La sera di San Silvestro nella chiesa parrocchiale dalle Congreghe, saliva il canto del “Te Deum”. Nelle famiglie si preparava il cenone con carne di “porcu” perché, come si credeva da vivo, spingendo in avanti la terra che muove, porta fortuna, al contrario del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza”.
Un po’ dappertutto nella regione ma soprattutto nell’aquilano, la sera dell’ultimo giorno dell’anno festose brigate di ragazzi andavano a cantare gli auguri sotto le case chiedendo in cambio dei regali e, se essi venivano rifiutati, gli auguri si trasformavano in scherzose imprecazioni.
A Pescocostanzo, la mattina del primo giorno
dell’anno gli amici più mattinieri andavano
a svegliare i più pigri chiedendo loro
una mancia. Vigeva la credenza che ‘quel che se fa a
Capodanno se fa tuttu j’annu’ per dirla in dialetto aquilano; per cui in
tale giorno bisognava evitare ciò ch’è male: piangere, bisticciarsi, adirarsi e
fare il maggior numero di cose possibili.
L’ANTICO CENONE DI SAN SILVESTRO
Sempre in occasione del Capodanno le figlie
maritate o lontane tornavano alla casa materna perché “a
Capodanno ogni figlia revà alla
mamma”.
Le ragazze, scese con la conca ad attingere
acqua alle fontanelle, accettavano un po’ schizzinose i doni dei morosi , anellini, torrone, ricambiando con
sciarpe fatte a mano, canestrelle di amaretti per dire che l’amore è
“frizzicarello” dolce ma anche amaro.
Nelle famiglie si preparava il
cenone prevalentemente con carne di
“porcu” perché, come si credeva da vivo
, spingendo in avanti la terra che muove, porta fortuna al contrario
del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza. Sovente le scarse
disponibilità economiche non permettevano l’acquisto di carne pregiata sicchè si ripiegava su quella di coniglio, di agnello o di pecora considerate di scarso pregio.
Sotto la “ronza” del
camino e nei forni si cuocevano le “rape
rosce”. Si consumavano le ultime “appese di
strutto” per preparare” ji fritteji” ripieni di fichi secchi,
cotognata, marmellata. I
fritti venivano apparecchiati nelle zuppiere di coccio, ma prima erano
stesi nei “capisteri” per dolcificarli col miele e spolverati con lo zucchero.
Contorno prelibato erano “i cavoli strascinati” ripassati con l’uvetta
secca passita. La frutta era
costituita da spicchi di mela seccati al sole chiamati “spaccarelle di sorbe”,
spicchi di mela seccati al sole e qualche “portugallo” . Un’altra portata era
“la cicerchia” ma su
tutte le mense non mancavano mai “le
lenticchie colla salsiccia o ju zamponu”
poiché si diceva “Se te magni le lenticchie a Capodannu, conti ji sordi
tuttu jannu”. I fagioli “la carne dei
poveri “cucinati in bianco e insieme ai ceci
venivano serviti con il baccalà in umido o fritto.
Le antiche usanze e credenze popolari
Dopo il cenone si usciva fuori al
fresco a fumare il sigaro toscano o la sigaretta fatta con il trinciato”forte” che ammazzava sette spiriti e si usava orinare sull’anno vecchio, non si spazzava
la casa sino al 2 gennaio per non
scacciare le anime benedette tornate in spirito a festeggiare, ma soprattutto
per non scacciare “sgarrire” la fortuna. In cucina intanto si riattizzava il
fuoco con la legna stagionata di acero
dal cui scintillio si traevano auspici : se salivano dritte nel camino era
“bona ventura”, se scoppiettavano verso l’interno “difficoltà” se il legno
“soffiava” erano le malelingue che bruciavano. Alla mezzanotte le vecchiette
rigiravano il fuoco negli “scallini” per dire che avevano ancora calore e
tutti brindavano con bicchieri colmi di
vino e rosicchiavano ceci “abbruscati” e fichi secchi. Poi prima di coricarsi
si spazzava dalla neve la soglia
dell’uscio perché il nuovo anno entrasse benvenuto in casa. Gli auguri di
Capodanno erano dati da frotte di ragazzi vispi e saltellanti che la mattina
del primo dell’anno bussavano rumorosamente più volte agitando i battenti dei
portoni, chiedendo un omaggio di leccornie: la cosiddetta “sandalivecchia”: un
miscuglio fatto con grasso di ventresca
, lenticchie simboleggianti la prosperità, i ceci la laboriosità e le castagne
l’abbondanza. I ragazzi in cantilena così cantavano:
“Se me dà la la Sandalivecchia
Ddio te remerita e sé fa festa
Ma se nò la vvu ddà
Que te se pozza fracidà”
Il pomeriggio del giorno di Capodanno si organizzavano “ricreazioni” nelle
stallette dove si offriva una pizza nella cui
pasta era stata introdotta una monetina che avrebbe portato fortuna a chi
l’avrebbe trovata. Le ragazze su di un vassoio distribuivano insieme a pezzi di
torrone, ferratelle e amaretti consumati insieme al vinello. Poi la coppia più
anziana apriva il ballo e volteggiava nel cerchio dei presenti, nessuno, se
richiesto, poteva negare un giro di danza agli intervenuti. Tutti saltellavano
al suono della fisarmonica accompagnata dal tamburello. Le ragazze danzavano nelle lunghe gonne danzavano dritte
come fusi con i corpetti di raso tenuti
rigidi dalle stecche d’osso di balena. I visi erano chiusi nei fazzoletti
ricamati a fiorellini gialli e rossi che si annodavano dietro la nuca da cui
uscivano i “tuppi” dei capelli fermati
con le forcine e i pettinini luccicanti di brillantini di vetro colorato.
Ballavano a turno anche i
ragazzi in pantaloncini corti e
scarponcini lucidati con lo strutto. Per accomiatarsi dal vecchio anno, che se ne
andava al di là dei monti, si festeggiava con rumorosità e tutti
salutavano col bicchiere di vino in mano il neonato nuovo anno che, emanando i primi vagiti, suscitava anche apprensione per il futuro.
Ricostruzione storiografica di
Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
Nessun commento:
Posta un commento