La peste di Milano del 1630, secondo alcuni storici, fu portata dalle pulci dei ratti che entrarono
a Milano tramite un soldato italiano
arruolato nell'esercito tedesco, un certo Pietro Antonio Lovato, che andò ad
alloggiare in casa di alcuni suoi parenti presso Porta Orientale.
Morì pochi giorni dopo. Il Tribunale di
Sanità ordinò di internare nel lazzaretto le persone che erano nel luogo. L’epidemia,
rimasta in incubazione durante i mesi invernali, nella primavera del 1630 crebbe lentamente ma poi il morbo, dilagò rapidamente in città in tutti i quartieri. Le
autorità pubbliche cominciarono ad agire, ma in modo poco efficiente, intanto
il numero dei malati nel lazzaretto aumentava di giorno in giorno. A gestire il lazzaretto furono chiamati i Cappuccini guidati da padre Felice Casati.
I magistrati
chiesero l’11 giugno 1630 al cardinale Federico Borromeo di guidare una
processione con le reliquie di San Carlo per ottenere la cessazione della
peste. Inizialmente egli rifiutò, ma poi spinto dalle insistenze dei funzionari
e del popolo, Federico acconsentì alla processione e alla esposizione delle
reliquie di San Carlo nel Duomo, si
svolse la solenne processione, a cui partecipò un numero incredibile di
persone, e attraversò tutti i quartieri della città.
Il giorno successivo si manifestò un improvviso incremento
della mortalità; l’opinione comune ne vide la causa non nel contagio dovuto ai
contatti tra tante persone, ma nello spargimento di polveri velenose da parte degli untori. L’epidemia di
peste toccò il suo apice tra agosto e settembre 1630; all'inizio del 1631 poteva
dirsi conclusa, ma aveva spopolato Milano e fatto migliaia di
vittime.
Il giudizio del Manzoni riguardo la peste nei Promessi
Sposi
Nel suo romanzo “I Promessi Sposi” Alessandro Manzoni denuncia da un lato l’inefficienza e
l’impotenza delle autorità governative, nonché la loro cecità e indifferenza di
fronte ai segni crescenti dell’epidemia, dall'altro l’ignoranza delle masse,
refrattarie a qualsiasi forma di prevenzione. In questo contribuire tutti,
attraverso la negligenza e l’irrazionalità, alla propagazione del male, il
Manzoni sembra voler vedere il delirio della ragione. Ma la peste è anche, per dirla con le parole
di don Abbondio, “una scopa che spazza via certi soggetti”. Essa si rivela quindi uno strumento della
Provvidenza, allo stesso modo della pioggia purificatrice con la quale termina il flagello.
Forse proprio perché sentita dal Manzoni come il portato di un disegno divino, essa fu
in qualche modo cristianamente accettata.
Manzoni ironizza alludendo
a quella «voce del popolo» che, assecondata dalla dabbenaggine dei governanti,
restii ad ammettere i fatti per ragioni politiche ed economiche, sulle prime
non vuol credere alla peste. Allora, diversamente da oggi, la «medesima
miscredenza» e cecità prevaleva anche nelle autorità pubbliche .Parziale
eccezione il cardinal Federico, un po’ più sollecito a lanciare l’allarme.
Oggi
la tv, la radio, le mail, i social e i navigatori satellitari risolverebbero
buona parte dei problemi che affliggevano i personaggi di Manzoni nel 1630.
Buona parte ma non tutti.
Ci sono costanti
del comportamento umano che comunque ritornano nel 2020 come allora: per
esempio, la sottovalutazione colpevole e irresponsabile del contagio.
I messi del
tribunale vengono sì tempestivamente sollecitati dal fisico Ludovico Settala esperto in materia ma arrivando
in ritardo sui luoghi dell’epidemia «trovarono paesi chiusi da cancelli e gli
abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi…».
Lacerazione e morte sono causate dall'iniziale concorso di incredulità
popolare e miopia del potere.
Chi crederebbe,
si chiede il narratore, che l’incombere del morbo, ormai evidente, non riesca a
suscitare «un desiderio di precauzioni» o «almeno una sterile inquietudine»?
Sta parlando degli
antenati dei molti che fino a qualche
giorno fa, pur sommersi dal diluvio dell’informazione, affollavano sconsideratamente
i pub e i supermercati come nulla fosse
Allora, diversamente da oggi, la «medesima miscredenza» e
cecità prevaleva anche nelle autorità pubbliche Un passo del Manzoni
che più di tanti altri dovrebbe farci riflettere sugli inganni del
linguaggio che contribuiscono ad ammorbare l’aria recita: «In principio dunque, non peste, assolutamente
no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo”.
Anche nella Milano di quel tempo si va a caccia del paziente numero uno. Il «portator di
sventura»
È così che, con il «contatto
esattamente quel che oggi cerchiamo di evitare col motto “io resto in casa”,
il male si va diffondendo.
Anche nella Milano di quel tempo salta fuori il super
commissario. Si chiama Felice Casati ed è il padre cappuccino che via via
assume, nel racconto di Manzoni, un ruolo chiave, con l’incarico di
sovrintendere al lazzaretto, dotato com’è di pieni poteri economici,
organizzativi e giudiziari.
Allora operavano i monaci piccoli
eroi di ieri; oggi medici e infermieri che fanno turni
ospedalieri impossibili.
Anche nel Seicento si costruiscono in quattro
e quattr’otto strutture di soccorso: «bisognava trovare e preparar nuovo
alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno», si tirano su
capanne di paglia per ospitare quattromila pazienti. Anche nel 1630 c’è
l’esigenza di «tener fornito il
lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli
attrezzi d’infermeria».
In una pagina dei “Promessi
Sposi” viene descritto Renzo che cammina per le strade abbandonate e squallide
di Milano, non più dominato dalla paura ma dall'incomprensione. Così gli appare Milano: «Il tempo era
chiuso, cammina in un luogo, «che poteva
pur dirsi città di viventi». Ma guardando le strade deserte e le case serrate,
non può che pensare: «Ma quale città ancora, e quali viventi!».
Ma il passo che mostra tutta la drammaticità
dell’epidemia è nel capitolo
XXXIV del romanzo:
“La madre di Cecilia”
“Scendeva
dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il
cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi
traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran
passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa
che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non
cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante;
c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava
un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo
aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e
ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava
essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata,
co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle
mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto
appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a
guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il
capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della
madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe
detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.Un turpe
monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però
d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la
toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì
una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le
tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di
lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto
si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per
il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata
ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina.La
madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce
l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: «addio,
Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi
di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a
prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento
dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola,
viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così
indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté
vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che
le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già
rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar
della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.”
Ricostruzione
storiografica di Elisabetta Mancinelli
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