in modo disordinato, vorace. Quindi, anche con l’influenza della nostalgia, del ricordo, per lui attraversare il fiume voleva dire, ancora, andare in un’altra città. Ricordava spesso che quando andava a vedere la Coppa Acerbo, che invece si svolgeva tutta a nord del fiume, per fare prima evitava il ponte e andava sull’altra sponda a nuoto. Ricordava anche la Pineta d’Avalos perchè gli rievocava la sua infanzia, luoghi, nomi e persone che da 50 anni non ci sono più. A Pescara comunque ci tornava lo stesso e lo si vedeva spesso aggirarsi nella sua Casa natale ora Museo dando suggerimenti e consigli per migliorarlo, ma con malumori sempre crescenti perché la città diveniva, a suo dire, sempre più caotica e diversa da quella che gli aveva dato i natali.

UNA DINASTIA DI BEN CINQUE GENERAZIONI DI ARTISTI

Pietro figlio d’arte appartiene ad una lunga e illustre dinastia. Nella storia dell’arte italiana vi sono molti casi di famiglie di artisti, a volte ristretti ad una sola generazione, altre volte riguardanti vere e proprie dinastie di più generazioni. La parola "bottega" radicata nella storia della pittura italiana ed europea, è forse quella che dà la spiegazione più plausibile del formarsi di questo tipo di famiglie perché, al di là del talento e della grandezza di ciascuna personalità, quasi obbligatoriamente era all’interno dell’impresa familiare che avveniva l’apprendistato, come garzone o solo preparando i colori. Questa tradizione continua fino agli inizi del 1900. La dinastia dei Cascella, nella sua formazione, si inserisce in questa tradizione anche se essa costituisce un caso del tutto particolare nella storia dell’arte italiana degli ultimi centoventi anni, perché si è manifestata nella continuità di ben cinque generazioni. Inoltre “la famiglia”, pur formandosi nello spirito della bottega rinascimentale, ha espresso personalità artistiche caratterizzate e riconoscibili, ciascuna autonoma nel proprio particolare mondo immaginativo.

Questa famiglia patriarcale di artisti ha dato alla terra natia onore ed orgoglio per la capacità espressa nelle diverse forme artistiche in cui si è cimentata, sempre con incommensurabile impegno, arte e genialità. La storia di queste generazioni di artisti rappresenta la testimonianza sempre giovane di un entusiasmo creativo che si è manifestato e continua a manifestarsi in maniera impareggiabile. Il capostipite di questa illustre dinastia fu Basilio personaggio multiforme, pittore, ceramista, litografo ed editore. La seconda generazione è costituita dai figli Tommaso, Michele e Gioacchino. 

Il primogenito Tommaso, poeta dell’elegia, dipinse con fedeltà veristica i luoghi della sua infanzia legati al paesaggio abruzzese. Egli ebbe due figli Andrea e Pietro. 

Il secondogenito di Basilio: Michele pittore e sognatore, ritraeva con delicatezza di pennello paesaggi dai colori tenui nel tiepido sole, sfumature primaverili e le voci soffuse delle colline, dei fiumi e del mare. Egli non ebbe figli. 

Il terzogenito: Gioacchino sensibile pittore elesse il suo paese Rapino a soggetto privilegiato della sua arte, lo amò a tal punto che decise di trascorrervi tutta la sua vita tra l’argilla dei monti e i colori dei pennelli. Egli non ebbe figli.

Alla terza generazione appartengono Andrea (unico figlio di Tommaso) raffinato disegnatore, pittore e ceramista ma soprattutto scultore di fama internazionale e direttore dell’Accademia di Brera e Pietro.

Della quarta fanno parte: Marco unico figlio di Andrea, artista che si esprime con un suo suggestivo e personale mondo fantastico di sapore spazialistico e poi i tre figli di Pietro Tommaso Junior, Susanna e Jacopo che dialogano tra pittura e scultura con grande sensibilità e creatività.

Alla quinta generazione appartiene Matteo Basilè (in omaggio a Basilio) artista di integrazioni culturali, che riafferma con la sua ricerca sui nuovi linguaggi dell’arte la persistenza intuitiva della “modernità” di Basilio.


 BIOGRAFIA E OPERE

Pietro Cascella nasce a Pescara il 2 febbraio del 1921. Secondogenito di Tommaso grazie alle passioni del papà e del fratello Andrea, ma in particolar modo del nonno Basilio, si interessa subito di pittura a cui si dedica. Per approfondire le sue conoscenze si trasferisce a Roma e nel 1938 inizia a praticare l'Accademia delle Belle Arti per seguire i corsi di Ferruccio Ferrazzi.

Poco più che ventenne partecipa, nel 1943, alla Quadriennale di Roma e nel 1948 è invitato alla prima Biennale di Venezia del periodo post-bellico. Sono gli anni in cui, insieme ad Andrea, lavora in una fornace e successivamente si impegna nella realizzazione di opere in ceramica di tutti i tagli. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, abbandona la pittura, e si dedica alla scultura in bronzo ma soprattutto in pietra da lui definita "l'ossatura della terra" per il recupero dell'antica naturalità e integrità dell'uomo: volumi che, richiamando forme archetipe, collocano l'artista in una linea ideale della scultura europea da Brancusi a Lipchitz. Di pietre levigate, aspre, corrose, sono i suoi lavori maggiori, quasi cubisti, di un purismo geometrico che affascina in quanto vi si legge un senso di potenza ed energia. Il carattere monumentale, presente anche nelle sculture di piccole dimensioni, traduce il senso di potenza ed energia, che si richiama alla grande tradizione dell'arte, sulla quale si innesta una fantasia tutta moderna. Il suo modo di lavorare era sempre lo stesso per qualunque opera: nel suo atelier diViareggio Pietro faceva un modellino di gesso prima e di pietra poi. Successivamente passava al marmo e poi con lo scalpellino procedeva alle correzioni. Nel 1956 partecipa nuovamente alla Biennale Veneziana e poi comincia, grazie alla collaborazione con Sebastian Matta ad affrontare nelle sue opere tematiche surreali.
Nel 1957 partecipa al concorso per il 'Monumento di Auschwitz' con un progetto realizzato dal fratello Andrea e dall'architetto Julio Lafuente. Dopo alterne vicende viene approvato un altro progetto curato da Pietro stesso e dall'architetto Giorgio Simoncini. L'opera, che vede la luce nel 1967 nell'ex campo di sterminio nazista in Polonia, è una delle più importanti creazioni dell'artista. Nel 1971 partecipa al XXIII Salon de la Jeune Sculpture di Parigi, tiene una mostra al Palais de Beaux Arts di Bruxelles e allestisce un'ampia personale alla Rotonda della Besana di Milano. Il periodo successivo è caratterizzato da grandi successi e affermazioni. Produce una serie di opere monumentali in cui si fondono impegno sociale e progetti di scultura su scala urbana: del 1979 è il 'Monumento alla Resistenza' per la città di Massa Carrara, un 'Monumento a tutti i giorni' viene realizzato nel 1980 per la piazza della cattedrale di Pescina. Nel 1984 inizia a lavorare sul progetto 'Campo del Sole' insieme alla seconda moglie Cordelia Von Den. Si reca in Versilia, per la prima volta e fa parte del gruppo di artisti che partecipano al progetto di Erminio Cidonio di fare di Querceta un centro internazionale per la scultura moderna. La sua ricerca dagli anni settanta in poi si orienta soprattutto verso opere a carattere monumentale che sono anche le più note: l’Arco 'della Pace a Tel Aviv, Omaggio all'Europa a Strasburgo, il Monumento a Giuseppe Mazzini a Milano, Sole e Luna a Riad, Bella Ciao a Massa.
Tra le opere monumentali degli anni Ottanta vi sono Cento Anni di lavoro allo stabilimento Barilla a Parma, il monumento a Due Carabinieri caduti a Monteroni d'Arbia, e la Piazza di Milano Tre. Altra opera di grande interesse è La nave, realizzata nel 1987 in marmo di Carrara e collocata inizialmente in Piazza Croce a Firenze, solo successivamente, l'allora sindaco Nevio Piscione richiese l'opera per il nostro capoluogo poiché ben si addiceva ad una città marinara e fu collocata sul nostro lungomare. Sempre per la sua città Pescara l’artista ha realizzato in questo periodo il Monumento ai Caduti di Piazza Garibaldi. Degli anni novanta sono altre sculture, fontane e colonne simbolo, l'Agorà all'Università di Chieti, il Monumento della Via Emilia a Parma, la Porta della Sapienza a Pisa, l'Ara del Sole a Ingurtosu in Sardegna, il Teatro della Germinazione nel Parco Nazionale d'Abruzzo, la fontana della città di Chiavari e la fontana per la Baraclit nel Casentino. Esegue anche la Volta Celeste ad Arcore (Milano), il mausoleo commissionato all'artista da Silvio Berlusconi nella propria villa.
"La Volta celeste - spiegò l'artista in occasione della consegna del mausoleo - rappresenta il cielo, il luogo da cui veniamo e verso cui andiamo. L'idea del monumento funerario a Berlusconi è venuta quando gli è morto il padre". E a chi accusava l’artista di aver caricato l'opera di simboli massonici, indispettito, rispose: "La mia scultura è un'opera astratta. Non c'è nessun simbolo". Mi è stato richiesto di: 'non fare una cosa mortuaria con le falci, i teschi' e allora ho pensato all'alto, al cielo e ho fatto questa cosa che si chiama volta celeste”. Numerose le esposizioni, sia in Italia, tra cui la prestigiosa mostra nella piazza del Duomo e nella chiesa di Sant'Agostino a Pietrasanta, che all'estero. Portano la sua firma anche le recenti opere: l’Acquasantiera, il fonte battesimale, il pulpito e la colonna esterna della Chiesa del Mare e la Tomba di famiglia nel Cimitero di San Silvestro. Silvano Console giornalista, documentarista e suo amico personale racconta che riteneva quest’ultima un’opera barbarica e selvaggia, salvo poi a commuoversi perché lì c’era la storia di tutta la sua famiglia: vi sono infatti sepolti Basilio e Susanna e il papà Tommaso. Come ricorda Fred Licht nell'introduzione al catalogo curato dalla Camera dei deputati, citando il mito di Deucalione e Pirra, l'opera di Cascella sembra informata alla concezione della pietra come "ossa della Madre Terra". Ai protagonisti del mito classico l'oracolo di Delfi dette istruzione, per placare l'ira degli dei, di prendere le ossa della loro madre e gettarle alle spalle; Deucalione rivendicò che "nostra madre è la terra e il suo scheletro è fatto di pietre" e, con Pirra, raccolse le pietre da un campo e le gettò alle spalle. Le pietre, cadendo al suolo, presero vita e crearono una nuova, e migliore, razza umana. Ebbene, scrive ancora Licht, "la scultura di Pietro Cascella in pietra… ha tutta la forza epica del mito greco. La sua profonda conoscenza della pietra coincide con le pietre che Deucalione e Pirra portarono in vita".

Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli

Email: mancinellielisabetta@gmail.com

 I documenti e le immagini sono tratti da: “Artisti ed arte in Abruzzo” di Antonio Gasbarrini e Antonio Zimarino, da “Cascella” della Fondazione Caripe, dall’Archivio di Stato e dal Museo Cascella di Pescara.

TEMPO D’INVERNO: GENNAIO IN ABRUZZO. LA FESTA DI SAN'ANTONIO ABATE.

Il mese di gennaio è stato da sempre considerato dalla cultura contadina il tempo della famiglia, dei lavori domestici  ma anche il tempo in cui, intorno al focolare, gli  anziani  ritrovano il loro ruolo di depositari di memorie e  saperi antichi, narrando storie legate al mito ed alla fantasia mentre la neve e il gelo ricoprono i campi seminati. 

L’iconografia tradizionale dei calendari scolpiti sui portali delle chiese,  infatti, rappresenta Gennaio, il mese centrale dell’inverno, il più freddo, con l’immagine di un uomo seduto accanto al fuoco di un grande camino intento a girare uno spiedo di carne arrostita.

Il 17 di questo mese, si festeggia in Abruzzo: Sant’Antonio Abate,  una delle figure principali della religiosità popolare della regione. La festa, che è forse la più diffusa tra le classi rurali, pur con diverse espressioni, mantiene intatti i caratteri di una ritualità le cui origini sono molto più antiche dell'era cristiana. Per le sue caratteristiche di particolarità ed originalità è una delle manifestazioni più studiate dal punto di vista antropologico ed etnografico non solo dell’Abruzzo, ma dell’intero Meridione.

Questa ricorrenza apriva il ciclo dell'anno:  un giorno fondamentale per il calendario contadino che indica oltre ai giorni  anche le opere da compiere e i lavori da eseguire nelle campagne. Lo spirito di questa antica festa, che si ricollega alle altre feste abruzzesi di fuochi invernali, prima o dopo il solstizio d'inverno, ancora vive e in alcuni centri riveste particolare importanza.

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LA  VITA DI SANT’ANTONIO ABATE  


La leggenda e il culto di Sant’Antonio Abate sono tra i più antichi e radicati della religiosità popolare  e fanno capo  alla Vita scritta da Sant’Atanasio di Alessandria che era stato suo  discepolo.  Antonio nato a Coma (odierna Qumans) in Egitto nel 251, conosciuto anche come Sant'Antonio il Grande,  ma anche sant'Antonio del Fuoco, del Deserto e  l'Anacoreta, visse dapprima in una plaga deserta della Tebaide in Egitto e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni. Morì ultracentenario  il 17 gennaio del 356 in un convento della Tebaide. Da qui qualche secolo dopo le reliquie furono traslate ad Alessandria quindi a Costantinopoli.

Fu il santo delle tentazioni: il diavolo gli apparve in tutte le sembianze, angeliche, umane e bestiali. Nell'iconografia è raffigurato infatti circondato da donne procaci simbolo delle tentazioni o animali domestici, il maiale, di cui è popolare protettore, ma compare anche con il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau' ultima lettera dell'alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino. 

                                                                IL CULTO

Il suo culto fu tra i primi ad essere introdotto in Italia e in Abruzzo, grazie al diffondersi del monachesimo. Fu però intorno all’anno mille che ebbe ampia diffusione tra il popolo, anche perché l’iconografia sacra rappresentava il santo accompagnato dal maiale che, secondo la tradizione orientale è il  simbolo della lussuria e del demonio, e per la società agro-pastorale abruzzese tale immagine conferiva al santo proprietà agricolo- protettive, in quanto il maiale costituiva un insostituibile mezzo di sostentamento materiale per la famiglia contadina.  Al fianco del santo si raffigurano pure altri animali (bovini, ovini, equini, polli, cani) indispensabili all’uomo per le fatiche del lavoro quotidiano e per i bisogni alimentari; sant’Antonio divenne, così, il protettore degli animali. Altra caratteristica iconografica è la fiamma ardente nel palmo della mano, simboleggiante il fuoco dell’inferno. Nel giorno dedicato al santo o in quello della vigilia, si benedice il bestiame davanti ai sagrati delle chiese e vengono accesi enormi fuochi in suo onore. 

                                         

                                            LE CELEBRAZIONI IN SUO ONORE

Tanti piccoli centri  della nostra regione, in occasione di questa ricorrenza, si animano e la gente del luogo prepara mucchi  di legna o colonne di canne che, una volta accese, rischiarano  borghi e piazze.    I "fuochi di Sant'Antonio" costituiscono l’ elemento tradizionale e fondamentale della festa del Santo, riconosciuto come colui che vinse i diavoli e le fiamme dell'inferno. 

A  Pratola Peligna  (Aq.) la tradizione vuole che la sera del 16 di gennaio, si svolga una "rappresentazione in costumi caratteristici" con Sant' Antonio e il diavolo, impersonati da due confratelli della SS.Trinità,  accompagnati da musicanti che cantano la vita,  le tentazioni e i miracoli del santo e girano per le vie del paese fino a tarda notte.  Il 17 gennaio nel paese permane  l’ antica  usanza benedire gli animali; dopo la funzione della santa messa, presso la chiesa della  SS. Trinità,  la  statua del santo viene portata in processione fino a  piazza Garibaldi nel centro del paese,  dove il Parroco  impartisce la  sua benedizione ad un colorato corteo composto da animali domestici: cani, gatti, galline, oche, cavalli, pappagallini; e pittoreschi carri agricoli: trattori. tutti inghirlandati  con nastri colorati, e grossi ciambellani di pan salato. Anticamente il parroco benediceva asini, muli, cavalli, buoi, vitelli, branchi di pecore e capre. Gli animali ripuliti e ornati con bardature fiammeggianti, sfilavano davanti al sacerdote benedicente accompagnati dai loro padroni, anch'essi vestiti a festa.

 

A Collelongo (Aq.)  il Santo eremita veniva  festeggiato con una serie di cerimonie il cui elemento principale è il cibo. La sera della vigilia del 16 gennaio, sette famiglie del paese, per assolvere un voto, o per esternare la propria devozione al Santo, pongono sul fuoco un grosso caldaio di rame, detto in dialetto locale “cottora”, in cui pongono a bollire grosse quantità di granturco, precedentemente tenuto in ammollo. Poiché i chicchi cuocendo si gonfiano, la minestra che se ne ricava è chiamata dei cicerocchi. Il locale in cui arde la cottora è predisposto per accogliere la visita di parenti ed amici, ed è addobbato con lunghe file di aranci, cestine di uova, frutta secca, in mezzo a cui troneggia un quadro di Sant'Antonio Abate. L'operazione di bollitura ha inizio con la benedizione del parroco, che deve provvedere a recarsi presso ciascuna delle famiglie che partecipa al rito, e continua tra i canti e le preghiere degli astanti che si alternano nel compito di rigirare il granturco nel paiolo per mezzo di un lungo cucchiaione di legno, in quanto l'operazione è ritenuta foriera di prosperità e benessere. Chiunque giunge a visitare la ‘cottora’ viene accolto festosamente e riceve un complimento a base di vino e dolci. L'ospite, dal canto suo, si avvicina alla cottora e ne gira il contenuto recitando parole di augurio e di devozione. In questo modo si trascorre tutta la notte, mentre compagnie di questua, accompagnandosi con vari strumenti popolari, tra cui non mancano le zampogne , cantano l'Orazione di Sant'Antonio in cui si narrano la vita, le tentazioni ed i miracoli dell'eremita egiziano.


Di fronte alla chiesa parrocchiale, in un'antica cappella della quale è conservata una preziosa statua di pietra raffigurante Sant'Antonio Abate che, per l'occasione, è anch'essa decorata di agrumi, frutta e uova, i giovani accendono una grande catasta di legna, punto di riferimento delle compagnie e dei devoti che vi si ritrovano intorno per cantare le lodi al santo e passare la notte in allegria. Alle prime luci dell'alba inizia la distribuzione dei cicerocchi. Una lunga fila di ragazze, reggendo sulla testa conche di rame addobbate di fiori e di nastri, si reca in chiesa per offrire al santo una grande quantità di cicerocchi, che poi vengono consumati per devozione dai fedeli. La festa continua per tutto il giorno con cerimonie religiose e popolari in onore del Santo. 

Anche a Fontecchio  (Aq.) permane l’antica consuetudine per la festa di S. Antonio Abate, di distribuire  alle famiglie del “pane benedetto“ e del “lummitto“ di maiale, che conserva simbolicamente   il senso di solidarietà sociale  e appartenenza comune tra tutti  gli abitanti del paese.   La mattina del 17 ha luogo una processione religiosa e, durante il pomeriggio, carri allegorici procedono per le strade: maschere con le corna ,che rappresentano i diavoli tentatori del santo, si aggirano per il paese secondo la tradizione che vuole che, nella solitudine del deserto, egli fosse tentato più volte da Satana che gli si presentò sotto varie forme e sembianze. Il corteo si scioglie a Piazza del Popolo dove enormi cataste di legno: “I fuochi” “focaroni” o “focaroni” vengono accesi per scaldare e illuminare  gli astanti.




Nella provincia di Chieti a  Fara Filiorum Petri,  centro storico di origini longobarde che conserva ancora intatti molti edifici antichi, si celebra la festa tradizionale delle  farchie proprio  in occasione della ricorrenza di Sant'Antonio Abate, il 17 gennaio. Gli abitanti del paese festeggiano dando fuoco alle farchie: enormi fasci di canne con una circonferenza di oltre un metro e un'altezza che a volte supera anche i dieci. Esse devono il loro nome alla parola di origine araba afaca, ossia torcia. L'uso del fuoco come elemento simbolico nei riti legati al culto di Sant'Antonio Abate è comune in tutto il Mediterraneo, ma le farchie di Fara si distinguono per l'imponenza delle costruzioni, per la grande partecipazione di popolo che accorre ad assistere alla manifestazione e per il loro numero che corrisponde a quello delle dodici contrade in cui si divide il paese. 

Il 17 Gennaio si festeggia Sant’Antonio Abate anche in varie località della provincia di Teramo.

Le feste religiose che nella zona  celebrano il Santo sono legate a fatti riportati da antiche leggende medioevali, in particolare quelle del “fuoco sacro” e del “maialino”.                                                          Secondo la prima il Santo, considerato guaritore dell’herpes zoster, chiamato anche “fuoco di Sant’Antonio”, vittorioso sulle fiamme dell’inferno, viene ricordato in alcuni paesi del teramano (Tossicia, Arsita, Bisenti)  bruciando cataste di legna sul sagrato delle chiese. Sul maialino esistono due leggende, una secondo cui il Santo lotta con il demonio che, sconfitto, viene trasformato in un maialino, l’altra  riguarda la guarigione attuata  dal  Santo su di un maialino che poi lo seguirà ovunque.             


A Cermignano, antico borgo medioevale nella valle del Fino, la festa di Sant’Antonio è celebrata con la sagra dei “canti di questua”, che rappresentano le lotte tra il Santo e il demonio. In questa occasione si beve il vino Montonico, tipico della zona, si mangiano salsicce arrostite e gli uccelletti di Sant’Antonio, dolci tipici da inzuppare nel vino caldo. Durante il periodo di Sant'Antonio Abate è frequente, soprattutto nell'Abruzzo interno, l'organizzazione della  panarda: una  originale cena devozionale  costituita da almeno 36 piatti  che alcune famiglie del paese, i panardieri, dedicano ogni anno al Santo la sera del 16 gennaio e che dura fino all’alba del 17, quando si mettono a cuocere nelle “cottore” le fave che saranno distribuite con la panetta di S. Antonio, per tutto il paese. Il  termine “panarda” deriva probabilmente  da "panaro", il grande cesto di vimini usato per trasportare pane, formaggi, salumi, e comunque sinonimo di abbondanza. 



Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com          

I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato, da “Folklore abruzzese” Lia Giancristofaro.                      Le immagini sono tratte dal materiale messo a disposizione nel web.


lunedì 9 gennaio 2023

L’AQUILA: LA SIGNORA DEGLI APPENNINI E LA SUA SUGGESTIVA STORIA

L’Aquila, che si è meritata i prestigiosi appellativi di "Firenze d'Abruzzo" e "Salisburgo d'Italia” per la quantità cospicua di opere d’arte e monumenti molti dei quali sono stati gravemente e irrimediabilmente danneggiati dal sisma, ha una storia singolare e suggestiva. L’Aquila, situata in un incantevole paesaggio tra montagne e boschi nel Parco Nazionale ai piedi del Gran Sasso, su un’altura dominante la valle del fiume Aterno, fu fatta costruire dal grande imperatore Federico II il quale le diede il compito di affermarsi come capitale spirituale. La città ha circa 800 anni, sorse infatti intorno alla metà del XIII secolo sui resti del precedente sito romano di Amiternum.
Dopo la distruzione ad opera di Manfredi nel 1259 risorse come libero comune. Contava 99 piazze e 99 castelli, ognuno dei quali eleggeva il proprio sindaco. Grazie all'autonomia politica e amministrativa, lo sviluppo economico e territoriale fu rapido. L'Aquila poté battere moneta propria, un vero privilegio dell’epoca medievale, e dare impulso ad attività specifiche, quali l'industria della seta, della lana e dei merletti, e alla coltura dello zafferano, che le fecero assumere il ruolo, seconda solo a Napoli, di centro più importante del Regno Angioino. Resistette vittoriosamente a Braccio da Montone che il 2 giugno 1424 l'attaccò, ma rimase sopraffatta dalle milizie di Giovanna II comandate da Giacomo Caldora;
appoggiò la casa d'Angiò contro Alfonso d'Aragona, e nella seconda metà del 1400 raggiunse l'apogeo della sua potenza. Il suo declino cominciò negli ultimi anni del XV sec quando L'Aquila si trovò coinvolta nelle guerre tra Francia e Spagna, appoggiandosi prima a Carlo VIII e poi all'imperatore Carlo V. Occupata nel 1529 dal viceré Filiberto di Chalon, principe d'Orange, fu saccheggiata e in parte distrutta, subendo anche forti perdite territoriali e gravi imposizioni fiscali da parte del governo imperiale. Persa così l'autonomia e funestata da una serie di terremoti ed epidemie, fu scenario di continue ribellioni interne fino al XVIII sec quando salì al trono di Napoli Carlo III, dei Borbone di Spagna, che cercò di risollevarne le condizioni economico-sociali.
Ma nel 1799, L'Aquila subì un nuovo saccheggio da parte francese, e durante il regno di Murat fu privata di considerevoli tesori artistici. Nel periodo risorgimentale, dopo la restaurazione borbonica, partecipò ai moti del 1821, del 1831 e del 1848, e dichiarò la sua annessione al regno d'Italia l'8 settembre 1860, subito dopo l'entrata in Napoli delle truppe garibaldine. Il 2 febbraio 1703 si verificò un devastante terremoto che causò più di 3.000 vittime. 


 LA CITTA’ DEI SOGNI DI FEDERICO II 

L’imperatore svevo la volle dalla forma simile alla pianta di Gerusalemme : la città Santa che lo aveva ammaliato durante la vittoriosa Crociata, dotandola così del doppio ruolo di capitale e centro spirituale, aveva bisogno in realtà di una nuova capitale nel nord del Regno di Sicilia che facesse da testa di ponte tra esso e il regno pontificio e si avvicendasse a Roma.
Federico, come sua consuetudine, mise in moto la sua potente macchina organizzativa con costruttori e astronomi. Nacque così la più grande città del medioevo con un disegno urbanistico di base semplice dal cui centro si diramano i quattro bracci di una croce quadrata. Le impose il nome Aquila come il sigillo imperiale, obbligò la distruzione di tutti i castelli nelle terre adiacenti , costruì il castello imperiale probabilmente individuabile nell’attuale basilica di Collemaggio. L’edificazione delle chiese venne disposta per trascrivere a terra la costellazione Aquila che fu scelta in quanto, come riferiva l’astronomo di Federico II, le antiche popolazioni avevano per essa la stessa idolatria riposta nel Sole, perché, dal punto di vista astronomico, si alterna con la costellazione della Lepre, come il Sole con la Luna. Ogni chiesa aveva la sua stella corrispondente, la città stessa rappresentava il Sole: l’astro intorno a cui tutto ruota. La “costellazione di chiese” venne racchiusa dalle mura fortificate. Il disegno topografico della città doveva svolgere la duplice funzione di simboleggiare un messaggio celeste e profetico che la indicasse come “città dello spirito e del rinnovamento”. Per questo fu plasmata in modo tale che nella forma sembrasse un’aquila dalle ali spiegate e ricalcasse la pianta di Gerusalemme nel disegno delle mura perimetrali, ancora oggi visibili. Se si osserva infatti l’antica mappa di Gerusalemme e la sua cinta muraria è praticamente uguale al centro storico di Aquila: la disposizione delle 12 porte murarie, il corso principale tagliato da via Roma, forma la croce dei 4 cantoni.
Le due città inoltre sorgono entrambe su colline L’ Aquila è a 721 metri e Gerusalemme a 750 metri. Se si confrontano le mappe urbane del XIII secolo e si fanno ruotare entrambe si ottiene una sovrapposizione più o meno precisa. Altra importante conformità topografica è la disposizione dell’urbanizzazione rispetto ai fiumi Cedron e Aterno che scorrono entrambi fiancheggiando le città e ancora tra il monumento denominato “Piscina di Siloe” di Gerusalemme e l’aquilana “Fontana delle 99 cannelle”, opere di ingegneria idraulica adiacenti a porte murarie nella parte più bassa. A nord di Gerusalemme svetta il monte del Tempio che corrisponde alla antichissima chiesa di Santa Giusta e il monte degli Ulivi della Città Santa è in relazione con il colle aquilano su cui sorge la basilica di Collemaggio. 

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli 
email mancinellielisabetta@gmail.com

I documenti sono tratti dagli Archivi di stato e da “La rivelazione dell’Aquila” di Ceccarelli, Cautilli, Proclamato. Le immagini sono tratte dal Web e dal testo suddetto.