lunedì 30 dicembre 2019

Il CAPODANNO DI UN TEMPO IN ABRUZZO

In Abruzzo  fino  a  qualche  ventennio  fa  un miscuglio  di tradizioni cristiane e pagane  pastorali, zampogne, cornamuse, dolci e pietanze varie,  erano la cornice che conferiva  suggestione  e mistero al periodo  tra  Natale e Capodanno. In questi  magici giorni  si respirava  aria di festa nei  paesini posti  sui  cocuzzoli  e tra i monti silenziosi  che  custodivano costumi e credenze  che purtroppo sono in gran parte scomparsi.  Un tempo nell’aquilano allo spegnersi del giorno gli animali percorrevano placidi le strade innevate. mentre  per i maiali  iniziava  spietato lo sterminio.  Erano gli ultimi  momenti dell’anno che moriva.     
La sera di San Silvestro nella chiesa parrocchiale  dalle Congreghe, saliva il canto del “Te Deum”. Nelle famiglie si preparava il cenone con carne di “porcu”  perché, come si credeva da vivo, spingendo in avanti  la  terra che muove, porta fortuna, al contrario del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza”.
Un po’ dappertutto nella regione  ma soprattutto  nell’aquilano, la sera dell’ultimo giorno dell’anno festose brigate di ragazzi andavano a cantare  gli auguri  sotto le case chiedendo in cambio dei regali e, se essi venivano rifiutati, gli auguri si trasformavano in  scherzose imprecazioni.  






A  Pescocostanzo, la mattina del primo giorno dell’anno gli amici più mattinieri  andavano a svegliare i più pigri  chiedendo loro una mancia. Vigeva la credenza che ‘quel che se fa a Capodanno  se fa tuttu j’annu’   per dirla in dialetto aquilano; per cui in tale giorno bisognava evitare ciò ch’è male: piangere, bisticciarsi, adirarsi e fare il maggior numero di cose possibili.

 Sempre in occasione del Capodanno le figlie maritate o lontane tornavano alla casa materna perché “a Capodanno ogni  figlia  revà  alla  mamma”.  
Le ragazze, scese con la conca ad attingere acqua alle fontanelle, accettavano un po’ schizzinose i doni dei  morosi , anellini, torrone, ricambiando con sciarpe fatte a mano, canestrelle di amaretti per dire che l’amore è “frizzicarello” dolce ma anche amaro.                               
                           









  L’ANTICO CENONE DI SAN SILVESTRO
Nelle famiglie si preparava il cenone prevalentemente  con carne di “porcu”  perché, come si credeva da vivo , spingendo in avanti  la  terra che muove, porta fortuna al contrario del pollo che ruspando manda indietro ciò che “sgarruzza. Sovente le scarse disponibilità economiche non  permettevano l’acquisto di carne pregiata  sicchè si ripiegava su quella di coniglio, di agnello o di pecora  considerate di scarso pregio.    
Sotto la “ronza” del camino e nei forni si cuocevano le “rape rosce”. Si consumavano le ultime “appese di strutto” per preparare” ji fritteji” ripieni di  fichi secchi, cotognata, marmellata. I fritti  venivano apparecchiati  nelle zuppiere di coccio, ma prima erano stesi nei “capisteri” per dolcificarli col miele e spolverati con lo zucchero. Contorno prelibato erano “i cavoli strascinati” ripassati con l’uvetta secca passita. La frutta era costituita da spicchi di mela seccati al sole chiamati “spaccarelle di sorbe”, spicchi di mela seccati al sole e qualche “portugallo” . Un’altra portata era “la cicerchia”  ma  su  tutte  le mense  non mancavano mai   “le lenticchie colla salsiccia o ju zamponu”  poiché si diceva “Se te magni le lenticchie a Capodannu, conti ji sordi tuttu  jannu”. I fagioli “la carne dei poveri “cucinati in bianco e insieme ai ceci  venivano serviti con il baccalà in umido o fritto.


                                         Le antiche usanze e credenze popolari
Dopo il cenone si usciva fuori al fresco a fumare il sigaro toscano o la sigaretta fatta con il  trinciato”forte” che  ammazzava sette spiriti e si usava  orinare sull’anno vecchio, non si spazzava la casa sino al 2 gennaio per non scacciare le anime benedette tornate in spirito a festeggiare, ma soprattutto per non scacciare “sgarrire” la fortuna. In cucina intanto si riattizzava  il  fuoco con la legna stagionata di acero dal cui scintillio si traevano auspici : se salivano dritte nel camino era “bona ventura”, se scoppiettavano verso l’interno “difficoltà” se il legno “soffiava” erano le malelingue che bruciavano. Alla mezzanotte le vecchiette rigiravano il fuoco negli “scallini” per dire che avevano ancora calore e tutti  brindavano con bicchieri colmi di vino e rosicchiavano ceci “abbruscati” e fichi secchi. Poi prima di coricarsi si spazzava dalla neve la soglia dell’uscio perché il nuovo anno entrasse benvenuto in casa. Gli auguri di Capodanno erano dati da frotte di ragazzi vispi e saltellanti che la mattina del primo dell’anno bussavano rumorosamente più volte agitando i battenti dei portoni,   chiedendo un omaggio di leccornie: la cosiddetta  “sandalivecchia”: un miscuglio fatto  con grasso di ventresca , lenticchie simboleggianti la  prosperità, i ceci  la laboriosità e le castagne  l’abbondanza.  I ragazzi in cantilena così  cantavano:

“Se me dà la la Sandalivecchia
Ddio te remerita e sé fa festa
Ma se nò la vvu ddà
Que te se pozza fracidà”

Il  pomeriggio del giorno di Capodanno  si organizzavano “ricreazioni” nelle stallette dove si offriva una pizza  nella  cui pasta era stata introdotta una monetina che avrebbe portato fortuna a chi l’avrebbe trovata. Le ragazze su di un vassoio distribuivano insieme a pezzi di torrone, ferratelle e amaretti consumati insieme al vinello. Poi la coppia più anziana apriva il ballo e volteggiava nel cerchio dei presenti, nessuno, se richiesto, poteva negare un giro di danza agli intervenuti. Tutti saltellavano al suono della fisarmonica accompagnata dal tamburello. Le ragazze  danzavano nelle lunghe gonne danzavano dritte  come fusi con i corpetti di raso tenuti rigidi dalle stecche d’osso di balena. I visi erano chiusi nei fazzoletti ricamati a fiorellini gialli e rossi che si annodavano dietro la nuca da cui uscivano i “tuppi” dei capelli fermati  con le forcine e i pettinini luccicanti di brillantini di vetro colorato.    
Ballavano a turno anche i ragazzi in pantaloncini corti e scarponcini lucidati con lo strutto. Per accomiatarsi dal vecchio anno, che se ne andava al di là dei monti, si festeggiava con rumorosità  e tutti   salutavano col bicchiere di vino in mano il neonato nuovo anno che, emanando i primi vagiti, suscitava  anche apprensione per il futuro.







Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli 
email: mancinellielisabetta@gmail.com    

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