lunedì 16 marzo 2020

La peste di Milano nei “Promessi Sposi” di A. Manzoni e riflessioni sulla pandemia da Coronavirus


La peste di Milano del 1630, secondo alcuni storici,  fu portata dalle pulci dei ratti che entrarono a Milano tramite un soldato italiano arruolato nell'esercito tedesco, un certo Pietro Antonio Lovato, che andò ad alloggiare in casa di alcuni suoi parenti presso Porta Orientale.
Morì pochi giorni dopo. Il Tribunale di Sanità ordinò di internare nel lazzaretto le persone che erano nel luogo. L’epidemia, rimasta in incubazione durante i mesi invernali, nella primavera del 1630 crebbe lentamente ma  poi  il morbo, dilagò rapidamente in città in tutti i quartieri. Le autorità pubbliche cominciarono ad agire, ma in modo poco efficiente, intanto il numero dei malati nel lazzaretto aumentava di giorno in giorno. A gestire il lazzaretto furono chiamati i Cappuccini guidati da padre Felice Casati.
I magistrati chiesero l’11 giugno 1630 al cardinale Federico Borromeo di guidare una processione con le reliquie di San Carlo per ottenere la cessazione della peste. Inizialmente egli rifiutò, ma poi spinto dalle insistenze dei funzionari e del popolo, Federico acconsentì alla processione e alla esposizione delle reliquie di San Carlo nel Duomo, si svolse la solenne processione, a cui partecipò un numero incredibile di persone, e attraversò tutti i quartieri della città.
Il giorno successivo si manifestò un improvviso incremento della mortalità; l’opinione comune ne vide la causa non nel contagio dovuto ai contatti tra tante persone, ma nello spargimento di polveri velenose da parte degli untori. L’epidemia di peste toccò il suo apice tra agosto e settembre 1630; all'inizio del 1631 poteva dirsi conclusa, ma  aveva spopolato Milano e fatto migliaia di vittime.



Il giudizio del Manzoni riguardo la peste nei Promessi Sposi

Nel  suo romanzo “I Promessi Sposi” Alessandro  Manzoni denuncia da un lato l’inefficienza e l’impotenza delle autorità governative, nonché la loro cecità e indifferenza di fronte ai segni crescenti dell’epidemia, dall'altro l’ignoranza delle masse, refrattarie a qualsiasi forma di prevenzione. In questo contribuire tutti, attraverso la negligenza e l’irrazionalità, alla propagazione del male, il Manzoni sembra voler vedere il delirio della ragione. Ma la peste è anche, per dirla con le parole di don Abbondio, “una scopa che spazza via certi soggetti”. Essa si rivela quindi uno strumento della Provvidenza, allo stesso modo della pioggia purificatrice con la quale termina il flagello.
Forse proprio perché sentita dal Manzoni come il portato di un disegno divino, essa fu in qualche modo cristianamente accettata.
Manzoni ironizza alludendo a quella «voce del popolo» che, assecondata dalla dabbenaggine dei governanti, restii ad ammettere i fatti per ragioni politiche ed economiche, sulle prime non vuol credere alla peste. Allora, diversamente da oggi, la «medesima miscredenza» e cecità prevaleva anche nelle autorità pubbliche .Parziale eccezione il cardinal Federico, un po’ più sollecito a lanciare l’allarme. 
Oggi la tv, la radio, le mail, i social e i navigatori satellitari risolverebbero buona parte dei problemi che affliggevano i personaggi di Manzoni nel 1630. Buona parte ma non tutti.


Ci sono costanti del comportamento umano che comunque ritornano nel 2020 come allora: per esempio, la sottovalutazione colpevole e irresponsabile del contagio.


I messi del tribunale vengono sì tempestivamente sollecitati dal  fisico Ludovico Settala  esperto in materia  ma  arrivando in ritardo sui luoghi dell’epidemia «trovarono paesi chiusi da cancelli e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi…».
Lacerazione e morte sono causate dall'iniziale concorso di incredulità popolare e miopia del potere. 
Chi crederebbe, si chiede il narratore, che l’incombere del morbo, ormai evidente, non riesca a suscitare «un desiderio di precauzioni» o «almeno una sterile inquietudine»?

Sta parlando degli antenati dei molti che fino a qualche giorno fa, pur sommersi dal diluvio dell’informazione, affollavano sconsideratamente i pub e  i supermercati come nulla fosse

Allora, diversamente da oggi, la «medesima miscredenza» e cecità prevaleva anche nelle autorità pubbliche  Un passo  del Manzoni  che più di tanti altri dovrebbe farci riflettere sugli inganni del linguaggio che contribuiscono ad ammorbare l’aria  recita:  «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo”.
Anche nella Milano di quel tempo si va a caccia del  paziente numero uno. Il «portator di sventura»
È così che, con il «contatto esattamente quel che oggi cerchiamo di evitare col motto “io resto in casa”, il male si va diffondendo.

Anche nella Milano di quel tempo salta fuori il super commissario. Si chiama Felice Casati ed è il padre cappuccino che via via assume, nel racconto di Manzoni, un ruolo chiave, con l’incarico di sovrintendere al lazzaretto, dotato com’è di pieni poteri economici, organizzativi e giudiziari.
Allora  operavano i  monaci  piccoli eroi di ieri; oggi medici e infermieri che fanno turni ospedalieri impossibili.
Anche nel Seicento si costruiscono in quattro e quattr’otto strutture di soccorso: «bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno», si tirano su capanne di paglia per ospitare quattromila pazienti. Anche nel 1630 c’è l’esigenza di  «tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria».
In una pagina dei  “Promessi Sposi”  viene  descritto  Renzo  che cammina per le strade abbandonate e squallide di Milano, non più dominato dalla paura ma dall'incomprensione. Così gli appare Milano: «Il tempo era chiuso,  cammina in un luogo, «che poteva pur dirsi città di viventi». Ma guardando le strade deserte e le case serrate, non può che pensare: «Ma quale città ancora, e quali viventi!».

Ma il passo che mostra tutta la drammaticità dell’epidemia  è nel capitolo XXXIV del romanzo:

“La madre di Cecilia

“Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina.La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.”




Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli




Nessun commento:

Posta un commento