La struttura inaugurata nel 1900 testimone dell’emancipazione femminile attraverso il lavoro, che seppure in condizioni di salari bassi, e totale assenza di norme igienico-sanitarie, rappresentò un importante traguardo per molte donne pescaresi e non solo, ai fini del riscatto sociale ed economico, che operando nella Filanda potevano garantire ai propri figli una vita dignitosa e contribuì al tempo stesso alla crescita sociale ed economica della intera nostra città. La Filanda Giammaria rappresenta il luogo identitario in città della forza e delle energie delle donne delle passate generazioni, ricostruirla per farne una Casa delle Donne, ed un museo del lavoro femminile, significa trasmettere, tramandare alle generazioni future, la dignità ed il coraggio di queste donne.
LA FILANDA GIAMMARIA
La storia
Ciò che oggi rimane del complesso Giammaria costituisce una testimonianza particolarmente significativa dell’evoluzione della società pescarese, che nei primi anni del Novecento passò da un’economia locale legata alle attività rurali, alla produzione a carattere industriale. La proprietà, posta agli inizi della zona pedemontana dell’originaria Castellamare, faceva parte di quella fascia di residenze signorili di cui sono ancora testimonianza le ville che costeggiano i colli. Essa comprendeva vari edifici, dei quali solo tre sono oggi esistenti: la residenza padronale, di forme neo-medievali; l’edificio in mattoni che ha ospitato la filanda; il casino. Quest’ultimo compare già nel Piano direttore della Piazza di Pescara e del terreno che la circonda redatto dagli austriaci nel 1821 e attualmente conservato al Kriegsarchiv di Vienna, dove emerge un assetto ancora agricolo dell’area, con poche case e ville sparse, molte delle quali ancora esistenti e fondamentali per ricostruire l’identità e lo sviluppo storico dell’odierna Pescara.
Il casino
E’ l’edificio più antico del complesso, oggi in un pessimo stato di conservazione, ma ancora in grado di rivelare la storia delle sue trasformazioni e dell’intero complesso. Nell’attuale configurazione, il casino risulta privo dell’avancorpo coperto a terrazzo e della torretta-piccionaia che costituivano in passato rispettivamente l’ingresso principale e l’accesso posteriore dell’edificio. Il restante volume compatto, articolato in due livelli, è probabilmente l’esito di alcuni interventi di trasformazione e ampliamento di un impianto originario dalle vicende costruttive difficilmente inquadrabili, data l’assenza di fonti documentarie certe. La struttura, interamente realizzata in mattoni, è riconducibile alla casa rurale abruzzese articolata in abitazione, accessibile tramite una scala esterna, sovrapposta al rustico, funzionale all’attività agricola. Legando l’edificio all’evoluzione del contesto, è ipotizzabile che la comparsa di un primo nucleo abitativo e le successive stratificazioni siano ascrivibili ad un arco temporale successivo alla fondazione del vicino convento dei Cappuccini (1631). Lo sviluppo di attività produttive lungo l’asse di collegamento tra la sede dell’ordine religioso e il santuario della Madonna dei Sette Dolori, definisce infatti, tra XVIII e XIX secolo, un panorama di case sparse su fondo agricolo in cui compaiono “casini di buona struttura” spesso belli oggi fagocitati dall’edilizia intensiva di scarsa qualità architettonica che si è sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso.Il casino Giammaria ricalca nell’impostazione planimetrica e nella distribuzione interna gli schemi insediativi abbastanza comuni nel subappenino abruzzese e nella valle del Pescara: pianta quadrangolare sviluppata in due livelli, produttivo e residenziale, copertura a padiglione, scala esterna, configurata nella variante a rampe a gomito simmetriche e convergenti, sotto le quali si apre l’accesso principale ai locali di servizio del pian terreno. Un’immagine databile ai primi anni del ’900, nella quale compare anche la filanda, ritrae il fronte principale ancora oggi chiaramente leggibile.Il palazzetto Giammaria
L’edificio in mattoni con torre e merlatura che rappresenta l’elemento più noto del complesso Giammaria, è in realtà la residenza padronale della famiglia, costruita a partire dal 1927. Il progettista, Attilio Giammaria, compie gli studi universitari a Milano, dove si laurea nel 1924 in Ingegneria Civile. Dal 1928, oltre a portare avanti un’intensa attività professionale, partecipa anche alla Commissione straordinaria per l'Amministrazione della neo costituita Provincia di Pescara. Numerosissimi i suoi progetti, spesso firmati insieme con Vincenzo Pilotti, altro protagonista della vicenda pescarese della prima metà del Novecento. Tra le sue opere più importanti, oltre a palazzo Muzi e al teatro Massimo, si ricordano, la Casa del Mutilato, il campanile della chiesa del Sacro Cuore, il progetto di ospedale per malattie infettive. Nel dopoguerra ha diretto i lavori di restauro di villa De Landerset, ed è stato presidente del Consorzio di costruzione del comparto edilizio del settore sud di Piazza della Rinascita.
Da quanto è possibile ricostruire sulla base della documentazione cartografica, il palazzetto non riutilizza costruzioni precedenti, ma fu realizzato al posto delle antiche scuderie del complesso, a quanto risulta completamente demolite per far posto all’attuale costruzione. Per la sua realizzazione, originariamente diviso in due appartamenti, i proprietari scelsero un progetto di gusto neomedievale, del tutto vitale nell’Italia dell’epoca, non ancora orientata sulle “mode” di stampo razionalista che si diffonderanno a partire dagli anni Trenta. La residenza dei Giammaria assume un aspetto di piccolo castello con due ali laterali merlate, un corpo centrale e una torretta, anch’essa con merli su beccatelli, aperta in alto da una trifora impostata su modelli già rinascimentali. L’edificio ha subito poche modifiche e soprattutto interne, con la suddivisione in quattro degli originari due appartamenti. Resta anche con gli inevitabili segni del degrado dovuti alla scarsa manutenzione, una viva testimonianza che illumina sulle tendenze culturali della Pescara del 1927 ormai capoluogo , in cui i ricordi dell’eclettismo ottocentesco si mescolano alle esigenze di rinnovamento portate in città dalla nuova classe dirigente.La filanda
Tutta da scrivere la storia delle lavoratrici e dei lavoratori che operarono nella Filanda: tuttavia, la semplicità del fabbricato e le foto superstiti parlano di un impianto relativamente contenuto, ma con macchinari aggiornati, per una produzione che dovette già essere orientata in senso industriale.
PERCHÉ CONSERVARE LA FILANDA?
L’edificio della Filanda Giammaria è una testimonianza storica rilevante, anche perché inserito in un complesso abbastanza ben conservato e circondato dal verde. A seguito di un eccessivo allarme sulla stabilità dell’edificio, lo scorso ottobre il Comune ne autorizzava la messa in sicurezza, purtroppo estesa, con la demolizione di circa metà dello stabile. Non si tratta di un intervento necessario a causa della vetustà dell’edificio e del pericolo per gli abitanti e, anche se dato l’abbandono in cui versava l’edificio, si erano verificate limitate cadute di calcinacci e tegole, sul lato opposto rispetto a quello demolito, nessuna lesione grave si era manifestata agli abitanti delle case circostanti. L’intervento è stato condotto dagli attuali proprietari dell’immobile, che avevano stipulato con la stessa Amministrazione un accordo finalizzato alla costruzione nella stessa area di nuove abitazioni. Sembra di assistere alla ripetizione di un copione già noto, andato in scena varie volte nella vita recente e passata della città. La ex Centrale del Latte demolita nel 2010 era sfuggita alla memoria storica collettiva e non erano state prese adeguate misure per la sua salvaguardia, malgrado si sapesse dell’importanza storica e del valore estetico dell’edificio. E il caso ancora più eclatante dell’ex Teatro Pomponi, anch’esso dichiarato pericolante perchè gli emergenti costruttori avevano programmato per quell’area degli edifici. Nel caso della Filanda, invece, prima della demolizione era da mesi in discussione e poi in adozione presso la stessa Amministrazione Comunale la “Variante di salvaguardia del patrimonio storico-architettonico al PRG”, che aveva posto nella dovuta attenzione la conservazione dell’edificio. Questa volta, quindi, si era in possesso degli strumenti necessari per salvare l’immobile. I legittimi interessi acquisiti sono fuori discussione. E chi oggi chiede il salvataggio della Filanda si pone l’obiettivo di un rispetto pieno della legge e delle procedure. Ma ci si chiede anche se sia possibile pensare ad un’altra forma di gestione della città: in cui non si pensi solo ad aumentare le cubature , ma anche a luoghi di interesse culturale, economico, sociale, sostenuti dagli edifici portatori della memoria comune, come è accaduto al Matta pescarese. E’ quanto fanno le città di tutto il mondo, dai mattatoi alle centrali elettriche, agli edifici ex industriali di tutti i continenti. Perché i giovani pescaresi in visita a Barcellona, a Nantes o ad Atene, pronti a stupirsi davanti all’edificio del primo Novecento che oggi ospita attività culturali, ricreative o economiche non possono vedere la propria città proiettata nello stesso orizzonte culturale? Solo un “vincolo”, quello della competente Soprintendenza, la poteva salvare ed è stato affermato. La Filanda non vale solo come testimonianza in sé, ma anche e soprattutto come parte di un’antica proprietà incentrata su altri due edifici: il casino, di origine forse settecentesca e la residenza principale, costruita in forme neomedievali nel 1927. Salvare la Filanda significa quindi salvare una possibilità di pensare alla città in modo diverso, più in sintonia con i modelli occidentali e con il ruolo che Pescara deve giocare in ambito anche internazionale. Il salvataggio della Filanda non è quindi un capriccio di nostalgici irriducibili, ma il segno tangibile e forte di un nuovo sviluppo della città.
Articolo a cura di Elisabetta Mancinelli
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