mercoledì 16 ottobre 2024

IL CIBO PER GABRIELE D’ANNUNZIO

Gabriele d’Annunzio non fu certamente un grande mangiatore. Era per l’essenzialità della cucina, si nutriva più di sapori specialmente quelli della sua terra  umili  e semplici quasi volesse spogliarsi dei suoi panni  per riappropriarsi della sua memoria storica e delle proprie origini. 


Il cibo  nel corso della sua esistenza  divenne poi  un ornamento estetico  che  accompagnava  le attività  pratiche amorose  e, dopo averle espletate, chiedeva al cuoco dei piatti speciali  raffinati magari adatti alla carnagione dell’amante. Essendo  dotato di  forte senso estetico  e del colore, i cibi dovevano essere semplici, ma presentati in modo splendido, con cura per l’allestimento del piatto  e con le stoviglie adeguate.  



IL CIBO E L’ABRUZZO 

Ne il  “Libro segreto”  il poeta descrive le giornate vissute nel  Cenacolo di Francavilla con Michetti, Tosti, Barbella e altri amici  caratterizzate  da  momenti  intensi  di  gioia  in  cui  gli  artisti sfruttavano   qualsiasi situazione  anche apparentemente la più ingenua, per divertirsi  e ridere di tutto. Ma era il momento del desinare, in cui si ritrovavano tutti insieme, l’occasione  per le confidenze e per gli abbandoni. La cucina abruzzese all’epoca era povera, per secoli infatti gli unici alimenti erano quelli offerti dalla terra che veniva lavorata con duri sacrifici.


Solo in occasioni speciali, nelle quali erano presenti ospiti di riguardo  e per le nozze che rappresentavano per le famiglie contadine e per l’intera comunità una festa dello spirito ma anche..dello stomaco, l’abbondanza del cibo e il numero esorbitante delle portate rappresentavano  le particolari peculiarità  della nostra cucina regionale.  Per preparare i cibi era stato preso un accordo in base al quale ognuno a turno ne avrebbe preparato uno a sua scelta. Un giorno toccò a Gabriele che non aveva mai avuto dimestichezza con la cucina.            Pensando fosse cosa facile pensò di preparare una frittata. Sì perché le frittate erano il piatto che prediligeva tanto che poi nella sua residenza al   Vittoriale  volle un imponente pollaio. I risultati però furono disastrosi. Il  divertente  episodio viene così descritto  nel Libro segreto: “Nel bel tempo in terra d’Abruzzo, a Francavilla su l’Adriatico, io vivevo coi miei fratelli d’arte accordati in una specie di fratria monda di ogni altra gente estranea, accordati e giurati a cucinare il pasto per turno. In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno e nella gara di nuoto, quando mi fu rammentato con le voci della fame toccare a me la cura della cucina.
Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita ad Ebe e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane. Ruppi trentatré uova del nostro pollaio e dopo averle sbattute. Le agguagliai nella padella dal manico di ferro lungo come quel d’una nostra chitarra da tenzone. Uscii con la padella all’aria aperta, scorsi la nova luna nel cielo, adunai la sapienza e il misurato vigore e diedi il colpo, attentissimo a ricevere  la frittata riversa, la frittata  non ricadde. Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del   novilunio la tunica e l’ala d’un angelo, mi feci di gelo. L’angelo nel passaggio aveva colta la frittata in aria, l’aveva  rapita, la sosteneva con le dita, la recava ai  Beati, offerta di perfezione terrestre.”

“Io mi vanto Gabriele D'Annunzio maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.

Gli artisti francavillesi, abituati a un mangiare parco, quando si trovarono per invito ai solenni e luculliani banchetti, si trovavano in difficoltà.  In una simile circostanza venne a trovarsi Gabriele d’Annunzio per il quale l’esperienza fu quasi drammatica. Nell’estate 1897 il poeta fu candidato alle elezioni per il collegio di Ortona, che lo scrittore aveva accettato perché voleva dimostrare anche  le sue capacità politiche.  La campagna elettorale, che lo vide impegnato contro l’avvocato Carlo Altobelli,  fu particolarmente intensa, e i suoi interventi con la presentazione del suo programma politico, furono molti e occasione  per fare sfoggio delle sue abilità oratorie. Ma la propaganda elettorale allora si accompagnava a banchetti offerti  in cui l’abbondanza della mensa spesso oltrepassava il limite. E a  d’Annunzio toccò presenziare un giorno a pranzo a uno di questi banchetti, in cui sedutosi a tavola a mezzogiorno, a sera inoltrata non aveva avuto la possibilità di alzarsi.


Il menù, secondo l’antica tradizione regionale, era costituito da tantissime portate tra cui  “i tombarelli”, tagliolini rotondi cotti in grasso brodo di gallina, maccheroni alla chitarra, carne di bue e di agnello lessata, vitello arrosto, fritti di pesce e cervelli, animelle, fegato, polli, pizze e taralli, il tutto innaffiato da buon vino. Il padrone di casa, non potendo accettare il disonore che i commensali non accettassero di assaggiare ogni pietanza e, di riprenderne e di bere, aveva messo a guardia un omone armato di fucile  carico di piombo, pronto a minacciare chi volesse provare a rifiutare qualche vivanda. Gabriele era terrorizzato: doveva scegliere tra la morte per indigestione e quella per arma da fuoco. Dopo aver inutilmente tentato di nascondere sotto il tavolo i cibi che gli venivano continuamente serviti,  alla fine, vistosi smarrito, cominciò a piangere e fu colto da svenimento. L’episodio comunque non intaccò i ricordi della cucina abruzzese che si portò dentro sempre nel suo lungo peregrinare e la nostalgia per i tempi lontani, per gli affetti famigliari e per  l’essenzialità delle pietanze della sua terra lo accompagnò ovunque anche durante il suo esilio francese dove da Arcachon scrisse un sonetto in vernacolo dedicato allo scrittore Ettore Janni in cui in modo rimpiange i sapori del suo Abruzzo. Nelle lettere indirizzate alla fedele governante della casa paterna Marietta Camerlengo  il poeta con grande nostalgia per la Pasqua nella sua città e forse con la speranza di poter rigustare quelle tipiche specialità  nei giorni in cui  il ricordo e il rimpianto sono più vivi che mai, le scrive. Sapeva di poter contare su Marietta quando in occasione di una prossima visita alla madre  le  scrive: “Si prepara i fiatuni  di Pasqua le cianchette arrostite sui carboni, sono guarito e la mia convalescenza sarebbe di certo affrettata dalle cianchette e dai roscioli del mio Abruzzo”. Ma  negli anni del  Vittoriale a  casa d’Annunzio  il cibo «diventava  fonte  di  piacere, di coinvolgimento emotivo, di  seduzione, di  bellezza» scrive Giordano  Bruno  Guerri,  presidente  del Vittoriale degli Italiani.

Per quasi vent’anni il  Vate comunicò con la sua cuoca preferita  per mezzo di tantissimi piccoli  biglietti, inviati a ogni ora del giorno e della notte. Messaggi maliziosi, coloriti e affettuosi, indirizzati da d’Annunzio alla fedelissima Albina Lucarelli Becevello, chiamata affettuosamente dal Vate “Suor Intingola”: l’unica donna con cui visse in assoluta sintonia. Nelle  sue missive  il Vate  affidava  le sue imprevedibili richieste culinarie: costolette di vitello, frittata, cannelloni e patatine fritte, pernice , biscotti e cioccolata, ma soprattutto uova sode, sicuramente l’alimento preferito da d’Annunzio, che ne andava così ghiotto da paragonarne gli effetti a quelli di una “estasi divina”. Ma la nostalgia per il suo Abruzzo in quegli anni  si fece sempre  più intensa, gli  amici lo sapevano e cercavano di lenirla con l’invio di  bottiglie di liquore quale: Aurum, Cerasella, Mentuccia di San Silvestro e di dolci tipici come il Parrozzo e il Senza nome che rappresentavano un contatto virtuale con la terra d’origine ormai lontana. Per ringraziare i suoi amici Amedeo Pomilio  creatore dei tre liquori così gli scrive il 29 agosto 1924: “Non ti so dire la mia commozione nel prendere tra le mani la verde fiala de la mentuccia di San Silvestro. Analogo è lo stato d’animo che prova davanti al  Parrozzo dell’amico Luigi D’Amico, tanto da ispirargli questo  sonetto dialettale”. O Ddie quanne m’attacche a lu parrozze, ogne mattine, pe’ lu canna rozze, passa la sise de l’Abbruzze mè”. Ma dall’Abruzzo  aveva ereditato anche l’abitudine a un mangiare parco. Documenti che lo testimoniano sono alcune lettere.

Una di queste del 1927 è indirizzata a Francesco Paolo Michetti a cui scrive: “Certo tu ignori la Regola del Vittoriale. Io abruzzese schietto, da gran tempo ho abolito “l’abbottatura”, esporrò a te igienista antico la mia teoria del digiuno. Per esempio, mentre scrivo, sono digiuno da 38 ore, alla mezzanotte prenderò un lieve pasto”. E digiunava anche nel dicembre 1926 quando D’Amico gli inviò, insieme al Parrozzo, un nuovo dolce perché lo assaggiasse e gli trovasse il nome.“Care Luiggine,  gli risponde, ‘sta  puverelle  de  Carmele ha venute  careche de dolge ‘n che lu nome e senza nome! Tu ha’ da sapè  che i’ facce lu  diggiune de quarant’ore, tutte l’anne e sti cose bbone arrive proprie ‘n mezze a li quarant’ore; e n’n me le pozze magnà. Me li magne dumane matine; te trove lu nome e te scrive”. E d’Annunzio fu di parola.  


I GUSTI  DANNUNZIANI 

Gabriele era astemio, a causa della sua passione per l’acqua di cui proclamava le innumerevoli virtù.    Ma  bevve anche del vino, quando in Francia per il periodo di due anni, fu convinto dai viticoltori della regione sui vantaggi che il  nettare poteva offrire alla sua salute. Adorava la frutta, soprattutto mele cotte o crude, e ne mangiava in gran quantità perché rivestiva un carattere erotico.

Gli piacevano inoltre le costolette d’agnello, le uova sode, le frittate come si è detto, il riso, la carne alla griglia, e ogni sorta di pesci. Non resisteva alla tentazione dei dolciumi soprattutto: le mandorle tostate,  i  marrons glacés e la cioccolata, che sembra ritenesse un eccellente corroborante per gli incontri amorosi. Nei confronti dei gelati aveva una vera mania, e  arrivava a mangiarne fino a dieci di seguito. Rimase  sempre attaccato  alla cucina della sua terra: una terra di pastori  che per lui appartenevano al mondo greco e con  una lingua che lui si rifiutava di chiamare dialetto e definiva latina. Del formaggio del suo Abruzzo diceva “…è tutto nel nostro cacio pecorino. È il cacio nerastro, rugoso, durissimo: quello che può rotolare su la strada maestra a guisa di ruzzola in gioco” e ogni tanto si faceva  preparare ”I maccheroni alla chitarra” quelli che si preparano su un telaio rettangolare di legno di faggio, in cui sui lati lunghi  sono tesi dei sottili fili metallici, che ricordano appunto le corde  della chitarra; in cucina l’apparecchio per prepararli. Ma il Vate ogni tanto, a scopo curativo, digiunava tre giorni alla settimana e fino  all’ultimo  mantenne le abitudini di una dieta ferrea che rispettava scrupolosamente suscitando lo stupore del suo medico Antonio Duse. Questo stile di vita viene testimoniato  nel Libro segreto in cui si intrecciano ricordi nostalgici per i tempi lontani nel suo Abruzzo  che, nel suo esilio dorato   si caricano di un significato particolare: “Sono solo, sono nel colmo del mio digiuno rituale, nella Loggia dell’Apollino è un’ampia coppa di frutti, ci sono pesche stupende che mi ricordane quelle della mia regione: polpa e sugo, sugo e polpa e il sapore che si assottiglia nella buccia per donarsi soltanto al gusto squisito e il nocciolo duro che non è là se non per insegnare la voluttà della durezza inviluppata di mollezza e di succulenza: il nocciolo che serra il veleno, negli anni della casa paterna rotto tra due pietre da me fanciullo periglioso”.

Nel 1937 ebbe forse l’ultima occasione per riassaporare con l’aiuto della memoria, i piaceri della cucina abruzzese. In autunno andarono a trovarlo alcuni politici  della provincia di Pescara e con essi rievocò gli anni  del  cenacolo quando con Michetti, Tosti e Barbella, andava a desinare al Castello aragonese di Ortona. Dopo aver ricordato il brodetto di pesce, le triglie allo spiedo, le pizzelle, le uova cucinate in un tegamino di coccio sui carboni, il discorso si fermò sui maccheroni alla chitarra, a questo punto Gabriele improvvisò una definizione di chitarra, strumento tipico per fare la pasta.“La chitarra pei maccheroni è una specie di arpa cuciniera rettangolare che si suona con le mani in piano orizzontale. Il sistema è monocorde perché le note sono di uguale tono e vibrano facendo cadere fra corda e corda quel caratteristico tipo di pasta ben conosciuta da chi apprezza questo ramo della musica applicata alla gastronomia”. 

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli  

email: mancinellielisabetta@gmail.com

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