sabato 5 aprile 2025

Un D'Annunzio inedito e suggestivo, viaggio ai Trulli di Alberobello nel 1917.

Di carteggi, biglietti, diari, epistolari Gabriele D'Annunzio (1863-1938) ne ebbe moltissimi tanto da essere definito un vero e proprio grafomane. Scriveva sempre e a tutti: alle amanti, ai familiari, agli amici, agli editori, ai compagni di vecchie avventure ma anche alla cuoca, all’autista. Usava portare con sé nelle tasche, ovunque andasse, veri e propri quadernetti per poter annotare, in ogni momento, qualsiasi osservazione e pensiero gli passasse per la mente. Dei luoghi amava riferire con minuzia tutti i particolari, ciò non gli impediva tuttavia la loro trasfigurazione da spazi reali a luoghi mitizzati. Anche nei i Taccuini quei paesaggi appena accennati, schizzati , disegnati o colorati, testimoniano tale mitizzazione. "I documenti sono tratti da “Impressioni pugliesi di Gabriele D’Annunzio” di Stefano Leone e dal Museo del Territorio di Alberobello.

IL VIAGGIO

Una delle sensazioni più suggestive è quella che il poeta , prova passeggiando tra i trulli di Alberobello cittadina inimitabile per la caratteristica presenza dei  trulli, (dal greco trullo: “cupola”) durante un viaggio in Puglia. Questo avvenne negli ultimi giorni di settembre del 1917 al tempo del volo per il bombardamento delle Bocche di Cattaro del 4 ottobre. Egli entrò nel trullo col numero civico 7, situato nella piazza a lui intitolata e così descrive lo stupore per lo straordinario paesaggio della Murgia, avvolto dalle strane costruzioni coniche: “all’improvviso nella valle d’Itria ecco spuntare case di fiaba, attendamenti di pietra nel terreno ondulato, innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenicio”. Vorrei stendermi per terra  in un "trullo" dalla volta d'oro e lì sognar”.

DAL PAESE AL POETA

Nel centro storico di Alberobello, (dal lat. Arboris Belli) nella piccola Piazza Mario Pagano, gli abitanti del paese hanno voluto rendere omaggio al ricordo dell’illustre figlio della regione abruzzese legata dai tratturi della transumanza alla regione Puglia.  A questo scopo è stata posta una gigantografia dal fondo rosso sfumato al centro dell’ingresso dei due trulli che costituiscono adesso il Museo del Territorio. In essa l’immagine del poeta con al fianco un passo tratto dai Taccuini nel quale Gabriele D’Annunzio descrive i luoghi magici della valle d’Itria . L’osservazione nasce da un momento di malinconia e di solitudine nel ricordo della sua terra natia che a tratti somiglia a quella che il poeta attraversa. Ne deriva una serena elegia che è una delle pagine più belle dei Taccuini.


Cronache di un viaggio, 1917.

“Partiamo per Brindisi in automobile. Lunga strada abbagliante, per una campagna di sete. Grossi borghi imbiancati. Gli olivi. Tra Alberobello e Locorotondo i paesaggi strani sparsi di trulli. Una specie di attendamento lapideo. I padiglioni conici di pietra, col fiore in cima. I trulli bruni e bianchi. I gruppi di coni. Penso ad una abitazione fatta di sette trulli con l’interno dorato, con le pareti di lapislazzuli, con i pavimenti coperti di tappeti arabi. Ad Alberobello la festa di Cosimo e Damiano, la festa dei Santi Medici. Carri pieni di pellegrini, processioni, musiche… Paese remoto come sogno, e come un’antica età. La via bianca tra muri e secco. Gli ulivi consorti, sui grossi ceppi, simili a quelli della baia d’Itea, di Delfo, di Egina; ulivi ellenici. L’erba arsiccia nell’ombra, color di velluto fulvo. Le pecore nere, le pecore dei sacrifizi  alle divinità di sotterra, che fuggono tra ombra e ombra. Qualche capro nero, dall’occhio giallo. Qualche stuolo di contadini seminudi, simili a certi gruppi di terracotta beotica, simili a certe figure dei vasi campani. Nella stanchezza mi addormento… Mi sveglio e vedo un paese di sogno, come se dormissi tuttavia. L’attendamento di pietra nel terreno ondulato. Gli innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenici. Lunghe nuvole rosee in cielo d’acquamarina. Le città bianche che s’innazzurrano nella sera. La luna pallidissima nel cielo limpido.”


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com






Muzio Attendolo Sforza il famoso capitano di ventura trovò la morte nel fiume Pescara.


Ottimo soldato e buon capitano, ma politico mediocre, fu spesso una pedina nel gioco dei pretendenti e dei favoriti del regno di Napoli. Attraverso i suoi matrimonî seppe incrementare e consolidare la fortuna che s'era creata con le armi; ebbe numerosi figli, di cui molti naturali poi legittimati. Figlio naturale fu il grande Francesco, futuro duca di Milano, natogli da Lucia Terziani.

LA VITA

Muzio Attendolo Sforza nacque a Cotignola il 28 maggio 1369 in Romagna, da Giovanni Attendolo ed Elisa Petracini. Passò alla storia con questo nome ma, ai suoi tempi, veniva chiamato Muzzo, da Giacomuzzo, furono i cronisti posteriori che, per nobilitarne la stirpe, arrivata al potere, trasformarono il popolare soprannome nel romano, nobile Muzio. Si narra che una sera del 1382 il giovane Giacomo, mentre stava zappando un campo, vide passare dei soldati della compagnia di Boldrino da Panicale  alla ricerca di nuove leve. Attratto dall'idea scagliò la zappa in alto, se essa fosse tornata a terra sarebbe rimasto se invece si fosse impiantata in un albero avrebbe seguito la compagnia. La zappa si impigliò in una quercia, Giacomo rubò un cavallo al padre e seguì i soldati. Iniziò così la sua carriera militare vera e propria come capitano di ventura di  Alberico da Barbiano che gli diede il soprannome Sforza per la sua capacità di rovesciare le situazioni a suo favore e in riferimento al vigore fisico. Si raccontava infatti che fosse in grado di piegare un ferro di cavallo con la sola forza delle mani. Si pose al seguito del re Ladislao, in guerra contro il pontefice poi si fermò nel napoletano e alla morte del sovrano nell’ agosto del 1414 rimase a servizio dell'erede Giovanna II. Nel 1417 il Papa chiese a Giovanna II l'invio di truppe per resistere a Braccio da Montone e Muzio Attendolo ne fece parte insieme al figlio Francesco. Nel 1418 fu nominato gonfaloniere della Chiesa e assunse il comando delle truppe pontificie. La sua avventurosa esistenza si concluse il 4 gennaio  1423, quando Giovanna diede allo Sforza l’ incarico di andare a soccorrere la città dell’Aquila che stava subendo l’assedio di Braccio da Montone. Muzio, nel tentativo di guadare il fiume mentre un suo paggio rischiava di affogare , spinse il suo cavallo nel fiume per salvarlo, ma essendosi le gambe posteriori del destriero affondate nella melma fangose, egli fu rovesciato dalla sella Il cavallo allora libero del peso giunse alla riva e il capitano sotto la pesante armatura, affondò nel fiume. Nessuno ritrovò il suo cadavere. Vi sono due dipinti in Abruzzo che ritraggono la scena dell’annegamento di Muzio Attendolo Sforza.
Il primo è un disegno che ritrae il luogo nel quale annegò il condottiero di ventura Muzio Attendolo Sforza all'inizio del 1424 e fa parte della serie di bozzetti realizzati nel corso dell'Ottocento da Consalvo Carelli riguardante paesaggi e monumenti abruzzesi. Si compone di tre parti: sullo sfondo alcune case ed un ponte sul fiume in lontananza, una torre cilindrica su una lingua di terra più vicina e, quasi in primo piano, due donne in costume che sostano presso il fiume dopo aver appoggiato un recipiente per l'acqua su un blocco di pietra. Attualmente è conservato presso la Pinacoteca Civica "Vincenzo Bindi" di Giulianova.

Il secondo è un dipinto a olio su tela  di Gennaro Della Monica conservato presso la Pinacoteca d'arte "Costantino Barbella" di Chieti. Il pittore ha inteso rappresentare il singolare episodio conferendogli un tono romantico, accentuato dalla colorazione cupa e dalle luci crepuscolari.



Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

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Singolare Anedotto di D'Annunzio Burlone: Giovinetto.


Gabriele d’Annunzio e la sua sorellina Annina da giovinetti erano molto belli e rassomigliavano molto alla madre anch’ella dai tratti dolci e amorevoli. Gabriele era spiritoso, eccessivo negli scherzi e cavilloso nei giochi ed anche un po’ superbo specie la domenica quando Donna Luisa gli metteva il vestito nuovo, l’orologio e la catena d’oro per portarlo a messa ed a passeggio insieme al domestico Gennaro. Nel 1874 all’età di undici anni entrò nel collegio Cicognini di Prato per volere del padre che aveva intuito le eccezionali potenzialità del figlio. A questo proposito il poeta disse «La providenza di mio padre che mi vietava la barbara terra d'Abruzzi finché non fossi intoscanito incorruttibilmente». Dal suo luogo di studio scriveva spesso ai compagni ricordando loro le violente battaglie con sciabole e fucili di legno che ogni sera facevano sui bastioni della Fortezza. Scriveva continuamente ai genitori e ogni mese mandava una lettera al maestro delle elementari Giovanni Sisti, il quale le leggeva in classe e diceva “Questo è un alunno che mi fa onore voialtri dovreste prenere lo zufolo ed andare a pascolare le pecore”. Nel giugno del 1875, dopo aver superato gli esami della seconda ginnasiale, Gabriellino tornò in vacanza nella sua città.

Arrivò a Pescara vestito da convittore: sembrava un ufficialetto degli ussari ungheresi: giubba nera con due file di cinque bottoni di stoffa nera e, tra un bottone e l’altro in senso orizzontale tanti cordoni di seta nera. La madre commossa, nel vederlo così bello scese velocemente giù per le scale per abbracciarlo e baciarlo cento, mille volte. Prima che si cambiasse d’abito che gli stava molto bene, Donna Luisa mandò a chiamare tutti i suoi amici ed in un momento la casa si riempì. Vennero Vittorio, Ciccillo e Achille Pepe, Pasquino, Alfredo, Levino, Fermina e la bionda Diletta Menna, Nicolla De Marinis che sposò la sorella di Gabriele Annina e altri amici. Mancava solo la bella Mariannina Cortes, dal bel viso e due grandi occhi che la facevano rassomigliare alla Fornarina, che il poeta amava molto sin da bambino. Ad un tratto, mentre Donna Luisa offriva paste e liquori come in una festa, a Gabriele venne in mente una delle sue diavolerie solite. Si assentò dalla conversazione senza farsi scorgere, chiamò la cameriera e con lei andò in cantina per trovare, tra legna e botti, dei grossi scorpioni, poi pregò la donna d’infarinarli subito e di friggerli.


Appena pronti Gabriele li mise in un piatto ed andò ad offrirli alle signorine che credettero a qualcosa di buono, i suoi compagni, invece, conoscendolo capirono subito che si trattava di un “brutto tiro”, li rifiutarono e si misero a ridere, le ragazze allora si resero conto del tremendo scherzo e, terrorizzate, buttarono a terra quel buon fritto di scorpioni.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellaelisabetta@gmail.com


La Benedizione delle uova pasquali: tra rito e storia.


La tradizione religiosa ha sempre considerato l'uovo come il simbolo del dischiudersi della vita nella stagione di primavera quando la natura si ridesta e si rinnova. Questa espressione della pietà popolare, propria sia dell'Oriente che dell'Occidente, si riflette nella consuetudine di benedire le uova nel giorno di Pasqua. Il gesto semplice ed umile porta nell'ambito familiare il messaggio della risurrezione e della vita nuova in Cristo, che investe l'uomo e la natura. La benedizione delle uova, tradizione molto sentita in Abruzzo, avviene ancora adesso: i sacerdoti di alcuni paesi fanno il giro delle case per prendere le uova da benedire e molti abitanti si recano essi stessi alla prima messa, con una mappina  ripiegata ai quattro pizzi  all’interno della quale pongono un piatto pieno di uova lesse tenute strette da un nodo. Fino a tempi non molto lontani da noi, ogni famiglia donava ai  sacerdoti, in occasione della visita fatta alle case, una piccola quantità di uova fresche. Di ‘uova colorate’, dipinte con varie tinte vegetali, si parla in un documento della prima metà del XIII secolo, quando nelle nostre contrade regnava l’ imperatore Federico II di Svevia.

Il documento venne stilato nel 1276 (26 anni dopo la morte dell’ Imperatore) nel Monastero di Santa Maria di Cinquemiglia, sito nel medio corso del Sangro, e reso noto dallo storico Giuseppe Celidonio nel III volume dell’opera “La Diocesi di Valva e Sulmona”. L’Autore scrive che nel giorno di Sabato Santo il Monastero di Santa Maria di Cinquemiglia, tramite il suo Bajulo, mandava a ritirare presso gli abitanti dei Casali  soggetti all’Abbazia “uova lesse et pinte “ed ogni Casale era contraddistinto da un particolare colore, espediente questo che serviva come promemoria all’Abate per controllare l’avvenuto pagamento, da parte dei ‘villici’, delle prestazioni dovute  al Convento. Dallo storico Antonio De Nino apprendiamo che in epoche più recenti, quando la povertà era di casa nelle nostre contrade, si prestava di tutto anche le uova, “le quali si misuravano in un cerchietto di ferro “ e quando si dovevano restituire esse dovevano avere lo stesso diametro di quelle avute in prestito. D’inverno, scrive sempre il De Nino, quando la famiglia era riunita attorno al camino e la cena, come al solito, era stata magra per tutti, si organizzava il giuoco chiamato “spacca l’uovo”. Un uovo sodo e sgusciato veniva sistemato dalla persona di casa più anziana in un punto del tavolo della cucina e ne diventava padrone l’esponente della famiglia che, bendato e fatto girare più volte su se stesso per fargli perdere l’orientamento, riusciva a tagliare l’uovo con un solo colpo di coltello. Antica e originale è anche l’usanza dell’ ammaccatura  dell’uovo sodo. Il giuoco si svolge tuttora nella piazza principale di Spoltore (Pescara) fra due concorrenti che, nella mattina di Pasqua, si affrontano con il proprio uovo sodo in mano, non sgusciato, e lo tengono ad una distanza di circa 2 cm l’uno dall’altro. Vince la singolar gara quello che per primo riesce ad ammaccare con un solo colpo l’uovo dell’altro e ne diventa in tal modo possessore.

BENEDIZIONE ALLE UOVA A PASQUA (secondo il Benedizionale CEI) Rito breve

Il ministro inizia il rito dicendo:

V. Sia benedetto Cristo, nostra Pasqua. [Alleluia.]

R. Ora e sempre. [Alleluia.]

Quindi, secondo l'opportunità introduce il rito di benedizione con brevi parole. 

Poi uno dei presenti legge un brano della Sacra Scrittura:

Rm 6,4. "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova."

2 Cor 5,15-17: "Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove."

Ef 4,22-24: "Fratelli, dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera."

1 Pt 3, 15: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi".

Quindi il ministro dice:

Preghiamo. Tutti pregano per qualche momento in silenzio. 

Il ministro, con le braccia allargate, prosegue: Benedetto sei tu, Signore del cielo e della terra, che nella radiosa luce del Cristo risorto ridesti l'uomo e il mondo alla vita nuova che scaturisce dalle sorgenti del Salvatore: guarda a noi tuoi fedeli e a quanti si ciberanno di queste uova, umile e domestico richiamo alle feste pasquali; fa' che ci apriamo alla fraternità nella gioia del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore, che ha vinto la morte e vive e regna nei secoli dei secoli.

R. Amen.

Quindi il ministro asperge con l'acqua benedetta i presenti e le uova dicendo queste parole o altre simili: "Ravviva in noi, o Padre, nel segno di quest'acqua benedetta il ricordo del nostro Battesimo e l'adesione a Cristo, crocifisso e risorto per la nostra salvezza".


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email:mancinellielisabetta@gmail.com



Le tradizioni popolari in Abruzzo.


L’etimologia del termine “folklore” deriva dall’unione di due parole di antica origine sassone: “folk” popolo e “lore” sapere, sapere del popolo. Lo studio e l’interpretazione delle tradizioni popolari in Abruzzo sono iniziati ad opera di studiosi che ne avevano intuito l’importanza molto tempo prima che Gramsci così definisse il folclore: “non una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola ma una cosa molto seria. Finora il folclore è stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco, occorrerebbe studiarlo invece come concezione del mondo e della vita”. Uno dei padri delle tradizioni popolari si deve ritenere il medico siciliano Giuseppe Pitrè che iniziò il lavoro di raccolta, studio ed interpretazione del folclore con la creazione della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. 

Egli uscì dai confini della sua isola e si relazionò con altri studiosi tra cui l’eminente antropologo Gennaro Finamore (Gessopalena 1836-1923) che per primo sistemò organicamente la cultura popolare abruzzese; anch’egli medico, proprio dall’esercizio della sua professione ebbe il primo impulso a raccogliere i documenti della vita popolare della nostra regione. I suoi due volumi “Curiosità e credenze “costituiscono il corpus più completo delle tradizioni regionali: materiale relativo a credenze, consuetudini, superstizioni, norme di medicina popolare. Suo contemporaneo e altro studioso del folclore abruzzese fu Antonio De Nino ( Pratola Peligna 1832- 1907) che si dedicò agli studi demiologici e linguistici contenuti nella sua raccolta “Tradizioni popolari abruzzesi” che fu definita letteraria in contrapposizione a quella dello scientifico Finamore. Un saggio di questa tipologia di studi è il racconto “La gallina nera” ispirato alla credenza popolare secondo cui la cresta della gallina nera guarisce dal mal di testa. Anche il sulmonese Giovanni Pansa (1865-1929) legò il suo nome ad importanti ricerche relative a superstizioni e miti abruzzesi. I suoi due volumi “Miti e leggende e superstizioni d’Abruzzo” sono ritenuti fondamentali per gli studi etnografici regionali. Il Pansa si è dedicato nello specifico al culto delle grotte, delle pietre miracolose e alle usanze devozionali nei pellegrinaggi in particolare agli ‘strofinamenti rituali’ nei confronti dei quali lo studioso mostra uno spirito interpretativo all’avanguardia ritenendo queste antiche pratiche, ancora esercitate in qualche santuario, finalizzate ad ottenere un contatto completo con la divinità dalla quale ci si aspetta di ricevere guarigioni e grazie.

Domenico Ciampoli (Atessa 1852-Roma 1926) narratore e saggista fu un fecondo scrittore di fiabe e racconti in stile verista ispirati alla tradizione folcloristica abruzzese e, anche se non fu un vero e proprio studioso, trascrisse leggende e credenze della vita popolare del proprio tempo. Nella sua raccolta “ Fiabe abruzzesi” descrive il mondo agropastorale, le celebrazioni votive del mese di maggio in onore della Madonna e le consuetudini magico-sacrali legate al matrimonio.

CREDENZE POPOLARI, RITI E PRATICHE MAGICHE

Dalle ricerche e dagli studi compiuti da questi padri del folklore e delle tradizioni popolari sono venuti alla luce tutta una serie di documenti riguardanti i riti di magia, le superstizioni e le terapie naturali dei tempi passati. Tante erano le pratiche magiche che avevano lo scopo di scongiurare gli eventi da ogni influsso negativo proveniente dal soprannaturale. Queste riguardavano tutti gli aspetti e le tappe della vita umana secondo un ritmo cadenzato del tempo: la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la morte. Numerose erano le credenze popolari che accompagnavano la nascita di un bimbo e i suoi primi anni di vita, si tratta in genere di una serie di precauzioni miranti a tenere lontano i mali, da quelli reali a quelli “magici”. La necessità di protezione da quanto può provocare danno anche da un’occhiata invidiosa, causa di malocchio, si spiega con il fatto che la venuta dei figli era considerato segno della benevolenza divina in Abruzzo come in tutto il centro Sud. Antiche usanze al riguardo erano il divieto di baciare il bambino prima del battesimo e quella di appendere alla camicina del neonato cornetti , oggetti d’oro e d’argento a forma di cuore. Molti erano gli scongiuri per i mali dell’infanzia dalle forme di incantesimo per la verminara e il Fuoco di Sant’Antonio ai riti per la propiziazione del buon afflusso del latte materno con il ricorso all’acqua “terapeutica” di alcune fontane considerate miracolose, dedicate alla Madonna a Santa Scolastica e Santa Eufemia. Riguardo il fidanzamento e gli usi nuziali vi erano norme particolari nella scelta della sposa , la richiesta ai genitori, il trasporto della dote, il canto della partenza, il pianto rituale della madre per il distacco dalla figlia. Ma un momento importante era rappresentato dal trasporto della dote nuziale: venivano scritti veri e propri contratti tra i genitori degli sposi nel corso di lunghe riunioni alla presenza di testimoni. Il trasporto avveniva il un lungo corteo di carri addobbati in cui la biancheria veniva esposta in modo che tutti ne potessero ammirare merletti e ricami. In alcuni paesi vi era l’usanza di seguire gli sposi in corteo dopo il rito religioso e creare barriere di nastri colorati con cui i partecipanti sbarravano il cammino al seguito nuziale che potevano venire tagliati dallo sposo solo dopo il pagamento di un metaforico pedaggio in dolci, confetti e denaro.

La festa comportava la partecipazione di tutto il paese e le più antiche costumanze vogliono che il banchetto nuziale considerato un vero e proprio rito di aggregazione, si tenesse a casa della sposa e durasse molte ore. Esso era rallegrato da canti e brindisi che inneggiavano alla bellezze della sposa, auguravano ricchezza e abbondanza soprattutto di figli e tessevano complimenti per il cibo e il vino. Le usanze legate alla morte secondo arcaiche tradizioni comportavano tutta una serie di rituali dopo la constatazione del decesso. I familiari del defunto interrompevano il lavoro, non dovevano pulire la casa e stare in silenzio. Al trapassato venivano fatti indossare gli abiti migliori, le mani gli venivano giunte sul petto e gli si metteva una moneta in bocca o in tasca che gli doveva servire perché si potesse pagare il tragitto verso l’aldilà. La bara veniva corredata di tutti quegli oggetti che furono in vita cari all’estinto, cappello, pipa, bastone, attrezzi per la barba. Largamente in uso era il pranzo funebre, chiamato “consolo” preparato da parenti ed amici della famiglia dell’estinto a scopo consolatorio.

Terapie naturali dei nostri nonni

Gli abruzzesi per secoli per curarsi hanno ricorso alla cosiddetta “farmacia del buon Dio” cioè alle erbe e ad altri prodotti naturali. Si trattava di ricette molto diffuse tra il popolo e alla portata di tutti a base di sambuco, rosmarino, salvia, menta, camomilla, vino che venivano usati come veri e propri medicamenti. Per ogni malattia c’erano almeno cinque erbe a curarla. L’acqua del fiore di sambuco era considerata un rinfrescante, l’infuso di rosmarino misto a vino fermentato era usato per purificare le gengive e profumare l’alito, il succo delle rose veniva ritenuto un ottimo aperitivo, mentre quello delle viole un efficace purgativo.

I distillati di fiori di sambuco, di finocchi e di salvia servivano per lenire il male agli occhi, mentre il mal d’orecchi si curava con succo di zucca unito ad olio. Per far maturare i foruncoli si usava un miscuglio di farina di miglio, mentre l’impasto di farina di fave serviva a curare le piaghe. Per lenire gli arrossamenti dei lattanti si spalmava olio d’oliva talvolta mescolato con cipria. Il male alle ginocchia si curava applicando stoppa imbevuta di vino nero.

Il singhiozzo si debellava sorseggiando lentamente uno sciroppo di papaveri misto ad orzo, il succo di ciclamino serviva invece ad arrestare un’emorragia nasale, infine le piume di pioppo, raccolte a suo tempo, sostituivano il cotone idrofilo.



Saponi e detersivi di un tempo.

Le casalinghe di un tempo portavano a lavare lenzuola, federe e tovaglie al fiume le sbattevano contro i sassi e poi le stendevano al sole sui prati finchè non acquistavano il candore ed il profumo caratteristico del bucato di un tempo.

Il sapone per lavare la biancheria si ricavava da lunghi e pazienti procedimenti. Si mettevano, in un sacco appeso ad un chiodo della cucina o del fondaco, cenere, legna e calce miste ad acqua che si aggiungeva di tanto in tanto. Il liquido che da esso gocciolava, che aveva forti proprietà detergenti, veniva raccolto in un recipiente e poi, mescolato ad olio d’oliva di scarto ed a grassi di maiale, veniva fatto bollire fino ad ottenerne un miscuglio pastoso e sodo. Una volta raffreddato veniva tagliato in pezzi di sapone. La liscivia veniva ricavata dalla decantazione della cenere di legna nell’acqua bollente e poi usata in dosi misurate per mettere in ammollo la biancheria sporca. Un altro lavoro che richiedeva fatica e pazienza alle massaie di un tempo era la lucidatura dei recipienti di rame: conche, pentole, tegami, bracieri e scaldini. Specialmente in prossimità delle feste le donne di casa toglievano a questi recipienti la patina scura strofinandoli con sabbia bagnata e poi con aceto e sale risciacquando alla fine con acqua e sapone. La sabbia, il sale e l’aceto erano usati quotidianamente dopo ogni pasto nel lavaggio di pentole e posate per farle tornare nitide e terse.


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli.

e.mail: mancinellielisabetta@gmail.com

I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato, da “Il carnevale tradizionale abruzzese” di Francesco Stoppa; da “Folklore abruzzese” Lia Giancristofaro e da “Abruzzo” di Luciano Verdone.

Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci

giovedì 13 marzo 2025

Gabriele D'Annunzio, la produzione dannunziana. SECONDA PARTE


Gabriele D’Annunzio nella sua vasta produzione si è dedicato a molteplici generi: poesia lirica, poesia epica, romanzo, novelle, teatro, scritti di critica, cronaca giornalistica, prosa d'arte e questa variegata prolificità mostra la sua grande apertura mentale, verso i più svariati campi. Egli sa, infatti, combinare modelli antichi e moderni contraffacendoli secondo le proprie strategie. Molta parte della critica è d’accordo nel ritenere che la grande poesia dell’ultimo Ottocento e inizi del Novecento si possa riassumere in tre opere: Odi Barbare, Poemi conviviali e il libro di Alcyone: Carducci, Pascoli e D’Annunzio. D’Annunzio produsse una sterminata opera di prosa e poesia senza riposo e con inesausta fatica e , piaccia o non piaccia, è stato comunque uno dei più grandi poeti italiani. Elemento essenziale dell’opera dannunziana è la parola. Ogni parola era per lui, come per istinto una cosa nuova, una creatura viva; fin dai suoi primi scritti fu collezionista appassionato di termini disusati che rimetteva in uso per ridare luce a parole dimenticate e incastonarle nelle sue opere. In questo riconobbe sempre come maestro il Carducci raccolse il suo insegnamento e lo ampliò. La sua ricerca fu intensa e si valse di un senso della lingua non più profondo ma certamente più esteso. Risalì fino ai trecentisti, non aveva paura dell’arcaismo che, per la sapienza della collocazione, serviva a dare a un verso o ad un periodo una colorazione singolare. Questo studio accurato della parola non è tutto lo stile ma è un elemento costitutivo di esso. La ricchezza della parola era un mezzo non un fine, anche se nel tardo D’Annunzio sopraggiungerà l’abuso, proprio nelle opere che più contano che caratterizzeranno il fenomeno letterario e non solo, definito dannunzianesimo.

LA POETICA

La poetica e la poesia del D’Annunzio sono l’espressione più appariscente del Decadentismo italiano. Dei poeti decadenti europei egli accoglie modi e forme, senza però approfondirne l’intima problematica, ma usandoli come elementi decorativi della sua arte fastosa e composita. Aderisce soprattutto alla tendenza irrazionalistica e al misticismo estetico del Decadentismo, collegandoli alla propria ispirazione narrativa, naturalistica e sensuale. Egli rigetta la ragione come strumento di conoscenza, per abbandonarsi alle suggestioni del senso e dell’istinto; spesso vede nell’erotismo e nella sensualità il mezzo per attingere la vita profonda e segreta dell’io. Cerca una fusione dei sensi e dell’animo con le forze della vita, accogliendo in sé e rivivendo l’esistenza molteplice della natura, con piena adesione fisica, prima ancora che spirituale. E’ questo il “panismo dannunziano”, quel sentimento di unione con il tutto, che ritroviamo nelle poesie più belle di D’Annunzio, in cui riesce ad aderire con tutti i sensi e con tutta la sua vitalità alla natura, vi si immerge e vi si confonde. La poesia diviene quindi scoperta intuitiva; la parola del poeta, modulata in un verso privo di ogni significato logico, ridotta a pura musica evocativa, coglie quest’armonia e la esprime continuando e completando l’opera della natura. La sua vocazione poetica si muta poi in esibizionismo e la poesia vuol diventare atto vitale supremo, estremamente individualistica e irrazionale. Alla base del pensiero dannunziano è possibile riscontrare, oltre al citato Panismo due componenti : Estetismo e Superomismo che si manifestano con l’esaltazione del primitivo, dell’erotismo o quella sfrenata del proprio io.

L’ESTETISMO

L’estetismo in lui è il culto del bello: vivere la propria vita come se fosse un’opera d’arte, o al contrario vivere l’arte come fosse vita. Quest’atteggiamento, preso dal Decadentismo francese, corrisponde alla personalità del poeta: l’esteta che si limita a realizzare l’arte, ricercando sempre la bellezza; ogni suo gesto deve distinguersi dalla normalità, dalle masse. Di conseguenza vengono meno i principi sociali e morali che legano al contrario gli altri uomini. Il superuomo assomiglia all’esteta, ma si distingue per il suo desiderio di agire, considera la civiltà un dono dei pochi ai tanti e per questo motivo si vuole elevare al di sopra della massa.

Definito da B. Croce "dilettante di sensazioni", D'Annunzio interpreta da un punto di vista superomista il gusto decadente e intende il poeta come soggetto inimitabile. L'arte è attività suprema, fortemente soggettiva ed esaltante. "Il Piacere" è considerato dalla critica la vera e propria "bibbia" del decadentismo estetico italiano. Tuttavia, considerando la dimensione che assunse il simbolismo-decadentismo in Europa, dobbiamo considerare l'originalità, se non l'eccezionalità, di un tale autore. Andrea Sperelli, il protagonista, è un personaggio autobiografico, poiché è l'incarnazione di quello che l'autore avrebbe voluto essere. Esteta fino all'eccesso, Andrea Sperelli (alias di D'Annunzio) vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta ricerca la bellezza in una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta.

IL SUPEROMISMO

Il mito del superuomo costituisce l’impronta dominante dell’opera, della vita stessa di D’Annunzio. Concezione che riprende dal filosofo tedesco Nietzsche, di cui però trascura la profondità filosofica che mira a proporre una dimensione umana che vada oltre l’immiserimento storico dell’uomo. Per D’annunzio infatti il superomismo si traduce soprattutto in eccentricità ed affermazione dell’individuo sulla massa. C’è nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò spesso sconfina in megalomania riscontrabile già nel poeta adolescente. D’Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del vivere, si proietta in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivela in due sensi: come insofferenza di una vita comune e normale e come vagheggiamento della "bella morte eroica". In lui il superuomo trova la sua perfetta identificazione con l'artista : non è tanto la vita a tenere dietro l'arte, ma l'arte a seguire le eccentricità della vita e questo costò al poeta un'accusa di superficialità.

LE OPERE

D’Annunzio esordì nella società con opere in prosa poesia e sceneggiature teatrali, esordì nella sua carriera di scrittore proprio come poeta, pubblicando il "Primo vere", raccolta di ispirazione carducciana, che nasce nel dicembre dell'anno 1897, durante la frequentazione, da parte del giovane Gabriele del Reale Collegio Cicognini. e rappresenta la prima esperienza per il D'Annunzio nel campo della poesia. Si compone di 26 poesie, ciascuna dedicata ad un rappresentante della famiglia, ad un amico oppure alla musa ispiratrice, di nome Lilia; è poi presente un'appendice che contiene quattro traduzioni di Orazio. Nel 1898 uscì il Canto Novo raccolta sempre secondo lo stile carducciano nelle forme poetiche, ma la tematica e i toni sono nuovi e il vitalismo dannunziano si manifesta con particolare vigore. La natura é rappresentata nel suo tripudio di luci, colori, odori e con essa il giovane poeta stabilisce un «rapporto di tipo solare, panico» (Zaccaria), proteso alla più piena fruizione, al godimento, a una sorta di mitica fusione. L'edizione definitiva è divisa in due parti, scandite a tre "Offerte votive": all'inizio, a Venere; nel mezzo a Pan; nella conclusione ad Apollo. Una terza e importante raccolta dell'esordio fu "Intermezzo di rime", dove il tema erotico viene invece sviluppato appieno. Per quel che riguarda la prosa, D'Annunzio dapprima sviluppa il filone verista, partendo da Verga e cercando di imitarne il realismo pubblica (1902) le "Novelle della Pescara", ambientato in quello che allora era il villaggio di Pescara e nella campagna circostante, utilizzando anche alcuni testi già apparsi nelle raccolte Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886).

L'opera nasce come raccolta di canti, con temi diversi, che acquisiscono unitarietà proprio in relazione all'elemento caratterizzante che è il territorio. D'Annunzio, inserendo con violenza se stesso e i suoi sentimenti ,descrive una terra abitata da persone impulsive, irruente ed a volte, anche brutali: emozioni ed impulsi che trovano nel territorio la loro radice poiché D'Annunzio le riconduce ad un sentimento collettivo, in quanto condiviso da tutti gli abitanti dell'area. Si dedica quindi al romanzo e pubblica il suo primo grande capolavoro, "Il piacere" (1889), considerato a ragione il manifesto dell'estetismo italiano, in cui la forma e l'apparenza dominano su tutti gli altri valori. Protagonista è Andrea Sperelli D'Ugenta, educato dal padre al piacere e all'estetica, che si configura come il primo eroe dannunziano e che preannuncia le caratteristiche di quelli che saranno i superuomini nei romanzi successivi. Nella Roma di fine secolo, dove si ambienta il romanzo, D'Annunzio propone gli ambienti mondani e nobili della città; il romanzo è ricco di amori estetizzati e in linea con il piacere dannunziano. Nel 1893 compone il "Poema paradisiaco": il titolo, dal latino Paradisius = giardino, letteralmente equivale a "poema dei giardini". In esso il poeta, stanco di mentire e di vivere la società esteta, medita sui luoghi natii e sulla loro la purezza e li fa sentire "più veri". Vi raccoglie liriche composte a partire dal 1891. Si puo' dire che l’opera, nella maggioranza dei suoi versi, esprime un momento psicologico, una disposizione umana, una tematica che sono alternativi a quegli atteggiamenti e a quei temi (il piacere, il pagano godimento) che fino ad allora il poeta aveva espressi. Il poema diventa per D'Annunzio come un lavacro di innocenza dopo l'esaltazione dei miti di barbarie e di lussurie. Per i crepuscolari il Poema paradisiaco sara' un fondamentale punto di riferimento. Subito dopo cerca temi nuovi e si dedica alla lettura di alcuni autori russi come Tolstoj o Dostoevskij; tenta quindi l'approccio ai drammi morali: in questa ottica pubblica due romanzi, "Giovanni Episcopo" (1891) e "L'innocente"(1892). Da quest'ultimo il regista Luchino Visconti trasse un film nel 1976. In queste opere D'Annunzio diede di nuovo prova di saper assorbire e rielaborare con straordinaria rapidità i più vari modelli espressivi: è evidente tra gli altri l'influenza di Tolstoj e di Dostoevskij, mentre nelle Vergini delle rocce (1895) il riferimento ideologico è al filosofo Friedrich Nietzsche, anche se in D'Annunzio la figura del superuomo mantenne una forte componente estetizzante. In seguito a questa esperienza e alla lettura di Nietzsche inizia un ciclo di romanzi detti" del superuomo".

Il ciclo si compone di tre opere. La prima: "Le vergini delle rocce" è un romanzo ritenuto il manifesto politico del superuomo, che ha per protagonista Claudio Cantelmo; egli è il superuomo e pensa che non gli basti una vita per poter realizzare questo suo desiderio di potenza e azione, decide quindi di avere un erede. Frequenta così una famiglia di grande nobiltà borbonica e dovrebbe scegliere tra le tre fanciulle di questa famiglia la donna con la quale avere l’erede. Di queste tre ragazze una è caratterizzata da grande sensualità e bellezza fisica, un’altra da grande bellezza spirituale e la terza da grande erudizione. Il romanzo si conclude con la sconfitta del superuomo, perché Cantelmo non può avere una fanciulla che possegga tutte e tre le caratteristiche. La seconda opera: "Il trionfo della morte" (1894), ritenuto il manifesto sensuale, è narrato in terza persona con il solito stile fastoso e musicale. Dominano i toni cupi e tutto è pervaso da un senso funereo di orrore. Con questa opera D'Annunzio vuol creare la prosa moderna in cui si fondono scrittura d'arte e lirica, e in cui siano prevalenti i valori formali ed autobiografici. La terza "Il fuoco" (1900) è considerato invece il manifesto letterario: il personaggio è Stelio Effrena, procacciatore di emozioni in una Venezia sfacciatamente romantica e "… magnifica e tentatrice ne cui canali, come nelle vene di una donna voluttuosa, incominciava ad accendersi la febbre notturna". In esso c’è piuttosto palese il parallelismo tra Stelio e D'Annunzio stesso, tra la "Foscarina", l'amante del protagonista nel romanzo, ed Eleonora Duse. Momenti di altissima poesia, e di suggestioni squisitamente inebrianti, giochi verbali degni di suggestioni, soprattutto nelle descrizioni dei giochi d'amore tra i protagonisti. Il romanzo in definitiva è avvolgente, un tipico manifesto dannunziano, con tutti gli eccessi: il messaggio superomistico, l'autocompiacimento esasperato della penna narrante, oltre al carattere vincente mai smorzato da debolezze "verosimili", veramente umane. Un romanzo con una coppia al centro, all'apparenza, anche se il complesso comunica una fine costruzione di un piedistallo, sul quale D'Annunzio pone i suoi dei interiori. Nel 1903 dopo "Le faville del maglio", un'opera in cui il poeta proietta tutti i suoi ricordi, compone "Il libro delle laudi" o, semplicemente, "Le laudi". In questa raccolta, ed in particolare nel terzo libro, "Alcyone", ci troviamo di fronte alla summa poetica del D'Annunzio, in cui la parola diventa musica e il suono viene a dominare sul significato. È da quasi tutta la critica considerata l’opera massima, poesia pura melodia e colore, potenza verbale e ritmo musicale ma soprattutto per la parte che ha in essa il mito. Ricorre alle immagini e figure mitologiche e le trasforma in materia con un’interpretazione nuova e geniale, come nel ditirambo di Icaro, e la sua fantasia ricca gli consente di creare favole nuove. Abbandona sia le pretese superomistiche che quelle tribunizie di poeta-vate e celebra la natura, ma senza la carica di sensualismo vitalistico del Canto novo, nè il manierato e languido abbandono del Poema paradisiaco; il paesaggio diventa stato d'animo, lo spettacolo della sera si fa suggestivo volto femminile. Non a caso fanno parte della raccolta due delle liriche più belle del poeta: La pioggia nel pineto e La sera fiesolana. Per quel che riguarda la dimensione teatrale compose diverse opere tra le quali: La fiaccola sotto il moggio, La città morta e Cabiria, che fu un soggetto cinematografico e testimonia la poliedricità e il tentativo di incursione del poeta in tutti i campi della produzione artistica. Merita una particolare menzione "La figlia di Iorio" che è l’ultimo frutto di questa tradizione secolare che rifacendosi a Virgilio rinasce gloriosa con la tragedia pastorale. Un presagio era già nelle "Novelle della Pescara" e in certi capitoli del "Trionfo della morte" ma, da quella vita remota e primitiva lirica e pittoresca della gente d’Abruzzo, il poeta sa creare un ambiente mitico ricco di fantasia in cui si colloca come in un presepe, la propria figura. L'ultimo romanzo di un certo valore D’Annunzio lo compose nel 1910: “Forse che sì forse che no”. In esso i simboli della modernità (automobile ed aeroplano) diventano i mezzi per l’espansione dell’ego del nuovo superuomo, il coraggioso pioniere della velocità, automobilista ed aviatore. L’ultima produzione, definita "prosa notturna", raffigura un ridimensionato eroe, un uomo anche assalito da paura, malinconia, dolore, angoscia. La poesia lascia il posto a una prosa musicale sincera e a una voglia di confessare le proprie emozioni. "Ricercando me stesso, dice nel Notturno, non ritrovavo se non la mia malinconia. Ricercando il mio silenzio, non ritrovavo se non la mia musica". E appunto nel racconto dei suoi mesi di "clausura" e privazione della luce, nel suo diario "notturno" scritto in un periodo di cecità dovuto ad un incidente aviatorio in cui perse un occhio, s'intravede un D'Annunzio poeticamente musicista, con forme liricamente sciolte e "moderne", più vicine al nostro sentire. Scriveva Alfredo Gargiulo nel suo saggio uscito sulla "Ronda" nel 1922: "Così, assai probabilmente, nella sua intenzione il "Notturno" dovette svolgersi, sì, come racconto più o meno realistico di quelle vicende, ma anche come una specie di composizione musicale, un seguito tutto legato di motivi".

L'ultima opera, a cui il Poeta si dedica nel ritiro del Vittoriale, porta il titolo: “Cento e cento pagine del Libro Segreto” e venne pubblicata nel 1935. Contiene considerazioni sul presente e ricordi affioranti dalle zone più diverse del passato che evidenziano il forte sentimento di legame con la sua terra, con la sua gente e con i suoi familiari e con la sua casa, luogo di imprese memorabili infantili: Via crucis, Via necis Via nubis ecc. A quest’opera, giudicata dalla moderna critica la più autentica dell'ultimo D'Annunzio egli affida le ultime riflessioni nate da un ripiegamento interiore ed espressi in una prosa frammentaria e sono la testimonianza della capacità del poeta di rinnovarsi artisticamente anche alle soglie della morte, giunta l'1 marzo 1938. Su D'Annunzio e sul valore complessivo dell'opera dannunziana, la critica non è sempre concorde. C'è chi come Croce e gli idealisti in generale lo definiscono "dilettante" di sensazioni, ai livelli più superficiali legati al senso più che al sentimento. Le analisi più profonde del suo fare poetico sono invece venute da Gargiulo, Serra e De Robertis che hanno scandagliato più la sua arte che l'uomo e dalle quali emergono opere che influenzeranno anche parte della letteratura del ‘900. Quelle ricorrenti nella "critica positiva" sono: Canto Novo, Alcyone e il Notturno dall’impressionismo abbastanza vicino alla letteratura dei vociani. In sostanza la critica condanna le opere in cui vi è commistione di superuomo e follia ed esalta l'opera poetica, la lirica che tocca con l'Alcyone il punto più alto. I documenti sono tratti da: “Gabriele D’Annunzio” a cura dell’istituto di divulgazione dannunziana Roma MCMLII, dall’Archivio della Sovrintendenza per i beni culturali per l’Abruzzo e da: “D’Annunzio documenti e testimonianze” di M. Vecchioni.

Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci

Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli.

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

lunedì 10 febbraio 2025

Pescara, l'antica Filanda Giammaria diventa La "Casa Delle Donne" Abruzzesi. Nobile progetto come Trait D'Union tra passato, presente e futuro.


La struttura inaugurata nel 1900 testimone dell’emancipazione femminile attraverso il lavoro, che seppure in condizioni di salari bassi, e totale assenza di norme igienico-sanitarie, rappresentò un importante traguardo per molte donne pescaresi e non solo, ai fini del riscatto sociale ed economico, che operando nella Filanda potevano garantire ai propri figli una vita dignitosa e contribuì al tempo stesso alla crescita sociale ed economica della intera nostra città. La Filanda Giammaria rappresenta il luogo identitario in città della forza e delle energie delle donne delle passate generazioni, ricostruirla per farne una Casa delle Donne, ed un museo del lavoro femminile, significa trasmettere, tramandare alle generazioni future, la dignità ed il coraggio di queste donne.

LA FILANDA GIAMMARIA

La storia

Ciò che oggi rimane del complesso Giammaria costituisce una testimonianza particolarmente significativa dell’evoluzione della società pescarese, che nei primi anni del Novecento passò da un’economia locale legata alle attività rurali, alla produzione a carattere industriale. La proprietà, posta agli inizi della zona pedemontana dell’originaria Castellamare, faceva parte di quella fascia di residenze signorili di cui sono ancora testimonianza le ville che costeggiano i colli. Essa comprendeva vari edifici, dei quali solo tre sono oggi esistenti: la residenza padronale, di forme neo-medievali; l’edificio in mattoni che ha ospitato la filanda; il casino. Quest’ultimo compare già nel Piano direttore della Piazza di Pescara e del terreno che la circonda redatto dagli austriaci nel 1821 e attualmente conservato al Kriegsarchiv di Vienna, dove emerge un assetto ancora agricolo dell’area, con poche case e ville sparse, molte delle quali ancora esistenti e fondamentali per ricostruire l’identità e lo sviluppo storico dell’odierna Pescara.


Il casino

E’ l’edificio più antico del complesso, oggi in un pessimo stato di conservazione, ma ancora in grado di rivelare la storia delle sue trasformazioni e dell’intero complesso. Nell’attuale configurazione, il casino risulta privo dell’avancorpo coperto a terrazzo e della torretta-piccionaia che costituivano in passato rispettivamente l’ingresso principale e l’accesso posteriore dell’edificio. Il restante volume compatto, articolato in due livelli, è probabilmente l’esito di alcuni interventi di trasformazione e ampliamento di un impianto originario dalle vicende costruttive difficilmente inquadrabili, data l’assenza di fonti documentarie certe. La struttura, interamente realizzata in mattoni, è riconducibile alla casa rurale abruzzese articolata in abitazione, accessibile tramite una scala esterna, sovrapposta al rustico, funzionale all’attività agricola. Legando l’edificio all’evoluzione del contesto, è ipotizzabile che la comparsa di un primo nucleo abitativo e le successive stratificazioni siano ascrivibili ad un arco temporale successivo alla fondazione del vicino convento dei Cappuccini (1631). Lo sviluppo di attività produttive lungo l’asse di collegamento tra la sede dell’ordine religioso e il santuario della Madonna dei Sette Dolori, definisce infatti, tra XVIII e XIX secolo, un panorama di case sparse su fondo agricolo in cui compaiono “casini di buona struttura” spesso belli oggi fagocitati dall’edilizia intensiva di scarsa qualità architettonica che si è sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso.
Il casino Giammaria ricalca nell’impostazione planimetrica e nella distribuzione interna gli schemi insediativi abbastanza comuni nel subappenino abruzzese e nella valle del Pescara: pianta quadrangolare sviluppata in due livelli, produttivo e residenziale, copertura a padiglione, scala esterna, configurata nella variante a rampe a gomito simmetriche e convergenti, sotto le quali si apre l’accesso principale ai locali di servizio del pian terreno. Un’immagine databile ai primi anni del ’900, nella quale compare anche la filanda, ritrae il fronte principale ancora oggi chiaramente leggibile.

Il palazzetto Giammaria

L’edificio in mattoni con torre e merlatura che rappresenta l’elemento più noto del complesso Giammaria, è in realtà la residenza padronale della famiglia, costruita a partire dal 1927. Il progettista, Attilio Giammaria, compie gli studi universitari a Milano, dove si laurea nel 1924 in Ingegneria Civile. Dal 1928, oltre a portare avanti un’intensa attività professionale, partecipa anche alla Commissione straordinaria per l'Amministrazione della neo costituita Provincia di Pescara. Numerosissimi i suoi progetti, spesso firmati insieme con Vincenzo Pilotti, altro protagonista della vicenda pescarese della prima metà del Novecento. Tra le sue opere più importanti, oltre a palazzo Muzi e al teatro Massimo, si ricordano, la Casa del Mutilato, il campanile della chiesa del Sacro Cuore, il progetto di ospedale per malattie infettive. Nel dopoguerra ha diretto i lavori di restauro di villa De Landerset, ed è stato presidente del Consorzio di costruzione del comparto edilizio del settore sud di Piazza della Rinascita.

Da quanto è possibile ricostruire sulla base della documentazione cartografica, il palazzetto non riutilizza costruzioni precedenti, ma fu realizzato al posto delle antiche scuderie del complesso, a quanto risulta completamente demolite per far posto all’attuale costruzione. Per la sua realizzazione, originariamente diviso in due appartamenti, i proprietari scelsero un progetto di gusto neomedievale, del tutto vitale nell’Italia dell’epoca, non ancora orientata sulle “mode” di stampo razionalista che si diffonderanno a partire dagli anni Trenta. La residenza dei Giammaria assume un aspetto di piccolo castello con due ali laterali merlate, un corpo centrale e una torretta, anch’essa con merli su beccatelli, aperta in alto da una trifora impostata su modelli già rinascimentali. L’edificio ha subito poche modifiche e soprattutto interne, con la suddivisione in quattro degli originari due appartamenti. Resta anche con gli inevitabili segni del degrado dovuti alla scarsa manutenzione, una viva testimonianza che illumina sulle tendenze culturali della Pescara del 1927 ormai capoluogo , in cui i ricordi dell’eclettismo ottocentesco si mescolano alle esigenze di rinnovamento portate in città dalla nuova classe dirigente.

La filanda
Costruita in prossimità del casino, la filanda risulta inaugurata, secondo alcune fonti nel 1900. L’abbandono parziale della fabbrica sembra legato alle distruzioni portate dalla seconda guerra mondiale, a Pescara particolarmente violente. Le tracce ancora presenti sul sito all’epoca del rilievo nel 2005, consentono di fare riferimento ad un complesso originariamente costituito da 3 corpi affiancati, a sviluppo rettangolare e presumibilmente coperti da tetto a capanna. Dei tre corpi solo quello centrale, mantiene l’impianto originario. Il padiglione nord, oggi totalmente scomparso, portava i segni di una trasformazione in officina probabilmente risalente agli anni Cinquanta, e quello a sud era ridotto a pochi brani. In pessimo stato risultava anche la piccola casa che si addossava al complesso sul lato sud.
Il padiglione centrale si presenta come un corpo unico in mattoni faccia vista diviso all’interno in due livelli; il piano superiore, sostenuto da un tavolato ligneo ancora visibile, fungeva da magazzino. La fabbrica era dotata di ampie vasche per il trattamento delle fibre vegetali andate distrutte a seguito della costruzione del parcheggio dell’Ospedale Civile. L’edificio ricalca la conformazione tipica di molti complessi industriali della seconda metà dell’Ottocento: struttura portante in mattoni, solai in orditura lignea sorretti da sottili pali di legno e copertura a capriate. Uno dei lati maggiori è irrobustito da pilastri sporgenti, pensati per alloggiare le capriate lignee della copertura. All’esterno, il semplice volume si presenta con la scabra superficie del mattone e con una successione di semplici finestre: unico elemento decorativo è la cornice in laterizi di taglio, molto frequente nelle simili costruzioni coeve. Nel complesso, un edificio funzionale e sobrio, con una chiara destinazione produttiva, che rappresenta un buon esempio di archeologia industriale a Pescara, interessante soprattutto perché la combinazione villa-residenza-produzione industriale si ripete lungo tutta la costa e trova nella stessa Pescara, come villa Forlani con annessa fornace, esempi analoghi.

Tutta da scrivere la storia delle lavoratrici e dei lavoratori che operarono nella Filanda: tuttavia, la semplicità del fabbricato e le foto superstiti parlano di un impianto relativamente contenuto, ma con macchinari aggiornati, per una produzione che dovette già essere orientata in senso industriale.




PERCHÉ CONSERVARE LA FILANDA? 

L’edificio della Filanda Giammaria è una testimonianza storica rilevante, anche perché inserito in un complesso abbastanza ben conservato e circondato dal verde. A seguito di un eccessivo allarme sulla stabilità dell’edificio, lo scorso ottobre il Comune ne autorizzava la messa in sicurezza, purtroppo estesa, con la demolizione di circa metà dello stabile. Non si tratta di un intervento necessario a causa della vetustà dell’edificio e del pericolo per gli abitanti e, anche se dato l’abbandono in cui versava l’edificio, si erano verificate limitate cadute di calcinacci e tegole, sul lato opposto rispetto a quello demolito, nessuna lesione grave si era manifestata agli abitanti delle case circostanti. L’intervento è stato condotto dagli attuali proprietari dell’immobile, che avevano stipulato con la stessa Amministrazione un accordo finalizzato alla costruzione nella stessa area di nuove abitazioni. Sembra di assistere alla ripetizione di un copione già noto, andato in scena varie volte nella vita recente e passata della città. La ex Centrale del Latte demolita nel 2010 era sfuggita alla memoria storica collettiva e non erano state prese adeguate misure per la sua salvaguardia, malgrado si sapesse dell’importanza storica e del valore estetico dell’edificio. E il caso ancora più eclatante dell’ex Teatro Pomponi, anch’esso dichiarato pericolante perchè gli emergenti costruttori avevano programmato per quell’area degli edifici. Nel caso della Filanda, invece, prima della demolizione era da mesi in discussione e poi in adozione presso la stessa Amministrazione Comunale la “Variante di salvaguardia del patrimonio storico-architettonico al PRG”, che aveva posto nella dovuta attenzione la conservazione dell’edificio. Questa volta, quindi, si era in possesso degli strumenti necessari per salvare l’immobile. I legittimi interessi acquisiti sono fuori discussione. E chi oggi chiede il salvataggio della Filanda si pone l’obiettivo di un rispetto pieno della legge e delle procedure. Ma ci si chiede anche se sia possibile pensare ad un’altra forma di gestione della città: in cui non si pensi solo ad aumentare le cubature , ma anche a luoghi di interesse culturale, economico, sociale, sostenuti dagli edifici portatori della memoria comune, come è accaduto al Matta pescarese. E’ quanto fanno le città di tutto il mondo, dai mattatoi alle centrali elettriche, agli edifici ex industriali di tutti i continenti. Perché i giovani pescaresi in visita a Barcellona, a Nantes o ad Atene, pronti a stupirsi davanti all’edificio del primo Novecento che oggi ospita attività culturali, ricreative o economiche non possono vedere la propria città proiettata nello stesso orizzonte culturale? Solo un “vincolo”, quello della competente Soprintendenza, la poteva salvare ed è stato affermato. La Filanda non vale solo come testimonianza in sé, ma anche e soprattutto come parte di un’antica proprietà incentrata su altri due edifici: il casino, di origine forse settecentesca e la residenza principale, costruita in forme neomedievali nel 1927. Salvare la Filanda significa quindi salvare una possibilità di pensare alla città in modo diverso, più in sintonia con i modelli occidentali e con il ruolo che Pescara deve giocare in ambito anche internazionale. Il salvataggio della Filanda non è quindi un capriccio di nostalgici irriducibili, ma il segno tangibile e forte di un nuovo sviluppo della città.


Articolo a cura di Elisabetta Mancinelli

email mancinellielisabetta@gmail.com