La storia di Pescara, che appare giovane dal punto di vista culturale, è poco conosciuta ed alcuni periodi del suo passato sono ancora avvolti nell’oscurità. Tuttavia le origini della città sono molto antiche e legate alla sua posizione favorevole in quanto raccordo delle vie di comunicazione tra l’antica Roma e l’area dell’Adriatico. Probabilmente il primo insediamento avvenne intorno al Colle del Telegrafo (chiamato così per la presenza del vecchio telegrafo) alto circa 140 metri e situato a un chilometro dalla costa. Dopo un mese di scavi (giugno-luglio 2005), sono emersi reperti risalenti a seimila anni fa. I lavori, condotti sul pianoro del Colle del Telegrafo dalla Sovrintendenza per i Beni Archeologici per l’Abruzzo diretti dal prof. Staffa, hanno dedotto che i vari rinvenimenti sono riferibili ad un insediamento popolato nella protostoria (secondo periodo preistorico compreso tra l’età del bronzo e quella del ferro) ed in età romana. Risalirebbero invece alla prima metà del V millennio i resti di un villaggio di agricoltori ritrovato a Fontanelle Alta nella parte a sud del fiume Pescara. Non possediamo dati stratigrafici, a causa di un’aratura profonda che distrusse l’insediamento (scavi 1977), ma sono stati evidenziati nella zona interessanti caratteri di novità rispetto al quadro culturale del Neolitico abruzzese a ceramica impressa. Infatti resti di Ceramica figulina e un frammento dipinto mostrano, accanto al repertorio dei motivi tipici dell’area abruzzese-marchigiana, elementi decorativi peculiari di quella apulo materana. Mediante documenti raccolti dalla Provincia e dalla Sovrintendenza archivistica di Pescara si è cercato di ricostruire il percorso storico della città, anche se, come abbiamo detto, alcuni momenti del suo passato sono ancora molto incerti. Situata nella pianura, sul litorale adriatico, tra i colli Pizzuto, Caprino e Telegrafo, Pescara ha avuto il suo nucleo antico alla foce del fiume omonimo. Probabilmente i primi abitanti vennero, attraverso il mare Adriatico, dalle sponde orientali e fondarono il villaggio. Il primo popolo che comprese l’importanza strategica della posizione dell’agglomerato è quello dei Vestini, che allestirono un efficiente porto utilizzato anche dai Marrucini e dai Peligni. Ma l’abitato aumentò il suo prestigio solo in seguito alla conquista da parte dei Romani, si sviluppò , venne chiamato Vicus Aterni e, poiché sia la città che il fiume erano una porta verso l’interno e Roma, gli fu attribuito il nome di Ostia Aterni. Scavi condotti dalla Sovrintendenza archeologica d’Abruzzo (1990-1999) hanno rivelato, dopo secoli di incertezza, l’esatta ubicazione della città romana dalla curiosa pianta a triangolo allungato probabilmente derivante dalla posizione del centro all’incontro fra la più antica via di fondovalle Pescara ed il nuovo tracciato della via Claudia Valeria realizzato nel 48/49 dall’imperatore Claudio. Secondo sempre le rilevazioni del dottor Staffa lungo il Pescara, al Bagno Borbonico e a Piazza Unione è stato messo in luce un tracciato viario antico poi ripreso da via delle Caserme, tratto terminale di un antico itinerario naturale che giungeva in città sul crinale della propaggine collinare a sud del fiume. Allineati con la strada erano resti di abitazioni, magazzini, taberne (sec. I a.C. II d.C.) rilevati dagli scavi e oggi visibili solo al piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo e nella cantina del Ristorante Taverna 58 a Corso Manthonè. Di origine antica appaiono anche Corso Manthonè e via del Bastioni oltre ad almeno parte del reticolo viario di impianto regolare che li collegava a via delle Caserme. I documenti reperiti dalla Sovrintendenza Archivistica di Stato e dalla Provincia testimoniano quanto segue: Da Ostia Aterni si raggiungeva Roma attraverso tre importanti vie: la Claudia Valeria, la Tiburtina e la Salaria. Nella città esistevano importanti edifici pubblici e privati, c’erano diversi templi tra cui quello dedicato a Giove Aternio e anche il culto della dea Iside. Vi sono diverse attestazioni di questo culto trovate in due iscrizioni incastonate nel 1700 su un muro nella zona di Rampigna e in un cortile di Villa De Riseis che sono conservate nella Biblioteca provinciale di Chieti. Inoltre dei frammenti di un bassorilievo raffigurante la dea egiziana sono emersi recentemente nei pressi del porto canale, sulla sponda nord. Il fiume, in mezzo al quale c’era una piccola isola, era scavalcato da un ponte monumentale costruito per volontà dell’imperatore Tiberio che volle anche il restauro del porto per gli scambi commerciali con l’Oriente. Con la caduta dell’impero romano, all’epoca dell’invasione longobarda intorno all’anno 1000, Aternum cambia di nuovo il suo nome e diviene Piscaria. Questo toponimo sostituì il vecchio nome gradualmente prima tra i locali e poi anche negli atti ufficiali e designava un sito particolare: un luogo adatto alla pesca e comunque ricco di pesci, un mercato del pesce o il luogo di esazione dei diritti di pesca. Anche il fiume si chiamò Piscarius. La città, pur distrutta e ricostruita più volte, riveste sempre grande rilievo per la sua posizione strategica e le sue robuste difese militari. Aveva anche un vescovo: Cetteo che esercitò la sua carica dal 568 al 597 quando cadde vittima della ferocia dei Longobardi che, essendo ariani, osteggiavano tutti i cattolici ma, in particolare, la sua gerarchia. Il suo corpo fu recuperato alla foce del fiume e da quel giorno divenne patrono di Pescara. Il porto conservò piena funzionalità sino alla tarda età imperiale quando fu oggetto di interventi di restauro sia all’epoca della Guerra Greco-gotica (538-560) che alla fine del VI sec. restando a lungo parte di una vasta rete di scambi commerciali; dagli scavi condotti in città oggi visibili al piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo ed all’interno del negozio Emilio Sport a Corso Manthonè 53 provengono infatti, tra l’altro, frammenti di vasi in ceramica fine da mensa di importazione africana ed orientale, contenitori cilindrici della tarda età imperiale provenienti da Samo, Gaza e dall’Asia Minore. Ancora, dagli scavi diretti dal dott. Staffa, si evince che probabilmente, in seguito ad un devastante incendio correlabile alla conquista longobarda (fine VI sec.), dovette seguire la realizzazione da parte dei Bizantini di una cinta difensiva affiancata da un Castellum ed il ripristino di parte dell’abitato dell’area del Bagno Borbonico, anche se la città romana andava trasformandosi in un ben più ristretto borgo di capanne e case di terra. Progressivamente furono demolite le strutture fatiscenti, persistettero in muratura solo alcuni edifici religiosi e forse civili infatti, nelle adiacenze di Casa D’Annunzio e al Bagno Borbonico, sono stati trovati resti di alcune case del VII sec. con pianta rettangolare, strutture portanti in pali, pavimenti in terra battuta e ghiaia e semplici focolari a terra. Il dominio bizantino a Pescara andò protraendosi sino 660-670 ma l’attività portuale dovette proseguire senza soluzioni di continuità per tutto l’alto medioevo come provato sia da alcuni documenti del IX sec. sia dal rinvenimento in via delle Caserme di un livello stradale di terra nera che copriva le darsene venute alla luce nel 1999. Intorno al 1095 Piscaria era ricca di monumenti e templi. Tra quelli più rilevanti si possono citare la più nota Santa Maria di Gerusalemme, sorta sui resti di un possente edificio tardoantico del III –IV secolo d.c., i cui basamenti sono stati riportati alla luce nella zona della Cattedrale attuale di San Cetteo e frammenti di essi sono visibili attraverso una vetrata in via Gabriele D’annunzio. Vi erano anche altre chiese: San Salvatore, Santi Legunziano e Domiziano, San Tommaso Apostolo e San Nicola. Nell’anno 1140 Pescara fu conquistata da Ruggero re normanno di Napoli che fece eseguire diverse opere, tra cui quelle del restauro del porto. Ma gli anni successivi furono caratterizzati da rovine, distruzioni e scorrerie e il dominio di diversi signori tra cui i D’Avalos nel primo decennio del 1400 e il capitano di ventura napoletano Giacomo Caldora (1435-1439). Il periodo più fiorente della sua storia iniziò quando con l’aiuto di Carlo V re di Spagna furono reintegrati i D’Avalos nel marchesato di Pescara attribuito alla Marchesa Vittoria Colonna. Gli Spagnoli nel 1510 per proteggere l’accesso al Vicereame dall’Adriatico avevano dato l’incarico all’architetto Erardo di Barbeluc di progettare una Fortezza a cavaliere del fiume.In quegli anni le opere di difesa di Pescara erano dunque costituite da una Torre a presidio del ponte, dal Castello a protezione della porta aperta sul mare nel punto opposto al ponte e da semplici mura che disegnavano uno stretto trapezio attorno all’abitato sulla destra del fiume. Come emerge da un atlante conservato presso l’Istituto storico italiano che raffigura la Fortezza appunto con una pianta di pentagono irregolare e cinque bastioni ai vertici, tutti sulla riva destra. Successivamente però, a causa dello scontro prolungato per secoli tra Spagna e Francia emerse la necessità di rafforzare queste modeste opere di difesa, modeste in relazione al rafforzamento delle artiglierie, che aveva sostituito alle enormi palle di pietra il martellamento con palle di ferro alle quali si poteva resistere solo con la costruzione di torrioni bassi e larghi e terrapieni. Furono così aggiunte nuove e più solide fortificazioni sulla destra e si aggiunsero sulla sinistra due bastioni raccordati da cortine. Soltanto nel 1557 acquistò una efficace consistenza. Normalmente era presidiata da una guarnigione ridotta e servì come luogo di concentramento di truppe in caso di guerra. Nel 1566, durante la scorreria turca di Pialì Pascià in Adriatico, fu un valido baluardo ed impedì l’occupazione della città, sola tra gli abitati della costa ad essere risparmiata. Nel 1600 venne costruita la Caserma di fanteria tuttora esistente (Museo delle Genti e Genio militare) Il piano inferiore della caserma fu adibito in parte a magazzini ed in parte a carcere. Sulla riva sinistra del fiume, a Rampigna, venne costruita la caserma per la cavalleria, con una scuderia capace di ospitare un centinaio di cavalli. La protezione offerta dalle imponenti mura, che si continuarono a costruire e perfezionare per tutto il 1600, offrì a molti la possibilità di vivere e commerciare e più tardi acquisì anche il diritto ad ospitare una fiera franca con tutti i vantaggi derivanti dal fatto di potere attirare i commercianti. Si ebbe così un ripopolamento della riva destra del fiume ma anche lo sviluppo della riva sinistra di Castellammare, dove i d’Avalos misero a cultura nuove terre e strinsero rapporti di lavoro con numerosi nuovi coloni. Sappiamo da documenti del 1600 che gli abitanti delle due rive costituivano una sola “Università” come si diceva a quel tempo cioè un solo comune retto da un solo governo locale. Ciò viene confermato dal fatto che fonti dell’epoca definiscono i due insediamenti con i nomi di Piscaria Citra (la parte a sud del fiume) e Piscaria Ultra (l’area settentrionale) a dimostrazione che i due luoghi , pur nelle loro differenze sociali economiche e urbanistiche, hanno forse avuto una storia meno separata dal fiume di quanto si creda. Così il Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700". Agli inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova) a sud del fiume e Castellammare sulla sponda nord e contava circa 3000 abitanti”. Le battaglie per la conquista della Fortezza non erano terminate. Durante la guerra di successione spagnola nel 1707, fu attaccata dagli austriaci del conte Wallis e, a difenderla, c’era Giovanni Girolamo 2° duca di Atri, che resistette eroicamente per due mesi prima di capitolare. Così il regno di Napoli e la cittadina di Pescara passano agli Austriaci, ma già nel 1734, la Fortezza viene nuovamente assediata dagli spagnoli di Carlo di Borbone e, dopo una cruenta battaglia, cede alle truppe comandate dal duca di Castropignano. Con l’avvento della Repubblica francese, la fortezza di Pescara viene conquistata, nel dicembre del 1798, senza spargimento di sangue, dal generale Duhesme ed inizia così la breve stagione della Repubblica Partenopea.
Al suo arrivo a Pescara, il generale Duhesme aveva organizzato
la sua legione nominandone a capo Ettore
Carafa conte di Ruvo (sopra) protagonista della Repubblica Napoletana
assieme al pescarese Gabriele Manthonè
(sotto) il quale seppe organizzare una
valorosa resistenza alla reazione borbonica
del 1799.
Sia Carafa che Manthonè, tradotti
a Napoli, vennero impiccati nella Piazza del
Mercato.
L’ennesimo assedio alla fortezza fu
vittoriosamente portato al termine da
Giuseppe Pronio detto il “Fra Diavolo
abruzzese”, agli ordini del cardinale Ruffo
fedele ai Borboni.
Nei primi anni del 1800 Pescara venne occupata nuovamente dai francesi e costituì un importante presidio
militare del regno di Giuseppe Bonaparte.
Intanto Castellammare, sulla sponda nord del fiume diventa comune autonomo aggregato al circondario di
Città Sant’ Angelo.
Nel 1814 Pescara fu tra le città protagoniste dei moti carbonari contro
Gioacchino Murat, re di Napoli.
E fu a Pescara non a Rimini, che Murat firmò il 12 maggio del 1815 la prima
delle Costituzioni italiane del Risorgimento”.
La Fortezza, ritenuta all’epoca “Porta d’Abruzzo e chiave del Regno” venne
restaurata dai Borboni tra il 1820 e il 1840 e nel 1831 vi fu istituito, al piano
terra della caserma di fanteria, il bagno penale nel quale languirono gli
sfortunati compagni di Carlo Pisacane ed altri patrioti.
Così il Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700”. Agli
inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova ) a sud del fiume e Castellammare sulla
sponda nord e contava circa 3000 abitanti durissima fu la repressione borbonica, simboleggiata dal Bagno
Penale di Pescara. Si trattava di un carcere tristemente famoso per le condizioni disumane con cui venivano
trattati i detenuti, in buona parte patrioti abruzzesi: drammatica fu in particolare l’alluvione dell’ottobre 1853
che investì il carcere causando la morte per annegamento degli internati.
Tra coloro che furono
rinchiusi in quello che veniva chiamato “il sepolcro dei vivi” vi fu anche Clemente De Caesaris, una delle figure
centrali del Risorgimento meridionale, che, liberato per ordine di Giuseppe Garibaldi, prese
possesso, nel 1860, della città e della Fortezza.
Nello stesso anno,Vittorio Emanuele 2°, in viaggio per l’incontro di Teano con Giuseppe Garibaldi, giungendo
sull’attuale Colle del Telegrafo, da cui si dominava il territorio dell’attuale città, fu sentito esclamare: ‘Oh che
bel sito per una grande città."
“Il 12 marzo del 1863, nasceva a Pescara Gabriele D’Annunzio; nello stesso anno, e precisamente il 16 maggio del 1863, alla presenza di Vittorio Emanuele 2° fu inaugurata la stazione ferroviaria di Castellammare, sulla linea adriatica e nel 1867 l’antica Fortezza venne smantellata: si tratta di due eventi fondamentali per lo sviluppo della città, che abbandona il suo ruolo di bastione militare in favore di una definitiva vocazione per il commercio e le attività economiche. Negli anni successivi e, in particolare, ai primi del Novecento, Castellammare e Pescara si sviluppano demograficamente ed economicamente. Ma i problemi delle due cittadine erano diversi: la ferrovia, la piazzaforte e soprattutto la costruzione di un ponte che finalmente unisse in modo sicuro e stabile le due sponde dopo il crollo definitivo dell’antico ponte romano in muratura. A proposito di questo ci furono molte polemiche tra Pescara e Castellammare tra i dirigenti divisi tra coloro che continuavano a rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con gli “odiati” cugini e coloro che cominciavano ad auspicare in maniera concreta una futura riunificazione dei due centri. Oggetto della contesa fu l’ubicazione del ponte di ferro ( che durò fino al 1933 quando fu costruito il ponte in pietra, detto “Littorio”). C’era infatti chi voleva sorgesse a monte del fiume, per rimarcare la divisione con i teramani della sponda settentrionale; chi invece lo auspicava sulla direttrice di una delle vie principali di Castellammare (come poi avvenne): Corso Vittorio Emanuele II ancor oggi arteria principale e congestionata della città, per stabilire un contatto decisivo tra le due rive. Inoltre vi erano gravi carenze cittadine riguardo l’igiene pubblica, le infrastrutture sociali, gli ospedali, le scuole, l’acqua corrente e potabile. Molte di queste opere vennero timidamente avviate tra cui l’assistenza ospedaliera degna di questo nome anche se di essa si potrà veramente parlare solo nel 1934. Questo era il contesto, ancora segnato da evoluzioni fino alla vigilia del 1914. Su tale situazione giunse la Grande Guerra durante la quale (maggio 1917) sulla sponda castellammarese si ebbe un’incursione aerea austriaca che, se provocò pochi danni materiali, fece comprendere come "la grande storia" si preparava ad affacciarsi in modi non sempre pacifici, nella vita dei due abitati.
“Il 12 marzo del 1863, nasceva a Pescara Gabriele D’Annunzio; nello stesso anno, e precisamente il 16 maggio del 1863, alla presenza di Vittorio Emanuele 2° fu inaugurata la stazione ferroviaria di Castellammare, sulla linea adriatica e nel 1867 l’antica Fortezza venne smantellata: si tratta di due eventi fondamentali per lo sviluppo della città, che abbandona il suo ruolo di bastione militare in favore di una definitiva vocazione per il commercio e le attività economiche. Negli anni successivi e, in particolare, ai primi del Novecento, Castellammare e Pescara si sviluppano demograficamente ed economicamente. Ma i problemi delle due cittadine erano diversi: la ferrovia, la piazzaforte e soprattutto la costruzione di un ponte che finalmente unisse in modo sicuro e stabile le due sponde dopo il crollo definitivo dell’antico ponte romano in muratura. A proposito di questo ci furono molte polemiche tra Pescara e Castellammare tra i dirigenti divisi tra coloro che continuavano a rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con gli “odiati” cugini e coloro che cominciavano ad auspicare in maniera concreta una futura riunificazione dei due centri. Oggetto della contesa fu l’ubicazione del ponte di ferro ( che durò fino al 1933 quando fu costruito il ponte in pietra, detto “Littorio”). C’era infatti chi voleva sorgesse a monte del fiume, per rimarcare la divisione con i teramani della sponda settentrionale; chi invece lo auspicava sulla direttrice di una delle vie principali di Castellammare (come poi avvenne): Corso Vittorio Emanuele II ancor oggi arteria principale e congestionata della città, per stabilire un contatto decisivo tra le due rive. Inoltre vi erano gravi carenze cittadine riguardo l’igiene pubblica, le infrastrutture sociali, gli ospedali, le scuole, l’acqua corrente e potabile. Molte di queste opere vennero timidamente avviate tra cui l’assistenza ospedaliera degna di questo nome anche se di essa si potrà veramente parlare solo nel 1934. Questo era il contesto, ancora segnato da evoluzioni fino alla vigilia del 1914. Su tale situazione giunse la Grande Guerra durante la quale (maggio 1917) sulla sponda castellammarese si ebbe un’incursione aerea austriaca che, se provocò pochi danni materiali, fece comprendere come "la grande storia" si preparava ad affacciarsi in modi non sempre pacifici, nella vita dei due abitati.
LE DUE PESCARE
Nei primi decenni del 1900, appena dopo la prima guerra mondiale, alla foce del fiume Pescara esistevano,
come abbiamo già visto, due cittadine molto diverse tra loro.
A sud la più antica, ora Portanuova cresciuta sui resti della fortezza cinquecentesca che presidiava
all’unificazione delle due cittadine ed alla elevazione a provincia, ma alcuni dissidi ed interessi politici e la campanilistica rivalità
tra i cittadini delle due sponde, talora violenta, ritardarono
l’evento. Gabriele D’Annunzio illustrò bene il conflitto definito
“guerra del ponte” tra le due progenie i cui rapporti erano da
sempre caratterizzati da antagonismo e gelosia.
“Un’antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e rappresaglie, l’una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell’altra. E poiché oggi è prima fonte di prosperità la mercatura, e poiché Pescara ha molta dovizia di industrie, i Castellammaresi da tempo mirano a trasferire i mercanti su la loro riva con ogni sorta di astuzia e di allettamenti” il fiume e la statale 16 Adriatica all’innesto della via Tiburtina Valeria, sbocco della più importante valle d’Abruzzo. A nord del fiume, nella stretta fascia di terra che si allunga tra le colline e il mare, si era invece sviluppata dal 1806, prendendo a fulcro il santuario della Madonna dei Sette dolori, Castellammare Adriatico che, con l’arrivo della ferrovia e la costruzione della Stazione (1863) aveva avuto un certo sviluppo. Commerciale, artigianale e “popolare” Pescara borghese, signorile e turistica Castellammare Adriatico, ancora al principio del XX secolo, scandita dalle grandi ville dei possidenti. Castellammare e Pescara appartenevano rispettivamente alla provincia di Teramo ed a quella di Chieti. Già si pensava Per la qualificazione degli abitanti delle due sponde e per la nascita della nuova provincia ci furono moltissime trattative, volte a stabilire soprattutto la denominazione della nuova comunità. Era chiaro a tutti che l’unione dei due comuni avrebbe sicuramente determinato il loro rapido progresso, sia dal punto di vista amministrativo ed economico che industriale e commerciale. Si cercarono faticosi compromessi volti a chiamare la città unificata “Aterno” o a coniare la nuova denominazione di Castelpescara. In verità l’influenza di Gabriele D’Annunzio sul duce portò quest’ultimo a dire che mai avrebbe sacrificato sull’altare della pace il nome del luogo natale del poeta. E così fu Pescara. E con l’unificazione ci fu la contestuale promozione a Provincia. Il 6 dicembre 1926 Mussolini così telegrafò a D’Annunzio che si trovava a Gardone Riviera: “Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di Provincia. Te lo comunico perché credo che ti farà piacere. Ti abbraccio”. E D’Annunzio rispose: “Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara, ringiovanita, diventerà sempre più operosa e ardimentosa per dimostrarsi degna del privilegio che oggi tu le accordi. Ti abbraccio” . E il Poeta così telegrafò lo stesso giorno al Sindaco di Pescara Umberto Ferruggia “Il Primo Ministro graziosamente mi comunica che oggi ha elevato la mia Pescara a capoluogo di Provincia. Sono certo che Pescara con moltiplicata operosità si mostrerà degna del privilegio. Mando a tutti i miei concittadini il più lieto e fiero saluto”. Dopo l’unificazione di Castellammare Adriatico e Pescara è rimasta famosa la frase del Vate per placare gli animi dei contendenti. "Sono Castellammarese da sempre, non meno che Pescarese” Pescara nei primi decenni del 1900 da “Era Pescara” della Sovrintendeza Archivistica d’Abruzzo “A Castellammare (a destra) originariamente c’erano tre o quattro forni come “Tambrucc”(in via Mazzini) e “Marcucc”(dietro Piazza Sacro Cuore). Poi in via Venezia arrivò "Marcantonio" che proveniva da Colle Marino. Al padrone gli si diceva “lu delegat” perché con quei baffoni sembrava un delegato militare. C’erano anche degli artigiani : fabbri e ramai che lavorava- no intorno a Largo Scurti, vicino all’attuale mercato coperto. Dietro la ferrovia, dalle parti di via Michelangelo, c’era una famiglia di ramai che veniva da Spoltore. In quegli anni Pescara esercitava pur sempre il suo fascino. Con l’auto a noleggio si pagava 5 lire per raggiungere Castellammare. E dopo il lavoro, specie la domenica in alternativa al ballo, c’erano gli spettacoli del teatro Pomponi. Costruito nei primi anni del Novecento dall’imprenditore Teodorico Pomponi, pur tra mille ostacoli e traversie, il cinema teatro si era rivelato un ottimo investimento. D’estate i villeggianti a Castellammare facevano la fila per assistere agli spettacoli delle migliori compagnie dell’epoca. Si davano proiezioni cinematografiche e, nell’intervallo, il varietà o l’avanspettacolo. Ma allora il Pompon (a sinistra) i ospitava la lirica e l’operetta. I fregi, lampadari, gli stucchi in schietto stile liberty, le poltrone in velluto rosso ne facevano un locale prestigioso. Dal balcone dell’edificio che dava sulla piazza (oggi parcheggio di auto) parlarono, specie nel dopoguerra, uomini politici di grido in comizi accalorati. E c’era anche il circolo universitario dove i liceali tentavano agli inizi degli anni sessanta di organizzare feste da ballo, ma l’avvenimento più strepitoso fu quando a Castellammare, ormai diventata tutt’uno con Pescara, giunse nel 1930 il primo film “ parlato”: “La canzone dell’amore” del regista Girelli e poi uno di Petrolini. Si fece la fila per assistere alle proiezioni.” Aggiunge Giuseppe Quieti in “Pescara città antica”: “All’angolo tra via Leopoldo Muzi e Viale Bovio c’era il vecchio Municipio di Castellammare Adriatico (ora Palazzo Mezzopreti sede del Conservatorio "Luisa D’Annunzio"). Se adesso si distingue “Centrale” da “Portanuova” è per via dei due scali ferroviari. I signori che abitavano una volta a Pescara non hanno voluto far mettere la stazione, perché dicevano che il fumo delle motrici dei treni anneriva la facciata dei loro palazzi. Così hanno fatto la rovina di Pescara e la grande fortuna di Castellammare, che invece ha approfittato subito dell’occasione e si è sviluppata alla grande costruendo gli alloggi per i ferrovieri e gli alberghi e i ristoranti per i viaggiatori” Michele Cascella nei “Ricordi pescaresi “così descrive la città sempre nei primi decenni del 1900 “A Pescara, in quei tempi, D’Annunzio era nell’aria come il calore e il colore delle stagioni; viveva nelle pietre del campanile di San Cetteo, sotto l’arco di Porta Nova, davanti all’arsenale fra i cannoni in disarmo dei pescatori… C’erano le vele presso la foce, le paranze, le primavere sul colle San Silvestro, i trabocchi. La città era piccola, antica, borbonica con le sue vecchie mura con le sue tre chiese: San Cetteo, il Rosario, il San Giacomo. Tutte e tre in fila su una delle tre strade principali, il panificio militare, la finanza, i ritrovi preferiti dai militari con l’immancabile famosa “bionda”, i viaggiatori di commercio dell’Albergo Rebecchino, le ferrovie con i treni della notte sul ponte metallico e poi gli odori e i rumori, il sapore dell’acqua torbida che mi dissetava d’estate, col maniero direttamente dalla conca che una donna portava ogni mattina e l’odore del catrame per la concia delle barche ,le reti, le voci del mercato del lunedì.” Lo stesso Gabriele D’Annunzio ne “La vergine Orsola” rievoca con straordinaria efficacia l’atmosfera invernale di piazza Garibaldi: “Un vivo baglior bianco rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell’Arco di Portanuova :il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d’iridi all’altezza della stanza. Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell’Arco di Portanuova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l’erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant’Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano” L’Arco di Portanuova altro non è che il rudere della non finita chiesa di San Cetteo. Nella facciata un grande arco a tutto sesto sormontato da un timpano triangolare e da un fastigio incompiuto era affiancato da due coppie di lesene toscane. All’interno dell’edificio, a pianta circolare aveva imponenti semicolonne di ordine corinzio. La chiesa di San Cetteo chiudeva la piazza a meridione. Di essa il Vate ne “La guerra del ponte” da “Le novelle della Pescara” dice: “.. ‘l’umile costruzione sta quasi come un monumento della Patria, ha quasi in sé la santità delle cose antiche e dà agli estranei indizio di genti che ancora vivono in una semplicità primordiale". Intanto erano anni in cui Pescara desiderava estendere i confini in nome del sogno dannunziano a cui tutti sembravano partecipare, amministratori e intellighentia dell’epoca, tra cui Antonino Liberi che ipotizzava per la Pineta una città- giardino. Si pensava di costruire una Pescara raffinata e luminosa, moderna e aristocratica, il posto ideale per gente che, sistemato l’aspetto economico, avesse tempo e disposizione a coltivare i piaceri dello spirito. Già dal 1862 il passaggio della strada ferrata aveva, se non proprio compromesso, almeno dimezzato l’estensione della Pineta, ma in compenso ne aveva sfatato la leggenda di area malsana e paludosa, dimostrando concretamente la possibilità di pervenire ad una bonifica pressoché totale che trasformasse la città creandole una vocazione turistica e balneare. PESCARA dal 1930 al 1946 Divenuta la quarta provincia d’Abruzzo la città si trovò a dover fronteggiare esigenze impellenti: uffici ordinari di ogni capoluogo, uffici di competenza regionale ma anche tante necessità del vivere civile. Le strade delle due cittadine erano bianche e polverose, quelle della vecchia Pescara erano ampie e rettilinee ma tutte lasciavano a desiderare non essendo asfaltate. La pavimentazione e il sistema fognario inesistente. Quest’ ultima era una spesa assolutamente indilazionabile per l’igiene e la pulizia della città se una franca testimonianza di Filandro De Collibus recitava così: "Un giretto d’ispezione nelle strade avrebbe chiuso per la nausea la gola di chiunque non avesse addormentato il senso e il gusto di uomo civile". Urgeva anche la costruzione di un serbatoio di almeno 5 mila metri cubi di acqua che fu realizzato nel 1928 dal podestà Montani. Pur tra mille difficoltà podestà e commissari prefettizi provvidero variamente al progresso della città. Il fascismo costruì un numero elevato di edifici pubblici; promosse tappe fondamentali per lo sviluppo del centro adriatico, come il Ponte Littorio inaugurato nel 1933 il Palazzo delle Poste in Corso Vittorio Emanuele anch’esso del 1933, l’ospedale finalmente realizzato nel 1934 e i palazzi di Città e del Governo progettati da Vincenzo Pilotti, furono ultimati nel 1936. Particolare rilevanza ebbe il Ponte Littorio che pur, se da inserire nel quadro dell’esaltazione dei tempi, fu anche la celebrazione della riunificazione dei due comuni e il simbolo dell’evoluzione della città. Disegnato da Cesare Bazzani, questo monumento che sostituì la vecchia gabbia di ferro, fu rivestito e rifinito con travertino di Ascoli e granito di Sardegna e arricchito da quattro colonne che sostenevano quattro aquile di bronzo, per ricordare che la costruzione era affidata alla loro custodia quale auspicio di concordia fra le due città ora unite. Nel 1939 Pescara ebbe il gas di città, fornito dalla ditta Camuzzi che inizialmente erogò 700 metri cubi al giorno. Continuarono le grandi opere: l’arginatura del porto, del quale furono prolungati e sistemati i moli e fu collegato con la ferrovia , ma non raggiunse l’efficienza che ci si attendeva per le difficoltà di approdo dei piroscafi recanti materie prime alle industrie della valle.
“Un’antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e rappresaglie, l’una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell’altra. E poiché oggi è prima fonte di prosperità la mercatura, e poiché Pescara ha molta dovizia di industrie, i Castellammaresi da tempo mirano a trasferire i mercanti su la loro riva con ogni sorta di astuzia e di allettamenti” il fiume e la statale 16 Adriatica all’innesto della via Tiburtina Valeria, sbocco della più importante valle d’Abruzzo. A nord del fiume, nella stretta fascia di terra che si allunga tra le colline e il mare, si era invece sviluppata dal 1806, prendendo a fulcro il santuario della Madonna dei Sette dolori, Castellammare Adriatico che, con l’arrivo della ferrovia e la costruzione della Stazione (1863) aveva avuto un certo sviluppo. Commerciale, artigianale e “popolare” Pescara borghese, signorile e turistica Castellammare Adriatico, ancora al principio del XX secolo, scandita dalle grandi ville dei possidenti. Castellammare e Pescara appartenevano rispettivamente alla provincia di Teramo ed a quella di Chieti. Già si pensava Per la qualificazione degli abitanti delle due sponde e per la nascita della nuova provincia ci furono moltissime trattative, volte a stabilire soprattutto la denominazione della nuova comunità. Era chiaro a tutti che l’unione dei due comuni avrebbe sicuramente determinato il loro rapido progresso, sia dal punto di vista amministrativo ed economico che industriale e commerciale. Si cercarono faticosi compromessi volti a chiamare la città unificata “Aterno” o a coniare la nuova denominazione di Castelpescara. In verità l’influenza di Gabriele D’Annunzio sul duce portò quest’ultimo a dire che mai avrebbe sacrificato sull’altare della pace il nome del luogo natale del poeta. E così fu Pescara. E con l’unificazione ci fu la contestuale promozione a Provincia. Il 6 dicembre 1926 Mussolini così telegrafò a D’Annunzio che si trovava a Gardone Riviera: “Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di Provincia. Te lo comunico perché credo che ti farà piacere. Ti abbraccio”. E D’Annunzio rispose: “Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara, ringiovanita, diventerà sempre più operosa e ardimentosa per dimostrarsi degna del privilegio che oggi tu le accordi. Ti abbraccio” . E il Poeta così telegrafò lo stesso giorno al Sindaco di Pescara Umberto Ferruggia “Il Primo Ministro graziosamente mi comunica che oggi ha elevato la mia Pescara a capoluogo di Provincia. Sono certo che Pescara con moltiplicata operosità si mostrerà degna del privilegio. Mando a tutti i miei concittadini il più lieto e fiero saluto”. Dopo l’unificazione di Castellammare Adriatico e Pescara è rimasta famosa la frase del Vate per placare gli animi dei contendenti. "Sono Castellammarese da sempre, non meno che Pescarese” Pescara nei primi decenni del 1900 da “Era Pescara” della Sovrintendeza Archivistica d’Abruzzo “A Castellammare (a destra) originariamente c’erano tre o quattro forni come “Tambrucc”(in via Mazzini) e “Marcucc”(dietro Piazza Sacro Cuore). Poi in via Venezia arrivò "Marcantonio" che proveniva da Colle Marino. Al padrone gli si diceva “lu delegat” perché con quei baffoni sembrava un delegato militare. C’erano anche degli artigiani : fabbri e ramai che lavorava- no intorno a Largo Scurti, vicino all’attuale mercato coperto. Dietro la ferrovia, dalle parti di via Michelangelo, c’era una famiglia di ramai che veniva da Spoltore. In quegli anni Pescara esercitava pur sempre il suo fascino. Con l’auto a noleggio si pagava 5 lire per raggiungere Castellammare. E dopo il lavoro, specie la domenica in alternativa al ballo, c’erano gli spettacoli del teatro Pomponi. Costruito nei primi anni del Novecento dall’imprenditore Teodorico Pomponi, pur tra mille ostacoli e traversie, il cinema teatro si era rivelato un ottimo investimento. D’estate i villeggianti a Castellammare facevano la fila per assistere agli spettacoli delle migliori compagnie dell’epoca. Si davano proiezioni cinematografiche e, nell’intervallo, il varietà o l’avanspettacolo. Ma allora il Pompon (a sinistra) i ospitava la lirica e l’operetta. I fregi, lampadari, gli stucchi in schietto stile liberty, le poltrone in velluto rosso ne facevano un locale prestigioso. Dal balcone dell’edificio che dava sulla piazza (oggi parcheggio di auto) parlarono, specie nel dopoguerra, uomini politici di grido in comizi accalorati. E c’era anche il circolo universitario dove i liceali tentavano agli inizi degli anni sessanta di organizzare feste da ballo, ma l’avvenimento più strepitoso fu quando a Castellammare, ormai diventata tutt’uno con Pescara, giunse nel 1930 il primo film “ parlato”: “La canzone dell’amore” del regista Girelli e poi uno di Petrolini. Si fece la fila per assistere alle proiezioni.” Aggiunge Giuseppe Quieti in “Pescara città antica”: “All’angolo tra via Leopoldo Muzi e Viale Bovio c’era il vecchio Municipio di Castellammare Adriatico (ora Palazzo Mezzopreti sede del Conservatorio "Luisa D’Annunzio"). Se adesso si distingue “Centrale” da “Portanuova” è per via dei due scali ferroviari. I signori che abitavano una volta a Pescara non hanno voluto far mettere la stazione, perché dicevano che il fumo delle motrici dei treni anneriva la facciata dei loro palazzi. Così hanno fatto la rovina di Pescara e la grande fortuna di Castellammare, che invece ha approfittato subito dell’occasione e si è sviluppata alla grande costruendo gli alloggi per i ferrovieri e gli alberghi e i ristoranti per i viaggiatori” Michele Cascella nei “Ricordi pescaresi “così descrive la città sempre nei primi decenni del 1900 “A Pescara, in quei tempi, D’Annunzio era nell’aria come il calore e il colore delle stagioni; viveva nelle pietre del campanile di San Cetteo, sotto l’arco di Porta Nova, davanti all’arsenale fra i cannoni in disarmo dei pescatori… C’erano le vele presso la foce, le paranze, le primavere sul colle San Silvestro, i trabocchi. La città era piccola, antica, borbonica con le sue vecchie mura con le sue tre chiese: San Cetteo, il Rosario, il San Giacomo. Tutte e tre in fila su una delle tre strade principali, il panificio militare, la finanza, i ritrovi preferiti dai militari con l’immancabile famosa “bionda”, i viaggiatori di commercio dell’Albergo Rebecchino, le ferrovie con i treni della notte sul ponte metallico e poi gli odori e i rumori, il sapore dell’acqua torbida che mi dissetava d’estate, col maniero direttamente dalla conca che una donna portava ogni mattina e l’odore del catrame per la concia delle barche ,le reti, le voci del mercato del lunedì.” Lo stesso Gabriele D’Annunzio ne “La vergine Orsola” rievoca con straordinaria efficacia l’atmosfera invernale di piazza Garibaldi: “Un vivo baglior bianco rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell’Arco di Portanuova :il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d’iridi all’altezza della stanza. Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell’Arco di Portanuova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l’erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant’Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano” L’Arco di Portanuova altro non è che il rudere della non finita chiesa di San Cetteo. Nella facciata un grande arco a tutto sesto sormontato da un timpano triangolare e da un fastigio incompiuto era affiancato da due coppie di lesene toscane. All’interno dell’edificio, a pianta circolare aveva imponenti semicolonne di ordine corinzio. La chiesa di San Cetteo chiudeva la piazza a meridione. Di essa il Vate ne “La guerra del ponte” da “Le novelle della Pescara” dice: “.. ‘l’umile costruzione sta quasi come un monumento della Patria, ha quasi in sé la santità delle cose antiche e dà agli estranei indizio di genti che ancora vivono in una semplicità primordiale". Intanto erano anni in cui Pescara desiderava estendere i confini in nome del sogno dannunziano a cui tutti sembravano partecipare, amministratori e intellighentia dell’epoca, tra cui Antonino Liberi che ipotizzava per la Pineta una città- giardino. Si pensava di costruire una Pescara raffinata e luminosa, moderna e aristocratica, il posto ideale per gente che, sistemato l’aspetto economico, avesse tempo e disposizione a coltivare i piaceri dello spirito. Già dal 1862 il passaggio della strada ferrata aveva, se non proprio compromesso, almeno dimezzato l’estensione della Pineta, ma in compenso ne aveva sfatato la leggenda di area malsana e paludosa, dimostrando concretamente la possibilità di pervenire ad una bonifica pressoché totale che trasformasse la città creandole una vocazione turistica e balneare. PESCARA dal 1930 al 1946 Divenuta la quarta provincia d’Abruzzo la città si trovò a dover fronteggiare esigenze impellenti: uffici ordinari di ogni capoluogo, uffici di competenza regionale ma anche tante necessità del vivere civile. Le strade delle due cittadine erano bianche e polverose, quelle della vecchia Pescara erano ampie e rettilinee ma tutte lasciavano a desiderare non essendo asfaltate. La pavimentazione e il sistema fognario inesistente. Quest’ ultima era una spesa assolutamente indilazionabile per l’igiene e la pulizia della città se una franca testimonianza di Filandro De Collibus recitava così: "Un giretto d’ispezione nelle strade avrebbe chiuso per la nausea la gola di chiunque non avesse addormentato il senso e il gusto di uomo civile". Urgeva anche la costruzione di un serbatoio di almeno 5 mila metri cubi di acqua che fu realizzato nel 1928 dal podestà Montani. Pur tra mille difficoltà podestà e commissari prefettizi provvidero variamente al progresso della città. Il fascismo costruì un numero elevato di edifici pubblici; promosse tappe fondamentali per lo sviluppo del centro adriatico, come il Ponte Littorio inaugurato nel 1933 il Palazzo delle Poste in Corso Vittorio Emanuele anch’esso del 1933, l’ospedale finalmente realizzato nel 1934 e i palazzi di Città e del Governo progettati da Vincenzo Pilotti, furono ultimati nel 1936. Particolare rilevanza ebbe il Ponte Littorio che pur, se da inserire nel quadro dell’esaltazione dei tempi, fu anche la celebrazione della riunificazione dei due comuni e il simbolo dell’evoluzione della città. Disegnato da Cesare Bazzani, questo monumento che sostituì la vecchia gabbia di ferro, fu rivestito e rifinito con travertino di Ascoli e granito di Sardegna e arricchito da quattro colonne che sostenevano quattro aquile di bronzo, per ricordare che la costruzione era affidata alla loro custodia quale auspicio di concordia fra le due città ora unite. Nel 1939 Pescara ebbe il gas di città, fornito dalla ditta Camuzzi che inizialmente erogò 700 metri cubi al giorno. Continuarono le grandi opere: l’arginatura del porto, del quale furono prolungati e sistemati i moli e fu collegato con la ferrovia , ma non raggiunse l’efficienza che ci si attendeva per le difficoltà di approdo dei piroscafi recanti materie prime alle industrie della valle.
Ennio Flaiano ricorda così la Pescara dell’epoca: "Io ricordo una Pescara diversa, con cinquemila abitanti al mare si andava con un tram a cavalli e le sere si
passeggiava, incredibile! per quella strada dove sono nato, il Corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora
persino elegante”.
Descriveva inoltre la ancora paesana Piazza Garibaldi con una parte centrale in terra
battuta, due alberi enormi, un pino, una quercia, dei piccoli tigli e con le strade intorno fatte di ciottoli e lastroni
di pietra.
Da “Era Pescara” della Sovrintendenza Archivistica d’Abruzzo si traggono queste vive immagini della città
negli anni trenta.
“Tra Piazza Unione e Piazza Garibaldi, si diramano tre strade: via delle Caserme, Corso Manthonè e via dei
Bastioni ….qui è il cuore di Pescara vecchia dove è vissuto il Vate, Gabriele D’Annunzio e dove ha passato la
gioventù Ennio Flaiano.
Via dei Bastioni e Via delle Caserme erano tutte arti e mestieri: chi faceva le botti chi faceva i tini, chi faceva
lu stagnare: ogni porta un mestiere.
Corso Manthonè invece era la via più di lusso: c’erano caffè, pasticcerie, negozi di tutti i tipi, mercerie, forni e
poi sarti e mobilieri, barbieri, giornalai, negozi di stoffa e ferramenta.
A Via delle Caserme c’erano la maggior parte degli artigiani: falegnami, ebanisti, intagliatori, cesellatori di
legno e il miglior verniciatore di carrozze della zona: Mastro Leone.
Ci venivano pure li signor” da fuori perché faceva lavori precisi.
C’era pure il forno di Michele che cuoceva pure la porchetta.
In Via delle Caserme c’era pure Giacomino Opera che costruiva giocattoli e burattini e li vendeva alle fiere.
In Piazza Garibaldi c’era “Za Minella” che faceva il caffè per quattro soldi, vendeva anche farina e altro, aveva
la cantina sulla destra della piazza. C’era anche Clorinda che vendeva caffè e vino. Alla Cantina di Jozz, in
Piazza Garibaldi si offriva da bere agli amici quando nascevano i figli maschi.
Abitava in Piazza Garibaldi “Za Mariannina”, donna di battaglia che faceva le carte, Piazza Garibaldi) era il cuore della città, ci si faceva di tutto: il mercato dei contadini, il lunedì
e poi i concerti e gli spettacoli. Era chiusa dai palazzi e i pescaresi la consideravano come un salotto e la
chiamavano proprio così. Dove adesso c’è lo stadio c’erano solo le paludi.
Lo chiamavano il ”mare dei chietini”, perché i chietini ci venivano a prendere le ranocchie; le catturavano
con un attrezzo molto simile a “li ciucculare”, gli spezzavano le zampe per non farle saltare e le riponevano in
un sacco che tenevano a tracolla.
Sotto il ponte si mettevano le barche che vendevano le arance. I pellegrini che venivano a Pescara per le feste
di San Cetteo o di Sant’ Andrea si fermavano vicino al ponte per comprare le arance.
Lungo la Pescara e “alla marina” passavano due volte l’anno “li picurare”.
Era sempre una festa e i pescatori gli davano le sardelle salate e il sale, pizze di “randigna” e anche qualche
pesce, loro li ricambiavano con pizze di formaggio e la ricotta.
Alla Pineta ci si andava sempre in tutte le stagioni; a primavera per le scampagnate, l’estate per il mare,
l’autunno e l’inverno ci andavano i cacciatori perché era pieno di beccaccini e altri uccelli.
Lungo la riviera non c’erano case ma soltanto stabilimenti balneari; i signori con il tram o con la carrozza tutti
con i cappelli larghi, andavano alla Pineta; le persone di poco conto, invece andavano a “lu mare vicchie” in
fondo a Via Vespucci. Chi andava al mare vecchio si portava quattro canne e dei teli, si costruivano sulla
spiaggia delle baracchette per fare ombra.
Si chiamava mare vecchio perché sulla spiaggia l’acqua del mare ristagnava durante la bassa marea e per la
gente era un sollievo camminare ed evitare la sabbia rovente.
I ragazzi erano divisi in bande: c’era quella dell’Aterno, quella dei “fornari” formata dai figli e dai garzoni dei
fornai di Corso Manthonè e quelle delle due marine “di qua” e “di là” che erano le più forti. Si andava appresso
a tutti i cortei, agli sposi per prendere i confetti e i soldi che si tiravano appresso, alle fanfare, alle parate
militari. Alla festa di San Ciattè si andava per rubare i lupini e le “nocelle”: Ci si divertiva con poco. Si andava
per fossi a prendere le ranocchie, si giocava con scatole di conserva o di lucido di scarpe con cui si facevano
i botti.”
PESCARA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Senza dubbio la Pescara che il 10 giugno del 1940 ascoltò alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini,
era una’ città nuova’ forgiata dal fascismo, una città dagli slanci dannunziani e dai rapidi ritmi di cambiamento.
Dal 1940 alla metà del 1943 la città ebbe un impatto solo indiretto con la guerra, dopo essersi illusa a seguito
dell’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) di poter uscire indenne dalla spirale del conflitto, la città venne
travolta dalla violenza bellica.
Le prime bombe caddero sulla città il 31 agosto del 1943 sganciate dai liberators: bombardieri della aviazione
americana che, giungendo dal mare in più ondate seminarono il loro carico mortale nella zona compresa tra il
ponte e la stazione centrale , nel primo pomeriggio mentre la gente, dopo un primo allarme stava ritornando
nelle casa e negli alberghi per la pausa pomeridiana.
Non c’erano artiglierie antiaeree non apparecchi da caccia a proteggerla, pur essendoci l’aeroporto preso in
consegna dalla Provincia nel 1929. In tre ondate successive gli aerei depositarono il loro carico distruttivo
sulle costruzioni che cedettero il loro spazio a Piazza Salotto e spargere rovina tra via Fabrizi e via Firenze, in
via Ancona e in Corso Vittorio Emanuele.
Il Palazzo del Governo, che ospitava il presidio militare, fu in parte danneggiato.
Non fu colpita la stazione, ma le bombe ad essa destinate fecero strage nel vicino e affollatissimo albergo
Leon d’oro e subì danni anche il Palazzo delle Poste e la zona di via Salara, alle spalle della stazione ebbe
intere file di case ridotte in polvere. Cadde probabilmente anche il campanile del Sacro Cuore. L’opera di
recupero delle salme durò tre giorni, ma il numero delle vittime, parte rimaste sotto le macerie e parte sepolte
in grosse fosse comuni, non fu accertato. Secondo alcuni furono 1800, secondo altri 1600, altri ancora 900
morti e un migliaio di feriti.
Più che il primo sorprese dolorosamente il secondo bombardamento di martedì 14 settembre: quando gli animi
si erano riaperti alla speranza a seguito dell’armistizio dell’8 di quel mese.
Anche questa volta i bombardieri giunsero dal mare, alla stessa ora, ma seguirono una direttrice di attacco
perpendicolare a quella del martedì di due settimane prima, in modo da disegnare, col primo tragico passaggio,
una croce sulla città, secondo le notazioni di Manlio Masci.
Fu colpita pesantemente anche la vecchia Pescara, Porta Nuova, ma ne uscirono indenni la nuova San Cetteo
e la casa natale di Gabriele D’Annunzio.
Si parla questa volta di 600 morti certi alla stazione centrale, molti dei quali forestieri di passaggio, dove sembra
si fosse riversata una grande folla intenta a vuotare, secondo Colacito uno dei tanti convogli militari carichi di
roba che, dopo l’armistizio, non giungevano più alla loro destinazione. Questa volta la stazione fu centrata e
distrutta e il numero complessivo delle vittime ritenuto oscillante sino a un massimo di 2000.
La cittadina viene citata nei volumi di storia generale per essere stata una delle ultime tappe della “fuga
ingloriosa” del re Vittorio Emanuele III di Savoia e dei vertici politico-militare dello Stato italiano, ma in realtà il
passaggio del secondo conflitto mondiale ebbe su di essa, come per l’Abruzzo le caratteristiche di una guerra
totale soprattutto per il pesante coinvolgimento delle popolazioni civili.
I pescaresi, che solo in parte avevano abbandonato la città per i colli e le campagne, ma vi avevano fatto
presto ritorno, ripresero la fuga in massa, mentre sulla città continuarono a cadere bombe anche il 16 il 17 e
poi l’8 dicembre, quando distrussero la chiesa di San Giacomo e quella del Rosario. Ma le nuove bombe, se
ancora producevano danni, non facevano ormai più vittime, perché la città “spettrale cumulo di rovine”
secondo quanto dice Costantino Felice era ora quasi deserta. E lo fu maggiormente dal febbraio del 1944,
quando i tedeschi che la occupavano, temendo sbarchi nemici, ordinarono lo sfollamento generale che tuttavia
non fu mai proprio totale.
Giunse poi l’ora dei saccheggi.
Erano in prima linea i tedeschi , i quali, partendo dai paesi intorno dove erano i loro comandi, vi tornarono con
i loro automezzi carichi di biancheria di suppellettili e di quanto faceva loro comodo. Accanto ad essi i civili:
alcuni sciacalli saccheggiarono anche la casa natale di Gabriele D’Annunzio, della quale furono asportati, tra
l’altro anche gli orecchini di brillanti di una Madonna nella camera in cui era nato il poeta.
Manlio Masci ricorda l’inutile prudenza di don Brandano che si preoccupò di mettere in salvo in una cassetta
di sicurezza del Banco di Roma le lettere ricevute da Gabriele D’Annunzio e una croce di ametiste che il vate
gli aveva donato, ma tutto andò perduto, perché le banche, dopo il secondo bombardamento, lasciarono
Pescara e furono saccheggiate.
L’agonia finale della città venne completata nella tarda primavera del 1944, quando i tedeschi e neofascisti in
ritirata, allo scopo di disporre la difesa contro un eventuale sbarco alleato disseminarono la spiaggia e il porto
di mine e, per ottenere determinate visuali dell’orizzonte e del mare abbatterono edifici e palazzi sontuosi
orgoglio e vanto della giovane città tra cui il Palazzo di Città, il Ponte Littorio e il recente nuovo molo del porto
frantumati nel giugno del 1944 al momento della ritirata. Altre mine rimasero inesplose dove erano state
nascoste e non brillarono se non negli anni successivi, ogni volta che le vittime ignare le calpestavano lungo
la spiaggia saltando in aria a brandelli.
Quando l’esercito britannico entrò a Pescara nel giugno del 1944 lo spettacolo dei due tronconi urbani di nuovo
isolati tra loro dalla mancanza di un ponte, era spettrale.
Uno specchietto del Genio Civile indica in 1265 gli edifici completamente distrutti e in 1335 quelli gravemente
danneggiati, l’architetto Picconati nel piano di ricostruzione parla del 69 per cento di fabbricati distrutti.
Fu una sorta di ‘ anno zero’ dopo il quale era necessario ricominciare da capo.
Sui motivi dei tali bombardamenti proprio su Pescara si è molto discusso.
E’ opinione dei più che gli anglo-americani abbiano voluto colpire in maniera indiscriminata la città
dannunziana perché essa rappresentava una realizzazione del fascismo, una realtà di giovinezza voluta dal
regime: con la elevazione a capoluogo di provincia di una modesta cittadina che aveva anche intitolato alla
Conciliazione la sua nuova grande chiesa dedicandola contemporaneamente alla casa Savoia e a Mussolini
e custodiva come monumento nazionale la casa in cui era nato l’esaltatore delle glorie nazionali e delle virtù
guerriere del popolo italiano.
Ma la storiografia nazionale più aggiornata ritiene che , anche se da parte degli alleati siano stati gravi: gli
errori, le incertezze, i bombardamenti inutili nei confronti delle inermi popolazioni civili, ciò avvenne in tutta la
guerra condotta in Italia. Un tale elemento punitivo, se sia stato presente nei comandi alleati, fu del tutto
marginale rispetto alle vere finalità delle incursioni aeree giuste o sbagliate che fossero.
Pescara molto più probabilmente fu colpita per motivi militari perché era un vitale nodo ferroviario e stradale
e Corso Vittorio era un tratto della Nazionale Adriatica essenziale in quel momento, dopo lo sbarco degli alleati,
per rifornire le linee della difesa tedesca.
Inoltre concentrare l’attenzione solo sulle colpe degli anglo-americani, rischia di far passare in seconda linea
le vere cause che condussero la città a quel momento così drammatico e di non considerare che la fase storica
e le sue conseguenze tragiche arrivavano da vent’ anni di dittatura dell’alleanza italo-tedesca e dalle
responsabilità dei nazifascisti che avevano scatenato un conflitto di tali proporzioni.
Il SECONDO DOPOGUERRA
Pescara era tornata alla pace e alla vita democratica, ma lo scenario materiale economico e sociale che si
presentava agli amministratori era disastroso. Le attività economiche ridotte al minimo, le macerie come
principale panorama cittadino.
I “senza tetto” si contavano a migliaia, le comunicazioni difficili.
La città ridotta a un cumulo di rovine, rimosse le macerie, sanate alla meno peggio le ferite, prese a crescere
di nuovo per l’afflusso favorito dalla depressione delle zone interne d’Abruzzo e di altre regioni.
Furono comunque soprattutto le possibilità offerte dall’industria edilizia a richiamare braccia insieme alla
possibilità del mercato piccolo e grosso che la città in sé e la sua posizione favorivano.
Intanto nel 1944- 1945 fu ricostruita la stazione.
Gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara, mecca e miraggio dei popoli di montagna.
La popolazione che nel 1936 sfiorava i 52 mila abitanti nel 1946 superò i 68 mila.
Ma se la dimensione dello sviluppo fu notevole non portò con sé un’apprezzabile qualità.
Mario Fondi nel volume del 1970 dedicato all’Abruzzo e Molise, scrisse che nel primo periodo del dopoguerra
si incontravano marinai, agricoltori, pastori e mercanti improvvisati impegnati in affari disordinati e lo sviluppo
urbanistico avvenne caoticamente, senza un piano preciso affidato quasi sempre alla iniziativa dei privati più
facoltosi o più avventurosi.
La città crebbe soprattutto in altezza senza un piano preciso, con la sostituzione di palazzine a due piani e
villini con ampi edifici di cemento, col sacrificio del verde pubblico e il conseguente congestionamento del
centro.
Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” nel 1957 descrive così il fermento innato della città:
“Ecco invece, unica in Italia, una città ribollente, confusa, in cui uomini e gruppi affluiscono, si accavallano
come onde. Per un lato Pescara si può dire la più abruzzese delle città abruzzesi, per un altro lato è l’opposto
della regione di cui assorbe la linfa”
Ricostruzione storiografica della Storia di Pescara. I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato di Pescara
dalla Storia di Pescara di Luigi Lopez e la collaborazione dell’architetto Nino Colleruoli.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com
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