venerdì 4 settembre 2020

INCONTRO DI ETTORE E ANDROMACA NEL VI CANTO DELL’ILIADE


Commovente e tenero passo in cui viene descritto da Omero il momento dell’incontro tra Ettore e Andromaca e il figlioletto Astianatte in cui emerge la contrapposizione tra l’etica femminile e quella maschile. Ettore crede sia meglio anteporre alla famiglia l’onore della guerra e l’amor patrio, mentre Andromaca, dall'animo sensibile, ritiene che sarebbe meglio porre in secondo piano l’onore e la gloria e al primo posto la famiglia.

Ci troviamo dinanzi una delle pagine più soffuse di trasparente umanissima poesia: il saluto dell’eroe troiano alla sposa e al figlio, saluto che si identifica con l’estremo commiato di chi, pur consapevole che era ingiusta, quasi assurda la causa per cui si batteva, spinge l’amore per la patria e per il dovere fino al completo olocausto di sé.



ETTORE E ANDROMACA ALLE PORTE SCEE


“Finito non avea queste parole

la guardïana, che veloce Ettorre

dalle soglie si spicca, e ripetendo        

il già corso sentier, fende diritto

del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee,

onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro

Andromaca venirgli, illustre germe

d’Eezïone, abitator dell’alta            

Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci

dominator nell’ipoplacia Tebe.

Ei ricca di gran dote al grande Ettorre

diede a sposa costei ch’ivi allor corse

ad incontrarlo; e seco iva l’ancella  

tra le braccia portando il pargoletto

unico figlio dell’eroe troiano,

bambin leggiadro come stella. Il padre

Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto

Astïanatte, perchè il padre ei solo     


era dell’alta Troia il difensore.

Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.

Ma di gran pianto Andromaca bagnata

Accostossi al marito, e per la mano

strignendolo, e per nome in dolce suono 

chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!

il tuo valor ti perderà: nessuna

pietà del figlio nè di me tu senti,

crudel, di me che vedova infelice

rimarrommi tra poco, perché tutti        

di concerto gli Achei contro te solo

si scaglieranno a trucidarti intesi;

e a me fia meglio allor, se mi sei tolto,

l’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!

Ch’altro mi resta che perpetuo pianto? 

Orba del padre io sono e della madre.

M’uccise il padre lo spietato Achille

Il dì che de’ Cilíci egli l’eccelsa

popolosa città Tebe distrusse:

m’uccise, io dico, Eezïon quel crudo;  

ma dispogliarlo non osò, compreso

da divino terror. Quindi con tutte

l’armi sul rogo il corpo ne compose,

e un tumulo gli alzò cui di frondosi

olmi le figlie dell’Egíoco Giove          

l’Oreadi pietose incoronaro.

Di ben sette fratelli iva superba

la mia casa. Di questi in un sol giorno

lo stesso figlio della Dea sospinse

l’anime a Pluto, e li trafisse in mezzo 

alle mugghianti mandre ed alle gregge.


Della boscosa Ipoplaco reina

mi rimanea la madre. Il vincitore

coll’altre prede qua l’addusse, e poscia

per largo prezzo in libertà la pose.      

Ma questa pure, ahimè! nelle paterne

stanze lo stral d’Artémide trafisse.

Or mi resti tu solo, Ettore caro,

tu padre mio, tu madre, tu fratello,

tu florido marito. Abbi deh! dunque  

di me pietade, e qui rimanti meco

a questa torre, né voler che sia

vedova la consorte, orfano il figlio.

Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,

ove il nemico alla città scoperse          

più agevole salita e più spedito

lo scalar delle mura. O che agli Achei

abbia mostro quel varco un indovino,

o che spinti ve gli abbia il proprio ardire,

questo ti basti che i più forti quivi      

già fêr tre volte di valor periglio,

ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro

Sire di Creta ed il fatal Tidíde.

  Dolce consorte, le rispose Ettorre,

ciò tutto che dicesti a me pur anco      

ange il pensier; ma de’ Troiani io temo

fortemente lo spregio, e dell’altere

Troiane donne, se guerrier codardo

mi tenessi in disparte, e della pugna

evitassi i cimenti. Ah nol consente,     

no, questo cor. Da lungo tempo appresi

ad esser forte, ed a volar tra’ primi


negli acerbi conflitti alla tutela

della paterna gloria e della mia.

Giorno verrà, presago il cor mel dice,  

verrà giorno che il sacro iliaco muro

e Priamo e tutta la sua gente cada.

Ma nè de’ Teucri il rio dolor, né quello

d’Ecuba stessa, né del padre antico,

né de’ fratei, che molti e valorosi        

sotto il ferro nemico nella polve

cadran distesi, non mi accora, o donna,

sì di questi il dolor, quanto il crudele

tuo destino, se fia che qualche Acheo,

del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo, 

lagrimosa ti tragga in servitude.

Misera! in Argo all’insolente cenno

d’una straniera tesserai le tele:

dal fonte di Messíde o d’Iperéa,

(Ben repugnante, ma dal fato astretta)        

Alla superba recherai le linfe;

e vedendo talun piovere il pianto

dal tuo ciglio, dirà: quella è d’Ettorre

l’alta consorte, di quel prode Ettorre

che fra’ troiani eroi di generosi            

cavalli agitatori era il primiero,

quando intorno a Ilïon si combattea.

Così dirassi da qualcuno; e allora

tu di nuovo dolor l’alma trafitta

più viva in petto sentirai la brama        

di tal marito a scior le tue catene.

Ma pria morto la terra mi ricopra,

ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.


Così detto, distese al caro figlio

l’aperte braccia. Acuto mise un grido 

il bambinello, e declinato il volto,

tutto il nascose alla nudrice in seno,

dalle fiere atterrito armi paterne,

e dal cimiero che di chiome equine

alto su l’elmo orribilmente ondeggia”.


Traduzione di Vincenzo Monti

Ricerca storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com

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