lunedì 10 febbraio 2025

Pescara, l'antica Filanda Giammaria diventa La "Casa Delle Donne" Abruzzesi. Nobile progetto come Trait D'Union tra passato, presente e futuro.


La struttura inaugurata nel 1900 testimone dell’emancipazione femminile attraverso il lavoro, che seppure in condizioni di salari bassi, e totale assenza di norme igienico-sanitarie, rappresentò un importante traguardo per molte donne pescaresi e non solo, ai fini del riscatto sociale ed economico, che operando nella Filanda potevano garantire ai propri figli una vita dignitosa e contribuì al tempo stesso alla crescita sociale ed economica della intera nostra città. La Filanda Giammaria rappresenta il luogo identitario in città della forza e delle energie delle donne delle passate generazioni, ricostruirla per farne una Casa delle Donne, ed un museo del lavoro femminile, significa trasmettere, tramandare alle generazioni future, la dignità ed il coraggio di queste donne.

LA FILANDA GIAMMARIA

La storia

Ciò che oggi rimane del complesso Giammaria costituisce una testimonianza particolarmente significativa dell’evoluzione della società pescarese, che nei primi anni del Novecento passò da un’economia locale legata alle attività rurali, alla produzione a carattere industriale. La proprietà, posta agli inizi della zona pedemontana dell’originaria Castellamare, faceva parte di quella fascia di residenze signorili di cui sono ancora testimonianza le ville che costeggiano i colli. Essa comprendeva vari edifici, dei quali solo tre sono oggi esistenti: la residenza padronale, di forme neo-medievali; l’edificio in mattoni che ha ospitato la filanda; il casino. Quest’ultimo compare già nel Piano direttore della Piazza di Pescara e del terreno che la circonda redatto dagli austriaci nel 1821 e attualmente conservato al Kriegsarchiv di Vienna, dove emerge un assetto ancora agricolo dell’area, con poche case e ville sparse, molte delle quali ancora esistenti e fondamentali per ricostruire l’identità e lo sviluppo storico dell’odierna Pescara.


Il casino

E’ l’edificio più antico del complesso, oggi in un pessimo stato di conservazione, ma ancora in grado di rivelare la storia delle sue trasformazioni e dell’intero complesso. Nell’attuale configurazione, il casino risulta privo dell’avancorpo coperto a terrazzo e della torretta-piccionaia che costituivano in passato rispettivamente l’ingresso principale e l’accesso posteriore dell’edificio. Il restante volume compatto, articolato in due livelli, è probabilmente l’esito di alcuni interventi di trasformazione e ampliamento di un impianto originario dalle vicende costruttive difficilmente inquadrabili, data l’assenza di fonti documentarie certe. La struttura, interamente realizzata in mattoni, è riconducibile alla casa rurale abruzzese articolata in abitazione, accessibile tramite una scala esterna, sovrapposta al rustico, funzionale all’attività agricola. Legando l’edificio all’evoluzione del contesto, è ipotizzabile che la comparsa di un primo nucleo abitativo e le successive stratificazioni siano ascrivibili ad un arco temporale successivo alla fondazione del vicino convento dei Cappuccini (1631). Lo sviluppo di attività produttive lungo l’asse di collegamento tra la sede dell’ordine religioso e il santuario della Madonna dei Sette Dolori, definisce infatti, tra XVIII e XIX secolo, un panorama di case sparse su fondo agricolo in cui compaiono “casini di buona struttura” spesso belli oggi fagocitati dall’edilizia intensiva di scarsa qualità architettonica che si è sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso.
Il casino Giammaria ricalca nell’impostazione planimetrica e nella distribuzione interna gli schemi insediativi abbastanza comuni nel subappenino abruzzese e nella valle del Pescara: pianta quadrangolare sviluppata in due livelli, produttivo e residenziale, copertura a padiglione, scala esterna, configurata nella variante a rampe a gomito simmetriche e convergenti, sotto le quali si apre l’accesso principale ai locali di servizio del pian terreno. Un’immagine databile ai primi anni del ’900, nella quale compare anche la filanda, ritrae il fronte principale ancora oggi chiaramente leggibile.

Il palazzetto Giammaria

L’edificio in mattoni con torre e merlatura che rappresenta l’elemento più noto del complesso Giammaria, è in realtà la residenza padronale della famiglia, costruita a partire dal 1927. Il progettista, Attilio Giammaria, compie gli studi universitari a Milano, dove si laurea nel 1924 in Ingegneria Civile. Dal 1928, oltre a portare avanti un’intensa attività professionale, partecipa anche alla Commissione straordinaria per l'Amministrazione della neo costituita Provincia di Pescara. Numerosissimi i suoi progetti, spesso firmati insieme con Vincenzo Pilotti, altro protagonista della vicenda pescarese della prima metà del Novecento. Tra le sue opere più importanti, oltre a palazzo Muzi e al teatro Massimo, si ricordano, la Casa del Mutilato, il campanile della chiesa del Sacro Cuore, il progetto di ospedale per malattie infettive. Nel dopoguerra ha diretto i lavori di restauro di villa De Landerset, ed è stato presidente del Consorzio di costruzione del comparto edilizio del settore sud di Piazza della Rinascita.

Da quanto è possibile ricostruire sulla base della documentazione cartografica, il palazzetto non riutilizza costruzioni precedenti, ma fu realizzato al posto delle antiche scuderie del complesso, a quanto risulta completamente demolite per far posto all’attuale costruzione. Per la sua realizzazione, originariamente diviso in due appartamenti, i proprietari scelsero un progetto di gusto neomedievale, del tutto vitale nell’Italia dell’epoca, non ancora orientata sulle “mode” di stampo razionalista che si diffonderanno a partire dagli anni Trenta. La residenza dei Giammaria assume un aspetto di piccolo castello con due ali laterali merlate, un corpo centrale e una torretta, anch’essa con merli su beccatelli, aperta in alto da una trifora impostata su modelli già rinascimentali. L’edificio ha subito poche modifiche e soprattutto interne, con la suddivisione in quattro degli originari due appartamenti. Resta anche con gli inevitabili segni del degrado dovuti alla scarsa manutenzione, una viva testimonianza che illumina sulle tendenze culturali della Pescara del 1927 ormai capoluogo , in cui i ricordi dell’eclettismo ottocentesco si mescolano alle esigenze di rinnovamento portate in città dalla nuova classe dirigente.

La filanda
Costruita in prossimità del casino, la filanda risulta inaugurata, secondo alcune fonti nel 1900. L’abbandono parziale della fabbrica sembra legato alle distruzioni portate dalla seconda guerra mondiale, a Pescara particolarmente violente. Le tracce ancora presenti sul sito all’epoca del rilievo nel 2005, consentono di fare riferimento ad un complesso originariamente costituito da 3 corpi affiancati, a sviluppo rettangolare e presumibilmente coperti da tetto a capanna. Dei tre corpi solo quello centrale, mantiene l’impianto originario. Il padiglione nord, oggi totalmente scomparso, portava i segni di una trasformazione in officina probabilmente risalente agli anni Cinquanta, e quello a sud era ridotto a pochi brani. In pessimo stato risultava anche la piccola casa che si addossava al complesso sul lato sud.
Il padiglione centrale si presenta come un corpo unico in mattoni faccia vista diviso all’interno in due livelli; il piano superiore, sostenuto da un tavolato ligneo ancora visibile, fungeva da magazzino. La fabbrica era dotata di ampie vasche per il trattamento delle fibre vegetali andate distrutte a seguito della costruzione del parcheggio dell’Ospedale Civile. L’edificio ricalca la conformazione tipica di molti complessi industriali della seconda metà dell’Ottocento: struttura portante in mattoni, solai in orditura lignea sorretti da sottili pali di legno e copertura a capriate. Uno dei lati maggiori è irrobustito da pilastri sporgenti, pensati per alloggiare le capriate lignee della copertura. All’esterno, il semplice volume si presenta con la scabra superficie del mattone e con una successione di semplici finestre: unico elemento decorativo è la cornice in laterizi di taglio, molto frequente nelle simili costruzioni coeve. Nel complesso, un edificio funzionale e sobrio, con una chiara destinazione produttiva, che rappresenta un buon esempio di archeologia industriale a Pescara, interessante soprattutto perché la combinazione villa-residenza-produzione industriale si ripete lungo tutta la costa e trova nella stessa Pescara, come villa Forlani con annessa fornace, esempi analoghi.

Tutta da scrivere la storia delle lavoratrici e dei lavoratori che operarono nella Filanda: tuttavia, la semplicità del fabbricato e le foto superstiti parlano di un impianto relativamente contenuto, ma con macchinari aggiornati, per una produzione che dovette già essere orientata in senso industriale.




PERCHÉ CONSERVARE LA FILANDA? 

L’edificio della Filanda Giammaria è una testimonianza storica rilevante, anche perché inserito in un complesso abbastanza ben conservato e circondato dal verde. A seguito di un eccessivo allarme sulla stabilità dell’edificio, lo scorso ottobre il Comune ne autorizzava la messa in sicurezza, purtroppo estesa, con la demolizione di circa metà dello stabile. Non si tratta di un intervento necessario a causa della vetustà dell’edificio e del pericolo per gli abitanti e, anche se dato l’abbandono in cui versava l’edificio, si erano verificate limitate cadute di calcinacci e tegole, sul lato opposto rispetto a quello demolito, nessuna lesione grave si era manifestata agli abitanti delle case circostanti. L’intervento è stato condotto dagli attuali proprietari dell’immobile, che avevano stipulato con la stessa Amministrazione un accordo finalizzato alla costruzione nella stessa area di nuove abitazioni. Sembra di assistere alla ripetizione di un copione già noto, andato in scena varie volte nella vita recente e passata della città. La ex Centrale del Latte demolita nel 2010 era sfuggita alla memoria storica collettiva e non erano state prese adeguate misure per la sua salvaguardia, malgrado si sapesse dell’importanza storica e del valore estetico dell’edificio. E il caso ancora più eclatante dell’ex Teatro Pomponi, anch’esso dichiarato pericolante perchè gli emergenti costruttori avevano programmato per quell’area degli edifici. Nel caso della Filanda, invece, prima della demolizione era da mesi in discussione e poi in adozione presso la stessa Amministrazione Comunale la “Variante di salvaguardia del patrimonio storico-architettonico al PRG”, che aveva posto nella dovuta attenzione la conservazione dell’edificio. Questa volta, quindi, si era in possesso degli strumenti necessari per salvare l’immobile. I legittimi interessi acquisiti sono fuori discussione. E chi oggi chiede il salvataggio della Filanda si pone l’obiettivo di un rispetto pieno della legge e delle procedure. Ma ci si chiede anche se sia possibile pensare ad un’altra forma di gestione della città: in cui non si pensi solo ad aumentare le cubature , ma anche a luoghi di interesse culturale, economico, sociale, sostenuti dagli edifici portatori della memoria comune, come è accaduto al Matta pescarese. E’ quanto fanno le città di tutto il mondo, dai mattatoi alle centrali elettriche, agli edifici ex industriali di tutti i continenti. Perché i giovani pescaresi in visita a Barcellona, a Nantes o ad Atene, pronti a stupirsi davanti all’edificio del primo Novecento che oggi ospita attività culturali, ricreative o economiche non possono vedere la propria città proiettata nello stesso orizzonte culturale? Solo un “vincolo”, quello della competente Soprintendenza, la poteva salvare ed è stato affermato. La Filanda non vale solo come testimonianza in sé, ma anche e soprattutto come parte di un’antica proprietà incentrata su altri due edifici: il casino, di origine forse settecentesca e la residenza principale, costruita in forme neomedievali nel 1927. Salvare la Filanda significa quindi salvare una possibilità di pensare alla città in modo diverso, più in sintonia con i modelli occidentali e con il ruolo che Pescara deve giocare in ambito anche internazionale. Il salvataggio della Filanda non è quindi un capriccio di nostalgici irriducibili, ma il segno tangibile e forte di un nuovo sviluppo della città.


Articolo a cura di Elisabetta Mancinelli

email mancinellielisabetta@gmail.com

giovedì 21 novembre 2024

Paolo Martocchia, “Le perle di Silvi”: l'evoluzione storico-sociale e le mutazioni antropologiche.


Paolo Martocchia
 nasce a Parma, si laurea in Scienze Politiche e si specializza in Cooperazio­ne allo Sviluppo. Scrittore, giornalista e operatore culturale, studioso e raffinato ama la ricerca storica dei tempi e dei luoghi del territorio in cui vive e con cui si identifica e, pur provenendo da altrove, il suo mondo ha l’epicentro in Silvi tra le colline e il mare.
Ha firmato per molte testate nazionale e dal 2001 ha scritto scrive per il  gruppo editoriale “Il Sole 24 Ore”. E’ un sostenitore della cultura a 360°, ha inoltre collaborato con gli Atenei di Chieti e di Teramo e contribuito alla rinascita della vita culturale a Silvi. Attualmente lavora al quotidiano "La città".
Già autore dei volumi “Come cambia il lavoro: comunicazione, automazione, flessibilità” (IT Roma 2002) e François Mitterrand (Arte della Stampa, Chieti 2007), Variazioni di giudizio (Hatria, Atri 2010) ha dato da poco alle stampe “LE PERLE DI SILVI”, il suo nuovo interessante saggio storiografico della casa editrice Marte che offre un quadro d’insieme di fatti e personaggi di Silvi, incentrato su fonti giornalistiche e bibliografiche e delinea sia l’evoluzione storico-sociale che le mutazioni antropologiche di Silvi un «sito incantato».
L’autore racconta la storia della città tra l’arrivo della ferrovia e i giorni nostri ed è dedicata a tutti i cultori e appassionati di abruzzesistica, che ritengono importante la valorizzazione della Cultura della nostra regione. Il testo non solo parla di Silvi, ma anche della nostra regione e dei principali fatti accaduti in Italia dal primo decennio del ‘900 ai giorni nostri.

LA STORIA DI SILVI RACCONTATA DA PAOLO MARTOCCHIA
Paolo Martocchia ripropone  i momenti storici salienti della città: dalla Banda musicale alla prima Casa del Maestro, dall’arrivo di Mafalda di Savoia agli edifici di culto, dalla vocazione marinaresca alle tradizioni gastronomiche, arrivando sino alle memorie popolari e ai personaggi storici che l’hanno resa celebre.
Silvi, che negli anni Settanta veniva definita “la perla dell’Adriatico”, è costituita da due nuclei: la suggestiva parte alta: Silvi Paese dalle caratteristiche arcate di sostegno e dalla Marina una volta dalla finissima e dorata sabbia. Il paese inizia il suo percorso evolutivo e sociale il 17 maggio 1863 nello stesso giorno in cui arriva a Castellammare il primo treno a vapore della Ferrovia Adriatica.
Nel primo decennio del ‘900, l’influenza di Pescara si esercita attraverso Gabriele D’Annunzio e Giacomo Acerbo: mentre l’aeroporto viene affidato al marchese Martinetti Bianchi, Silvi arriva a detenere la prima “Casa del maestro”, la marineria di Silvi si sposta a Pescara, il Prof. Bassani si stabilisce a Silvi dove accorrono centinaia di “bagnanti” nel suo storico stabilimento “Cerrano Sub” vicino alla torre di Cerrano.
L’attento itinerario di Martocchia intende corroborare la tesi che vede in Silvi una città amabile, socialmente attraente, con qualità e caratteristiche che giustificano pienamente un grande e rinnovato orgoglio, anche attraverso l'influenza di Pescara, soprattutto nell'epoca de "La dolce vita" degli anni '70-'80, quando migliaia di pescaresi andavano ad affollare le discoteche di Silvi.
Il saggio ,dalla agevole lettura, tratta anche dell'evoluzione storico-sociale e delle mutazioni antropologiche del territorio silvarolo che ha l’aspetto di un’aristocratica signora a cui il tempo e la decadenza non hanno portato via i tratti genetici della bellezza e quelli eleganti della personalità.
L’opera va a sommarsi a una bibliografia dedicata al suggestivo paese: la “Cronaca e diario del Castello di Silvi” (1932) di Giuseppe de Torres , “Silvi bel suol d'amore” (1992) di Edoardo Famelici e “Silvi, storia folclore turismo” (1970) di Lamberto De Carolis.
La storia ha lasciato tracce dentro e fuori il paese in cui rimangono i connotati di una “bella epoca” dall'arrocco antico di Silvi Paese alle verdi colline fino alle ville superstiti in prossimità del litorale a Silvi Marina, memorie inconfutabili seppur confuse col disordine di una modernità e di una contemporaneità che non sono state e non sono generose con quel «sito incantato» a cui rimanda il libro di Paolo Martocchia.

In mezzo c'è un periodo intenso che ha segnato splendore e decadenza di quella «perla dell'Adriatico» dove le famiglie nobili atriane sfoggiavano le proprie residenze estive, costituendo un tessuto urbano e sociale signorile che si ritrovava al Club Marina, dove la gastronomia si affinava tra i sapori del pescato e dell'agro circostante, dove la fabbrica Saila cresceva facendo conoscere la liquirizia locale in tutto il mondo, dove i turisti italiani e stranieri affollavano l'estate, tra nuovi alberghi e spiagge attrezzate, regate veliche al Circolo Nautico, notti al Kursaal prima e alla Silvanella poi, e dove Mogol trovava ispirazione e scriveva capolavori per Lucio Battisti a Silvi, dove il paroliere passava le vacanze da ragazzo, è ispirata “La canzone del sole” .
“Forse nulla di nuovo o inedito, dice l’autore, senza pretesa di completezza nell’affrontare la storia di un paese che andrebbe rivisitato nella sua interezza in quanto la memoria storica aiuta la formazione di un’identità culturale e la condivisione di valori umani da tramandare ai posteri e soprattutto ci aiuta ad affrontare i nuovi problemi dell’umanità.





Recensione a cura di Elisabetta Mancinelli
e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com



martedì 19 novembre 2024

Intervista a Tonino Tucci, l'eclettico fotografo della vita pescarese degli anni '70 e '80.

 


BIOGRAFIA 

Tonino Tucci nasce a Pescara il 1 giugno 1938. 

Sin dall’età di dodici anni maneggia le prime macchine fotografiche, ne viene incuriosito e ne subisce il fascino. Inizia a praticare quest’ arte a sedici anni, man mano acquisisce nozioni ed esperienze e sviluppa le sue innate potenzialità. Anche durante il servizio militare gli viene assegnato il compito di fotografo della Compagnia e svolge con amore ed interesse sempre crescenti questa attività. Tornato a Pescara rileva uno studio fotografico in via Galilei dove, da subito, mette in mostra il suo talento, con servizi fotografici di alto livello. Viene poi chiamato da “ll Messaggero” di Roma che gli affida l’incarico di fotoreporter per le pagine di Pescara e Provincia. Collabora con la redazione de “Il Tempo” e viene poi assunto come fotografo da “ll Resto del Carlino”. Fotografo eclettico riesce a dare il massimo nei servizi fotografici riguardanti teatro, concerti, jazz e cultura in generale ma anche nello sport e nella moda. Partecipa al concorso fotografico per il 50° anniversario del Comune di Pescara e vince il 1° Premio. Nell’anno 1974 Lucio Fumo, responsabile del Festival Jazz di Pescara, gli affida il compito di fotografo della manifestazione. Le sue immagini appaiono su tutte le riviste specializzate anche americane. 

Viene nominato fotografo ufficiale della Pescara Calcio negli anni delle tre promozioni in serie A. Fotografo della mondanità pescarese negli anni ’70 e ’80 è testimone di questi anni insieme alla sua inseparabile macchina fotografica, fermando immagini di storie belle e meno belle della vita di Pescara e dei pescaresi e conoscendo personaggi del cinema, teatro e sport dell’epoca. Riceve diversi riconoscimenti tra cui il secondo premio per il concorso sulla “Porta del Mare”. E’ il fotografo ufficiale del Primo Giro ciclistico d’Abruzzo a tappe e fotografo di scena nel film “La sposina” girato a Pescara. La sua curiosità e creatività lo portano ad affacciarsi anche al mondo del teatro e, dopo aver frequentato un corso di dizione e recitazione con Antonio Calenda, nel 1980 entra a far parte della compagnia “Giovani oggi” di Pescara. Trasferitosi a Spoltore nel 1985 il suo entusiasmo coinvolge i giovani del paese con i quali organizza spettacoli teatrali a cui partecipa sia come attore che come regista. La sua passione per la fotografia lo spinge ad insegnare quest’arte ai bambini della Scuola Elementare del paese, affascinato dal gran desiderio di trasmettere alle giovani generazioni le proprie conoscenze.

Espone il suo ricco patrimonio fotografico in diverse mostre personali. Da una sua idea nasce il 1° Concorso fotografico “L’aratro d’oro” a Cavaticchi di Spoltore. Attualmente si dedica a letture di brevi racconti e poesie, con la predilezione per i versi di D’Annunzio che lo affascinano per la loro musicalità. Contemporaneamente il suo animo romantico e poetico ed il suo occhio fotografico sempre attento, lo portano a catturare immagini del mare e delle campagne del nostro Abruzzo, riscoprendo la dolcezza delle nostre colline dalle forme sinuose ricche di vibranti sfumature cromatiche e la particolare bellezza delle coste chietine disseminate di trabocchi da Ortona a Punta Aderci di Vasto.



INTERVISTA AL FOTOGRAFO.

Quando un raggio di sole, da un cielo coperto, cade su un vicolo squallido, 
è indifferente che cosa tocca: il coccio di una bottiglia per terra, 
il manifesto lacerato sul muro, o il lino biondo della testa di un bambino. 
Esso porta luce, porta incanto, trasforma e trasfigura.

Hermann Hesse


Come si è avvicinato alla fotografia? 

Naturalmente, sin dall’età di dodici anni ho cominciato a maneggiare le prime macchine fotografiche perché ne ero incuriosito, poi per personale attitudine e inclinazione verso questa arte, a sedici anni ne ho iniziato lo studio, acquisendo nozioni ed esperienze e sviluppando le mie potenzialità.


La fotografia per lei che cos'è?

Non solo è un modo di fermare la realtà che ci circonda ma è una forma d’arte che mi permette di esprimere la mia interiorità: le mie sensazioni, emozioni, suggestioni e vibrazioni dell’anima.


A proposito di colori lei preferisce il bianco e nero o il colore?

Ho sempre distinto il bianco e nero dal colore. Sono due modi differenti e diversi di fotografare: dipende dal soggetto, dagli elementi che si desiderano raffigurare. Il bianco e il nero è il mezzo tecnicamente più impegnativo e artistico e si adatta ai volti, ai mezzo busti e agli ambienti e crea un gioco di luci che meglio esalta le caratteristiche somatiche e le immagini. Il colore invece fa parte dell’esistenza in quanto noi vediamo a colori e rispecchia la vita reale.


Ha dei modelli, dei maestri?

Non ho modelli di riferimento, non ho mai imitato fotografi importanti, ma ho attinto da questi nozioni e tecniche per creare immagini confacenti alle mie esigenze personali di raffigurazione di soggetti e paesaggi.

E lei si sente un maestro?

Non mi sento un grande maestro ma semplicemente un insegnante che è affascinato dal desiderio di trasmettere le sue esperienze e le sue tecniche ai giovani.


Lei è stato fotoreporter per importanti giornali. Queste esperienze hanno influenzato il suo approccio all’attività più strettamente artistica?

Sì, avendo lavorato per Il Messaggero, Il Resto del Carlino e Il Tempo ho avuto esperienze formative basilari per la mia formazione professionale che hanno sicuramente determinato e sviluppato il mio senso artistico.

L’occhio con il quale fotografa i diversi luoghi cambia in funzione del soggetto, oppure i suoi scatti riflettono tutti una sua personale poetica?

L’occhio con il quale riprendo le immagini, i paesaggi, cambiano a seconda della luce, del soggetto e della situazione. Lavorando solo in esterni, non in uno studio, la fonte di luce è una sola e non sempre disponibile. Bisogna sapere in anticipo quando ci sarà, di conseguenza occorre recarsi sul luogo delle scene da fotografare per valutare se è quella adatta alla realizzazione delle immagini. In queste situazioni diventa esaltante cogliere l’attimo. È proprio in tali circostanze che si manifesta quel non so che di magico che ci consente di trasfigurare piuttosto che riprendere semplicemente una porzione di territorio. Ed è così che si può catturare l'anima dell'ambiente che ci circonda, che non è altro che il riflesso della nostra anima.


Quali sono i suoi soggetti preferiti?

Il mare e la campagna della mia terra. Questa scelta deriva da un’esigenza del mio carattere, dal mio modo di essere, non è una ricerca ma è insito nel mio animo. Il mare con il suo rumorio, il colore che cambia a seconda della luce, le sue caratteristiche mutevoli: selvaggio, forte, allegro, tranquillo, burbero, arrabbiato, rispecchia la mia indole. Mi affascina, soprattutto d’inverno, quando le onde impetuose si infrangono sulle rocce con i suoi zampilli schiumosi che bagnano la vegetazione selvatica sull’arenile. Adoro anche la campagna d’Abruzzo, dalle stupende immagini come le calde sfumature dei tramonti, i tagli dei terreni appena arati intramezzati dalla vegetazione e da tutte le sue componenti: alberi, fiori, farfalle…Anch’essa come il mare è parte di me, mi appartiene perché delicata, riposante, poetica: in questi elementi mi sento fotografo ma anche poeta.



Perché è così speciale la fotografia di paesaggio e, soprattutto, cosa è realmente la fotografia di paesaggio?

Per me è assolutamente speciale perché fa sì che io mi immerga nella natura dove il mio occhio e la mia macchina fotografica possono spaziare per coglierne i vari elementi: pianure, colline, alberi, fiumi, laghi, mare con i loro colori. Ma preferisco fermare le immagini in primavera e in autunno quando i contorni non sono tenui e sfumati ma ricchi di vibranti tonalità cromatiche.

La sua arte è in continua evoluzione? Quali sono attualmente le sue fonti di ispirazione?

Attualmente , dopo tanti anni dedicati alla fotografia di paesaggio, ho scoperto un modo nuovo di espressione fotografica lo “still-life” , che mi permette di ritrarre oggetti inanimati: frutta, ortaggi fiori, piccole composizioni a distanza ravvicinata. Sollecitato dalla mia fantasia cerco di cogliere la direzione del fascio di luce per convogliarlo sull’oggetto; questa mia personale lettura mi sta rivelando un mondo affascinante e fantastico a cui mi sto dedicando con grande emozione e che cerco di far conoscere a quanti sono appassionati alla fotografia.






























Intervista a cura di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com


Recapito:



lunedì 28 ottobre 2024

L'Abruzzo da scoprire: Rocca San Giovanni e la sua stupenda costa sui travocchi.


Rocca San Giovanni, è un borgo medievale situato su uno sperone roccioso tra la foce del fiume Sangro e quella del torrente Feltrino in provincia di Chieti. Dall'alto dei suoi 155 metri sul livello del mare domina la terra circostante ricca di torrenti , rigogliosa di vegetazione e di colture di agrumi, cereali e vigneti.

Il Borgo di Rocca San Giovanni è stato certificato come uno dei "BORGHI PIU' BELLI D'ITALIA".

Si tratta di un prestigioso attestato dell'A.N.C.I. che conferma il patrimonio architettonico e storico di questo villaggio, che ha conservato, nei secoli, una ricchezza di reperti e testimonianze delle origini.

 

LA STORIA

La storia e le origini di questo centro sono strettamente legate alla vita dell’Abbazia di San Giovanni in Venere. Il primo documento storico in cui viene menzionato l’abitato è un diploma del 1 marzo del 1047 dell’ imperatore Enrico III indirizzato appunto al monastero di San Giovanni in Venere.

L’antico borgo fu fondato nell’ XI sec. da Oderisio I abate di San Giovanni in Venere che fece edificare il castello e pensò di raggruppare le popolazioni sparse per i casolari campestri in una cinta di mura con lo scopo di dare rifugio, in caso di incursioni , sia agli abitanti che ai monaci intorno a Rocca. Inoltre l’abate inizia la costruzione di monumenti e chiese tra cui la Parrocchiale di San Matteo.

Nel 1195 Rocca San Giovanni passò all’Abate Oderisio II, considerato uno dei migliori nel governo del Monastero, tanto che per i suoi meriti insigni fu nominato Cardinale. Agli inizi del 1200 ingrandisce l’abitato, espande le mura rendendole più possenti, fa costruire tre torri quadrangolari e completa la parrocchiale di San Matteo.
Tra il 1346 e il 1381 l’abbazia di San Giovanni in Venere e la Rocca, in lotta con Lanciano, vivono momenti difficili, che si concludono con l’incendio del borgo.
Poi nel 1456, un forte terremoto rade al suolo buona parte delle abitazioni e della cinta muraria. Nel 1530 i pirati turchi compiono incursioni nel paese facendo prigionieri dei giovani, allora Rocca si munisce di torri di avvistamento per prevenirne le loro scorribande. Ma un altro forte terremoto nel 1627 porta morte e distruzione. La cinta muraria viene poi ricostruita ad opera dei Benedettini che si prodigano molto nel loro restauro. ll borgo partecipa ai moti carbonari, ai quali seguono anni di dura repressione.

Giustino Croce, nato a Rocca nel 1838, fu un patriota che si impegnò con grande coraggio alla diffusione degli ideali di un’Italia unita presso le classi meno agiatee nel 1860guida l’insurrezione popolare e strappa il vessillo borbonico. Gli eventi post-unitari furono notevolmente influenzati dalla presenza della famiglia di Giustino Croce e di suo figlio Ettore, infatti a Rocca San Giovanni si costituì un forte contingente di volontari della guardia nazionale che diedero un notevole contributo alla lotta al brigantaggioe si fece promotore per la costruzione del Palazzo municipale di Piazza degli Eroi e per l’apertura della prima scuola elementare in provincia di Chieti indirizzata ai ragazzi analfabeti delle campagne. Morì a Rocca a 55 anni.

Nel mese di aprile del 2011 è stato a lui intitolato il Palazzo Civico su cui è stata apposta una targa in suo onore. Rocca fu pesantemente coinvolta dagli eventi bellici dell’inverno 1943, che portarono alla distruzione di molte case e dell’antica torre a sud del paese, mentre la Chiesa, il campanile e il camposanto furono danneggiati gravemente dagli attacchi aerei. La diffusione del fascismo, dopo il 1922, fu ostacolata dal deputato comunista Ettore Croce figlio di Giustino.

Rocca fu pesantemente coinvolta dagli eventi bellici e liberata da un contingente di truppe canadesi il 3 dicembre 1943, dopo la sanguinosa battaglia del fiume Sangro. Il dopoguerra venne contraddistinto dalla presenza, quale amministratore pubblico dal 1956 al 1976 del dott. Francesco D’Agostino, medico e fondatore della Cantina Sociale “Frentana” . 


IL CENTRO STORICO

Il cuore il “salotto” del paese l’elemento che lo caratterizza e che colpisce il visitatore è l’elegante Piazza degli Eroi considerata la più bella della provincia con il complesso parrocchiale di San Matteo Apostolo, l’attigua torre campanaria e il Palazzo municipale.

La creazione di una piazza centrale grandiosa ed armonica fu concepita nel 1862 demolendo le antiche abitazioni e progettando un Palazzo municipale che doveva superare in altezza la Chiesa parrocchiale per indicare la superiorità del potere civile su quello religioso.

La arredano il complesso parrocchiale di San Matteo con l’attigua Torre campanaria del XIII secolo a pietra viva dalla forma slanciata, unica superstite delle tre antiche torri quadrangolari raffigurate anche sullo stemma del paese e il Palazzo Municipale del XIX secolo di ispirazione classica, sede di un’interessante raccolta di opere d’arte. Discendendo lungo il corso attraverso piccoli pittoreschi vicoli, che un tempo pulsavano di vita, si raggiunge una splendida terrazza panoramica dalla quale è possibile ammirare la valle sottostante 

LA CHIESA PARROCCHIALE

La Chiesa parrocchiale di San Matteo Apostolo, fatta edificare dall’abate Odorisio in stile romanico, è ancora dotata delle originarie arcate gotiche, la sua struttura attuale, risale al 1200.

L’interno si compone di tre navate divise da piloni che sorreggono cinque arcate a sesto acuto per lato e termina ad absidi semicircolari, come a San Giovanni in Venere. Le arcate sono a doppia ghiera, secondo l’uso del tempo; la zona presbiterale, è anch’essa di costruzione moderna, essendo sparita ogni traccia delle antiche absidi. All’interno sono conservati: una statua lignea della Madonna delle Grazie del secolo XIX, una tela Madonna col Bambino di scuola bizantina del XIV secolo e l’affresco dell’Ultima Cena di Amedeo Trivisonno. Per le sue caratteristiche interne la Chiesa di Rocca San Giovanni rimane unica nel suo genere nella zona frentana.

IL PALAZZO MUNICIPALE

La sua costruzione fu iniziata nel 1862 dopo l’unità d’Italia. Di ispirazione classica fu costruito per riaffermare la rinascita delle istituzioni civiche e possiede una caratteristica unica nella provincia di Chieti: è l’unico edificio comunale che e’ stato costruito per fungere effettivamente da Municipio.


Il palazzo è ad impianto quadrato ed in stile neomedievale lombardo. Al pianterreno è sito un porticato costituito da tre archi a tutto sesto, al primo piano tre aperture con arco sempre a tutto sesto, immettono al balcone con balaustra traforata. La parte centrale della facciata è leggermente avanzata rispetto al resto dell'edificio ed è realizzata in blocchi squadrati di arenaria. All'interno una imponente scalinata d’onore immette nell’ampia sala consiliare. Dal 2001 all'interno vi si svolge una mostra di arte contemporanea che raccoglie sculture, pitture ed incisioni poste sullo scalone interno principale e nella sala consiliare.  

LE MURA

Le mura a scarpa in ciottoli di pietra circondavano un tempo l’intero borgo medievale di Rocca San Giovanni e costituivano la cinta fortificata che offriva riparo alle popolazioni del circondario in caso di assedio.

Resti significativi delle imponenti mura della Rocca, culminanti con l’ancora ben conservato Torrione dei Filippini, sono posti lungo via abate Odorisio e testimoniano l’antica funzione del paese: una rocca a difesa dell’abbazia di San Giovanni in Venere.

Delle mura restano oggi solo alcuni avanzi nella parte orientale, che ricostruite nel 1628, sono state successivamente restaurate nel 1970 mentre le altre mura furono abbattute per dar modo al paese di estendersi e abbellirsi. 

IL MARE DI ROCCA SAN GIOVANNI

Rocca San Giovanni non solo è uno dei borghi più affascinanti della costa abruzzese, ma possiede un lido che per la limpidezza delle sue acque ha meritato più volte la Bandiera Blu d’Europa e anche quest'anno ha avuto le 4 vele di Legambiente. Il punteggio le è stato assegnato non solo in base alla qualità delle acque ma anche in base ad altri elementi come la valorizzazione del paesaggio e dei prodotti tipici, la qualità dell’aria e dell’ambiente.


L’aspetto più affascinante di Rocca San Giovanni è quello dei profumi che raggiungono ogni angolo del paese: ulivi, arance, nespole ma anche pini, ginestre e finocchio selvatico che dalle spiagge salgono su per i sentieri verso la collina.

Due sono i sentieri più caratteristici:

Il sentiero della Pineta in un km e mezzo di passeggiata conduce dalla Pineta al Fosso delle Farfalle, passando attraverso un ruscello, piccoli laghetti e una folta vegetazione.
Il Sentiero della Fonte segue il cammino che le donne percorrevano per andare alla Fonte a lavare e rifornirsi d’acqua.

Il lido di Rocca San Giovanni è caratterizzato inoltre da scorci suggestivi sul litorale con sinuose insenature e piccole candide spiagge ciottolose tra cespugli di ginestre e fazzoletti di terra coltivati. La più grande è quella in località la “Foce”: un piccolo gioiello costiero raggiungibile svoltando al chilometro 484-IV della Statale 16 che corre rettilineo per oltre 600 metri e si stende tra l'antico borgo di Vallevò e Punta Torre, dove sorge l'omonimo Trabocco ancora utilizzato per la pesca di novellame e cefali.

Vallevò è uno degli angoli più pittoreschi della costa abruzzese è un lembo di terra stretto fra un mare limpidissimo e morbide colline che si raccoglie in una manciata di case basse affacciate sugli orti, alcuni Trabocchi, e un porto domestico popolato da piccole barche e numerose trattorie che preparano ottime pietanze con il pescato locale. L’entroterra di Vallevò, al pari della costa, offre notevoli motivi di interesse: la morfologia del suolo è infatti caratterizzata dalla presenza di avvallamenti, i cosiddetti Fossi, disposti perpendicolarmente alla costa e solcati da torrenti che ospitano, tra la vegetazione, delle grotte naturali, che furono, durante la guerra, sicuri nascondigli per partigiani e sfollati. Il fosso più interessante nella zona di Vallevò è certamente quello delle Farfalle che segna il confine comunale tra i territori di San Vito e Rocca San Giovanni. Al suo interno, in cui scorrono acque perenni alimentate da piccole sorgenti, è racchiuso uno scrigno inaspettato di bellezze e valori naturali di grande interesse. L’alta e costante umidità permette lo sviluppo di una vegetazione rigogliosa tipica delle più ampie vallate fluviali, ricca di specie arboree e arbustive come pioppi, salici, olmi ma anche il più raro ontano nero e la farnia, una quercia dalle spiccate caratteristiche igrofile. Per quanto concerne il regno animale, invece, comuni sono i mustelidi, in particolare la faina e il tasso, e i piccoli roditori come il moscardino e il topo quercino. Particolare interesse riveste la presenza dell’ormai raro granchio di fiume, il Potamon fluviatile.

 


LIDO: Cavalluccio

Un’altra spiaggia del Comune di Rocca San Giovanni, tra le più belle della Costa dei Trabocchi è quella del Cavalluccio, a metà strada tra Vallevò e Fossacesia Marina; la baia è facilmente raggiungibile: dalla SS 16 seguendo le indicazioni per l’omonimo ristorante "Il Cavalluccio". La spiaggia, lunga circa trenta metri e larga quattro, per lo più sabbiosa, è caratterizzata da un Trabocco ancora in uso e da un grande faraglione chiamato lo scoglione. Sulla sinistra, raggiungibile a nuoto, una caratteristica rimessa per piccole imbarcazioni e tre lunghe scogliere. Alle spalle della baia, imponente, il promontorio sale in verticale verso il cielo offrendo al visitatore uno spettacolo indimenticabile.

EVENTI TRADIZIONI

Il 9 e 14 Agosto si celebrano la festa della natura, la giornata dell'emigrante e il festival della fisarmonica. Rocca San Giovanni è molto frequentata, soprattutto d'estate per i molti eventi musicali teatrali e religiosi che vi avvengono e per le bellissime e grandi spiagge che accolgono i turisti amanti del mare e quelli curiosi di conoscere l'arte della pesca per mezzo dei caratteristici trabocchi. 

I PRODOTTI

Denominata città del Vino, Rocca vanta due cantine La Frentana e la Cantina San Giacomo che producono vini Doc Montepulciano d’Abruzzo e Trebbiano d’Abruzzo. Se i vigneti si perdono a vista d’occhio, gli ulivi non sono da meno: dalle olive Gentile di Chieti si ricava l’olio Dop: Colline Teatine, un fruttato dai sentori erbacei e di colore verde oro. La Costa dei Trabocchi, regala inoltre una varietà tipica di arance.

PIATTO TIPICO

Acciughe o sardine, mollica di pane, aglio, prezzemolo e olio extravergine di oliva sono gli ingredienti per preparare la “palazzole”, piatto tipico della tradizione marinara locale. Il pane va sbriciolato, si tagliano prezzemolo e aglio, si dispone il pesce a strati alternando gli ingredienti e si inforna.

 

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com