venerdì 11 ottobre 2019

IL CULTO DEI DEFUNTI IN ABRUZZO





Il culto dei morti, l’elemento principale di tutte le culture, ha la sua radice nella innata "religiosità" dell'essere umano e nacque con l'uomo stesso. La storia e l'archeologia dimostrano che i riti funebri erano celebrati, presso tutti i popoli, da sacerdoti, stregoni e capi tribù secondo modalità, usi e costumi diversi.
Nel mondo egizio, greco-romano, azteco e anche ebraico il culto dei morti era sinonimo di cultura e rispetto del trapasso, lo dimostrano l’uso dei vari tipi di sepoltura: inumazione, mummificazione, cremazione e i vari tipi di sarcofagi, le tombe a camera e quant’altro. Era ritenuta infatti cosa mostruosa lasciare un cadavere insepolto. Nel credo cristiano e nella coscienza popolare ha continuato a vivere un forte sentimento, radicato nei culti arcaici dei morti considerati divinità sotterranee, che assimila i santi ai morti. Per questo la Chiesa celebra la festa di Ognissanti e quella della Commemorazione dei defunti in due giorni consecutivi il 1 e il 2 novembre.
La prima è dedicata ai santi e festeggia il loro dies natalis inteso come il giorno della nascita in cielo, la seconda è riservata ai morti. Agli uni e agli altri andava il ringraziamento per un buon raccolto e nella zona di Pacentro vigeva il detto : Nn’ abbaste a rengrazià lu Paradise – ci hanne misse la bona parole pure l’anema de lu Purgatorie (non basta ringraziare il Paradiso – ci hanno messo la buona parola anche le anime del Purgatorio), Nell’esistenza di un tempo, ritmata dal fluire delle stagioni e da tradizioni per lo più religiose, il culto dei defunti aveva una funzione biologica importante in quanto comportava gesti simbolici collettivi che aiutavano l’uomo a confrontarsi con la realtà integrale della vita e l’idea della morte diveniva naturale e pacificante, non angosciante come per l’uomo dei nostri giorni, che rifugge in maniera ossessiva dal pensiero di essa. La “pietas” verso i defunti è sempre stata molto sentita e presente nel popolo abruzzese sia negli aspetti folkloristici che in quelli tradizionali.

USANZE E RITUALI COMMEMORATIVI
In Abruzzo molte sono le usanze e i rituali legati alle anime dei defunti e ai loro rapporti con il mondo dei vivi riflessi di antiche credenze. Sulle tombe, negli ossari, sugli altari delle chiese e sui davanzali delle finestre si accendevano lumini per i morti.

La visita degli ossari, dove si raccoglievano le ossa dei defunti riesumati, era d’obbligo. Secondo la credenza popolare, mentre la carne finiva in cenere ( in terra pe’ i cice, terra per i ceci), le ossa resistevano e venivano conservate con cura in quanto costituivano il seme della resurrezione dei corpi e nel giorno del giudizio finale, gli scheletri sarebbero tornati a ricomporsi e a rivestirsi di carne. La tradizione dei ceri accesi nelle chiese e nelle abitazioni, comune un tempo a tutta l’Europa, è ancora viva in Abruzzo, in particolare nella Valle Peligna.
Fino pochi decenni or sono, quando le case erano ancora tutte abitate, i paesi assumevano l’aspetto di una diffusa luminaria in quanto si riteneva che, alla mezzanotte della ricorrenza di tutti i santi, i morti abbandonassero le loro dimore nel cimitero e si recassero in processione per le vie del paese. Dalle luci del camposanto alle lingue di fuoco delle candele oscillanti alle finestre si snodava, silenzioso e invisibile il corteo delle anime dei defunti. I lumini posti sulle tombe servivano ai morti per farsi luce sulla strada del ritorno, mentre quelli accesi alle finestre indicavano il luogo dell’antica dimora.

A Introdacqua, l’immaginazione popolare definiva anche l’ordine di successione della sfilata delle anime: davanti venivano, ma senza muovere i passi, quelle dei nati morti; seguivano quelle delle creature decedute poco dopo il battesimo; poi quelle dei giovani e delle ragazze precocemente scomparsi; infine le ombre degli anziani e dei vecchi. Tutti, con una candela in mano. Questa processione, che si ripete ancora oggi, era chiamata Scurnacchiera e per l’occasione era ripetuta la filastrocca: teri teri tera, e mo’ passa la scurnacchiera. Il termine deriva da curnacchia (cornacchia o taccola, corvus monedula). Si assimilavano le “anime sante” alle cornacchie in quanto, nel sentimento popolare i corvidi sono generalmente simboli ambigui negativi e positivi, tenebrosi e solari, ora messaggeri del divino e ora manifestazioni demoniache. Nelle campagne d’Abruzzo ancora vige l’usanza di spalancare una finestra della stanza in cui si trova il moribondo, perché esalando l’ultimo respiro, la sua anima possa uscire più facilmente, o mettere in bocca o in tasca al defunto una moneta per pagare il pedaggio per l’aldilà, o corredare la salma di tutti gli oggetti che in vita gli erano cari.
 La sera della vigilia del giorno dei morti, il 2 novembre, si usava appendere delle calze al camino e empirle di dolci per i bambini a cui si diceva che erano doni di tutti i loro familiari defunti passati nella notte e ancora vige l’usanza in molti paesi “la sera del ritorno” di lasciare la tavola apparecchiata, il piatto pieno, la bottiglia del vino o dell’acqua, il bicchiere e un lume al centro perché, dopo la processione, i morti vengono a mangiare a casa.
A Pratola Peligna si posava sul tavolo apparecchiato anche una conca d’acqua col ramaiolo e si lasciava socchiusa la porta di casa per accogliere i defunti. Il giorno della ricorrenza per devozione si dovevano mangiare ceci, grano e fave lessati e confezionare dolci a forma di fave ritenute dagli antichi il cibo rituale dei defunti in quanto contenevano le anime dei trapassati.
Altra usanza molto diffusa era il pranzo funebre chiamato “consolo” che si svolgeva in una grande varietà di forme e veniva preparato dagli amici e parenti dei colpiti dal lutto a scopo consolatorio a significare il desiderio di reintegrazione nella comunità compromessa dall’evento luttuoso. Un tempo vigeva anche l’uso del pianto funebre rituale, il lamento delle donne in presenza del defunto.
Esso aveva diversi nomi: arpetà, repòte, plasmi, a seconda delle zone, che poi cadde in disuso in quanto considerato dalla chiesa una manifestazione di paganesimo e di superstizione. Diversi studiosi si sono interessati allo studio dei lamenti funebri tra cui P. Lupinetti e Alberto Cirese. I canti funebri di cui restano tracce sono: Il lamento della vedova di Vasto e Il lamento della vedova di Scanno. I testi sono molto somiglianti , e questo dimostra che le nostre popolazioni migravano nell’interno della regione, quelle della montagna scendevano alla marina con greggi e armenti sostandovi anche a lungo per cui gli scambi avvenivano a tutti i livelli materiali e culturali.

Tradizione popolare molto diffusa, che si incontra con l’etica cristiana della chiarita, era anche l’elemosina; i contadini facevano regali in natura alla parrocchia, perché il prete li distribuisse ai bisognosi, ma si preferiva “fare il bene” (fa’ le bene) direttamente ai poveri. La sera di Ognissanti, nelle zone intorno a Pratola Peligna e Pettorano sul Gizio, i ragazzi, in piccole comitive, mascherati da spiriti, con la faccia impiastricciata da cenere o farina si recavano per le case del paese per ricevere “le bene” dagli adulti. Altra tradizione della vigilia e del giorno dei morti era la celebrazione di messe a suffragio dei defunti.
A Raiano la funzione durava quasi tutta la notte; a Roccapia, sempre di notte, si cantava l’ufficio dei morti e il sacerdote celebrava la prima messa per i confratelli della congrega del Rosario.

In molti paesi abruzzesi era diffusa la credenza che di notte avesse luogo un’altra messa speciale, di sole ombre, officiata dai preti defunti per tutti i morti del paese. Una funzione religiosa molto singolare , che è durata fino ai primi anni del 1900, si svolgeva a Sulmona il 2 novembre ( come documenta da Francesco Simonetti in “Sulmona nei riti religiosi” del 1901) essa era caratterizzata da una forte commistione di usi pagani : banchetto, danza e forme di culto cristiane :processione, messa e sacra rappresentazione. A Pacentro, nella settimana dei morti, si celebravano messe in tutte le chiese fino alla festa di San Carlo, che cade la prima domenica dopo Ognissanti ,mentre la sera della vigilia della Commemorazione dei defunti, si allestiva un banchetto per i morti, per dare loro ristoro in occasione della loro visita notturna. La mattina i cibi venivano distribuiti ai poveri.
UNA RICORRENZA DEI NOSTRI TEMPI: HALLOWEEN
Erroneamente si crede che Halloween sia una festa americana, in realtà si festeggiava già in età precristiana nel nord Europa nelle Terre dominio dei Celti ed era il loro Capodanno. Le popolazioni di questi luoghi lo chiamavano Samhain "passaggio". Essendo per gli antichi il tempo circolare e non lineare, questa data indicava contemporaneamente i concetti di "fine" e "inizio". E proprio per il concetto di "inizio e fine" c'era la credenza che i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti divenissero più sottili e che quindi fossero possibili i passaggi tra l'uno e l'altro. Era anche un passaggio stagionale: infatti esistevano solo due stagioni: il 31 ottobre segnava la fine dell'estate e l'inizio dell'inverno. L'interpretazione di "passaggio" riguarda anche la morte in sé: infatti questa viene intesa come passaggio da una vita all'altra, una rinascita vera e propria, quindi da non interpretarsi come un evento negativo.

Nel calendario anglosassone la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre in cui gli spiriti e le streghe incontrano i santi viene definita con il termine inglese “ Halloween” La parola è attestata la prima volta nel XVI secolo come una variante scozzese del nome completo All-Hallows-Even, cioè la notte prima di Ognissanti (all Saints ). Sebbene il sintagma All Hallows si ritrovi nell’ inglese antico All-Hallows-Even non è noto fino al 1556. Il nome Halloween deriva, quindi, dalla forma contratta di All Hallows’ Eve, dove Hallow è la parola arcaica inglese che significa Santo.
Ognissanti, invece, in inglese è All Hallows’ Day. L’importanza che, tuttavia, viene data alla vigilia si deduce sempre dal valore della cosmologia celtica: questa concezione del tempo, seppur soltanto formalmente e linguisticamente parlando, è molto presente nei paesi anglofoni, in cui diverse feste sono accompagnate dalla parole “Eve”, tra cui la stessa notte di Capodanno, “New Year’s Eve”, o la notte di Natale “Christmas Eve.
Il termine si è poi diffuso alla tradizione e al folklore attuali in molti Paesi del mondo e vede protagonisti soprattutto i bambini che, nella tradizione anglosassone, in questa notte vanno di casa in casa dicendo "trick or treat", cioè "dolcetto o scherzetto", cioè o mi dai qualcosa o ti faccio un maleficio, un sortilegio. Il simbolo di Halloween più conosciuto è "Jack-o-lantern", una zucca svuotata e tagliata come una faccia malvagia con una candela all'interno.

In Abruzzo, conformemente a quanto avviene nel mondo anglosassone in occasione della festa di Halloween era ed è ancora tradizione scavare e intagliare le zucche e porvi all’interno una candela e utilizzarle come lumini in memoria dei defunti. Noi abruzzesi, che abbiamo un così ricco patrimonio di tradizioni e celebrazioni collettive relative al culto dei morti, anche se presi dal ritmo incessante delle nostre incombenze e affanni, attraverso il recupero e la riscoperta delle usanze e dei cerimoniali collettivi, che permettevano ai nostri antenati di accettare la morte come parte integrante dell’ esistenza, potremmo riconsiderare l’idea del “passaggio” non più come angosciante ma in modo più sereno e pacificante.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
I documenti sono tratti da: l’Archivio di Stata, dall’Archivio della Cultura Popolare a cura di Marcello Bonitatibus, da “L’Acqua nuova” di Maria Concetta Nicolai e da “Folklore abruzzese” di Lia Giancristofaro.

giovedì 3 ottobre 2019

Ricordo di un grande pescarese ENNIO FLAIANO


Ricordo di un grande pescarese  ENNIO FLAIANO


Ennio Flaiano scrittore, sceneggiatore giornalista pescarese.Personaggio ironico ma anche acre, tragico e satirico che, con un vivo senso del grottesco, stigmatizzò gli aspetti più paradossali della realtà contemporanea. 

ENNIO FLAIANO
Nasce il 5 marzo 1910 da Cetteo Flaiano e dalla sua seconda moglie Franceca a Pescara nel fazzoletto di centro storico della città e precisamente in Corso Manthonè a pochi metri dalla casa natale di Gabriele D’Annunzio. Pescara era allora, come Flaiano stesso ricorda “Una Pescara diversa, con cinquemila abitanti: al mare ci si andava con un tram a cavalli e le sere si passeggiava, incredibile! per quella strada dove sono nato, il Corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora persino elegante….” .“Sono nato a Pescara in un 1910 così lontano e pulito che mi sembra di un altro mondo.
Mio padre commerciante, io l’ultimo dei sette figli della sua seconda moglie, Francesca, una donna angelica che le vicende familiari mi fecero conoscere troppo poco e tardi. A cinque anni fui mandato nelle Marche, a Camerino, presso una famiglia amica, che si sarebbe presa cura di me. Vi restai due anni. A sette anni sapevo fare un telegramma. Ho fatto poi anni di pensionato e di collegio in altre città, Fermo, Senigallia persino Brescia nel 1922. Il 27 ottobre dello stesso anno partivo per Roma, collegiale, in un treno pieno di fascisti che ‘facevano la marcia’. Io avevo dodici anni ed ero socialista. A Roma divenni un pessimo studente e arrivai a stento alla facoltà di architettura, senza terminarla, preso dal servizio militare e dalle guerre alle quali fui chiamato a partecipare, senza colpo ferire”.
Il padre, piccolo commerciante, dunque, già a cinque anni lo manda a Camerino presso una famiglia di amici, in quanto era consuetudine all'epoca affidare a famiglie più abbienti bambini che sarebbe stato difficile crescere a casa propria. Tornato nella sua città poco più tardi, il genitore, che si era separato dalla madre, preoccupato di dargli una buona istruzione , lo invia in collegio prima nelle Marche poi in Lombardia. Tornato a Roma nel 1930 Ennio abbandona l’Università ed esordisce nel giornalismo nella rivista “Oggi” di Pannunzio con rubriche su teatro, cinema e storia dell’arte. Nel 1935 viene fatto partire col grado di sottotenente per la Campagna d’Etiopia che lui definì “ una guerra che mi ha portato ventiquattrenne a ripudiare il fascismo e a desiderare che la cosa finisse brutalmente nella sconfitta”.
Nel 1940 sposa Rosetta Rota, zia del matematico e filosofo Giancarlo Rota. Nel 1942 nasce la figlia Luisa, soprannominata Lelè che all'età di otto mesi inizia a dare i primi segni di una gravissima forma di encefalopatia con gravi handicap che le comprometterà tragicamente la vita. Splendide pagine su questo drammatico evento e sullo struggente amore che nutrì per questa sfortunata figlia si trovano ne La Valigia delle Indie dove scrisse : « Sei stato condannato alla pena di vivere. La domanda di grazia, respinta… Coraggio, il meglio è passato».
Alla fine del 1946 si trasferisce a Milano per lavorare nella redazione di “Omnibus” con Achille Campanile. Una sera di dicembre dello stesso anno incontra Leo Longanesi che gli commissiona un romanzo. Nasce così “Tempo di uccidere” che nel luglio 1947 vince il Premio Strega.
Il tema di questo suo unico romanzo si rifà all'esperienza dell’autore sottotenente dell’esercito italiano, durante la Campagna d’Etiopia.
Nel 1949 viene nominato da Pannunzio redattore capo del nuovo settimanale “Il Mondo” dove lavora tra gli altri con Brancati e De Feo.
FLAIANO SCENEGGIATORE E CRITICO
Ennio Flaiano oltre che giornalista, scrittore e critico cinematografico e teatrale, recensore di settimanali e quotidiani, fu uno sceneggiatore di straordinario talento.
Fellini conosce Flaiano ai tempi della redazione di “Omnibus” e di questo abruzzese razionalista e laico, apprezza la battuta graffiante, la precisione e la cura per i particolari e il suo disincanto, siano essi aforismi, epigrammi racconti, soggetti cinematografici.
Essendo uno dei protagonisti della Roma intellettuale dei caffè dell’epoca di cui Fellini diffidava, fu un efficace anello di congiunzione tra il grande regista e l’intellighenzia di Via Veneto. Protagonista dunque della Roma notturna insieme a Cardarelli, Brancati e Longanesi si rivelò uno dei più grandi ingegni di quell'ambiente artistico ed intellettuale. Roma, oltre al lavoro, gli diede modo di conoscere altri grandi artisti. Tuttavia, per tutta la vita, ebbe un rapporto di spiriti  nel  1965,  firmò  le  sceneggiature  di  indimenticabili capolavori del cinema italiano quali I Vitelloni, Lo Sceicco bianco, La Strada, La dolce vita, (nastro d’argento per miglior soggetto originale e nomination per l’Oscar), Le Notti di Cabiria, Otto e mezzo e Ladri di biciclette con De Sica.
Attraverso l’occhio moralistico, venato di ironia e sarcasmo, i suoi aforismi, le sue sceneggiature e il suo rapporto spesso contrastato con Fellini si ricostruirà la situazione cinematografica e culturale dell’Italia del boom economico degli anni ’50 e ’60. Continua  intanto a scrivere per  giornali  e  riviste  quali “Corriere della   Sera”,  “Panorama”,  “L’Espresso”, “L’Europeo”, viaggia anche molto pur non amando viaggiare: Parigi,  l’Oriente  (Beirut,  Bombay,Bankok,  Hong  Kong),  e New York dove abita per lunghi periodi, Israele, Londra, Canada. Nel “Diario degli errori”, appunti che vanno dal 1950 al 1972 pubblicati postumi nel 1976, dipinge l’Italia dell’epoca con ironia e con una leggerezza che conservò tutta la vita nonostante il suo dramma familiare. Il tema predominante di questi scritti è apparentemente il viaggio. Ma in realtà  dice: è meglio non viaggiare perché la noia e la malinconia ci perseguitano dovunque andiamo. Flaiano  rivela in quest’opera l’essenza della sua personalità : polemico, amore-odio nei confronti della capitale che amava per le opportunità che gli dava e per le bellezze artistiche, ma odiava perché era “l’enorme garage del ceto più medio d’Italia”. Il sodalizio con Fellini, che iniziò con Luci del varietà, 1951, e si concluse con Giulietta degli tratti cinico, sempre disincantato, individualista anticonformista, con un orientamento politico antifascista ed anticomunista allo stesso tempo, in quanto non si riconosce nelle ideologie dominanti. Le sue annotazioni mettono alla gogna i malcostumi diffusi dell’epoca. I falsi miti, le false coscienze e l’idealismo filosofico assurdo di quel periodo. “Gli intellettuali dovrebbero avere la funzione di far divenire più semplici le questioni complesse, senza renderle semplicistiche, invece accadeva il contrario: anche le cose più semplici diventano complesse. I politici non parlano chiaro, gli intellettuali spesso scrivono libri illeggibili, incomprensibili per chi non ha un solido bagaglio umanistico, le leggi possono essere decifrate solo dagli avvocati.” Insomma conclude : “Non esiste la verità perché la linea più breve tra due punti è l’arabesco e gli italiani sono costretti a vivere in una rete di arabeschi”.
 Fu il primo ad intuire la crisi della persona umana per colpa del consumismo col suo venir meno di valori morali e punti di riferimento e dell’eccesso di una comunicazione mass-mediale volgare e superficiale. «La civiltà del benessere porta con sé proprio l’infelicità». Il  sodalizio  artistico  con  Fellini   fu spesso difficile  e, secondo   alcuni   biografi,   Ennio lo interruppe definitivamente nel 1965 quando colse un’ infelice battuta del regista sulla figlia malata che amava di una passione struggente proprio perché con lei la natura era stata matrigna e dal colpo non si era mai riavuto. Nel 1970 vince il Premio Campione con “Il gioco e il massacro”, nel 1972 con “Ombre bianche” vince il “Festival dei Due Mondi” (entrambi volumi di racconti). Fu colpito da un infarto nel 1971 e, prima che un secondo episodio fatale lo cogliesse a Roma ad appena 62 anni il 20 novembre 1972 mentre era ricoverato per sottoporsi a un banale controllo clinico, raccolse e catalogò molte delle sue preziose carte inedite tra le quali: progetti di sceneggiature, scritti per la radio o la televisione, copioni teatrali che furono pubblicati postumi. La figlia Lelè morirà nel 1992. La moglie Rosetta si è spenta alla fine del 2003. La famiglia è riunita nel cimitero di Maccarese, vicino Roma anche se Ennio sognava di riposare sul colle di San Silvestro accanto ai suoi genitori che in vita erano stati divisi.

FLAIANO E PESCARA
Dalla sua città natale, priva di stimoli culturali che viveva allora di commercio e pesca , quindi egli cominciò ad emigrare prestissimo, ma alcuni anni della giovinezza spensierata , quelli rievocati ne “I vitelloni”, Flaiano ebbe modo di trascorrerli nella sua Pescara, prima del distacco, impostogli dalla necessità, comune a tanti abruzzesi, intellettuali e non, e si avventura nella grande città in cerca di fortuna.“Lui aveva con la sua città un rapporto di grande nostalgia e, insieme, di grande timore. Aveva paura che, tornando a Pescara, trovasse una città diversa da quella in cui aveva vissuto nelle sue estati da ragazzo; perché per lui Pescara rappresentava essenzialmente l'estate delle sue vacanze. Così, ogni volta che vi faceva ritorno si lamentava di qualche cosa che era stata aggiunta o di qualcosa che mancava rispetto ai suoi ricordi. E' strano tutto ciò perché non è che lui avesse, poi, un rapporto fermo e duraturo con la città. Eppure provava questo dolore nel vederla trasformata”. (Da “Le Lettere a Giuseppe Rosato” di G. Rosato). “Pescara per Flaiano è il luogo fisico e immaginario dell’infanzia e della giovinezza di una mitica innocenza che Roma presto gli farà perdere, delle dolci estati al mare, delle amicizie consumate nell'oziosa attesa della guerra. Ma anche il luogo del dolore: quello di un figlio che si sente rifiutato dalla famiglia. Negli anni del distacco e della distanza Pescara crescerà anticipando incredibilmente i tratti antropologici dell’italiano nuovo” (da Pescara. Ennio Flaiano e la città parallela di Antonio Marchetti). L’influenza delle sue origini abruzzesi non è secondaria, considerato il significativo ruolo che l’autobiografismo occupa nell'intera sua produzione. Scrisse anche un romanzo poco conosciuto tutto abruzzese, “Il Messia”, dove racconta il particolare modo della nostra gente di intendere la religione. Altro esempio di appartenenza, tra i tanti, è L’“Autobiografia del Blu di Prussia”, un’opera evocativa, dettata dalla necessità di fare i conti con la sua infanzia infelice e con i difficili rapporti familiari. Inoltre in prima persona Flaiano parla del suo legame con l’Abruzzo e con Pescara nelle interviste e in alcune lettere, in particolare quella a Pasquale Scarpitti, dove afferma di scrivere “da abruzzese”.

AFORISMI

Ennio Flaiano è forse uno degli scrittori più citati per le sue battute, le sue frasi celebri e i suoi aforismi. 
  • Fra quelli indimenticabili:
  • Fra trent’anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la T.
  • Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.
  •  Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo ossia anticipare quello che accadrà
  • Quando l’uomo non ha più freddo , fame e paura è scontento.
  • Ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire.
  • I giorni indimenticabili della vita sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.
  • I grandi amori si annunciano in modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?

I documenti e le immagini sono tratti da “Pescara. Ennio Flaiano e la città parallela” di Antonio Marchetti, da “Ennio Flaiano l’uomo e l’opera”, dagli Atti dell’Associazione Culturale Flaiano e da “Le lettere a Giuseppe Rosato” di G. Rosato.

Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com