lunedì 28 ottobre 2024

L'Abruzzo da scoprire: Rocca San Giovanni e la sua stupenda costa sui travocchi.


Rocca San Giovanni, è un borgo medievale situato su uno sperone roccioso tra la foce del fiume Sangro e quella del torrente Feltrino in provincia di Chieti. Dall'alto dei suoi 155 metri sul livello del mare domina la terra circostante ricca di torrenti , rigogliosa di vegetazione e di colture di agrumi, cereali e vigneti.

Il Borgo di Rocca San Giovanni è stato certificato come uno dei "BORGHI PIU' BELLI D'ITALIA".

Si tratta di un prestigioso attestato dell'A.N.C.I. che conferma il patrimonio architettonico e storico di questo villaggio, che ha conservato, nei secoli, una ricchezza di reperti e testimonianze delle origini.

 

LA STORIA

La storia e le origini di questo centro sono strettamente legate alla vita dell’Abbazia di San Giovanni in Venere. Il primo documento storico in cui viene menzionato l’abitato è un diploma del 1 marzo del 1047 dell’ imperatore Enrico III indirizzato appunto al monastero di San Giovanni in Venere.

L’antico borgo fu fondato nell’ XI sec. da Oderisio I abate di San Giovanni in Venere che fece edificare il castello e pensò di raggruppare le popolazioni sparse per i casolari campestri in una cinta di mura con lo scopo di dare rifugio, in caso di incursioni , sia agli abitanti che ai monaci intorno a Rocca. Inoltre l’abate inizia la costruzione di monumenti e chiese tra cui la Parrocchiale di San Matteo.

Nel 1195 Rocca San Giovanni passò all’Abate Oderisio II, considerato uno dei migliori nel governo del Monastero, tanto che per i suoi meriti insigni fu nominato Cardinale. Agli inizi del 1200 ingrandisce l’abitato, espande le mura rendendole più possenti, fa costruire tre torri quadrangolari e completa la parrocchiale di San Matteo.
Tra il 1346 e il 1381 l’abbazia di San Giovanni in Venere e la Rocca, in lotta con Lanciano, vivono momenti difficili, che si concludono con l’incendio del borgo.
Poi nel 1456, un forte terremoto rade al suolo buona parte delle abitazioni e della cinta muraria. Nel 1530 i pirati turchi compiono incursioni nel paese facendo prigionieri dei giovani, allora Rocca si munisce di torri di avvistamento per prevenirne le loro scorribande. Ma un altro forte terremoto nel 1627 porta morte e distruzione. La cinta muraria viene poi ricostruita ad opera dei Benedettini che si prodigano molto nel loro restauro. ll borgo partecipa ai moti carbonari, ai quali seguono anni di dura repressione.

Giustino Croce, nato a Rocca nel 1838, fu un patriota che si impegnò con grande coraggio alla diffusione degli ideali di un’Italia unita presso le classi meno agiatee nel 1860guida l’insurrezione popolare e strappa il vessillo borbonico. Gli eventi post-unitari furono notevolmente influenzati dalla presenza della famiglia di Giustino Croce e di suo figlio Ettore, infatti a Rocca San Giovanni si costituì un forte contingente di volontari della guardia nazionale che diedero un notevole contributo alla lotta al brigantaggioe si fece promotore per la costruzione del Palazzo municipale di Piazza degli Eroi e per l’apertura della prima scuola elementare in provincia di Chieti indirizzata ai ragazzi analfabeti delle campagne. Morì a Rocca a 55 anni.

Nel mese di aprile del 2011 è stato a lui intitolato il Palazzo Civico su cui è stata apposta una targa in suo onore. Rocca fu pesantemente coinvolta dagli eventi bellici dell’inverno 1943, che portarono alla distruzione di molte case e dell’antica torre a sud del paese, mentre la Chiesa, il campanile e il camposanto furono danneggiati gravemente dagli attacchi aerei. La diffusione del fascismo, dopo il 1922, fu ostacolata dal deputato comunista Ettore Croce figlio di Giustino.

Rocca fu pesantemente coinvolta dagli eventi bellici e liberata da un contingente di truppe canadesi il 3 dicembre 1943, dopo la sanguinosa battaglia del fiume Sangro. Il dopoguerra venne contraddistinto dalla presenza, quale amministratore pubblico dal 1956 al 1976 del dott. Francesco D’Agostino, medico e fondatore della Cantina Sociale “Frentana” . 


IL CENTRO STORICO

Il cuore il “salotto” del paese l’elemento che lo caratterizza e che colpisce il visitatore è l’elegante Piazza degli Eroi considerata la più bella della provincia con il complesso parrocchiale di San Matteo Apostolo, l’attigua torre campanaria e il Palazzo municipale.

La creazione di una piazza centrale grandiosa ed armonica fu concepita nel 1862 demolendo le antiche abitazioni e progettando un Palazzo municipale che doveva superare in altezza la Chiesa parrocchiale per indicare la superiorità del potere civile su quello religioso.

La arredano il complesso parrocchiale di San Matteo con l’attigua Torre campanaria del XIII secolo a pietra viva dalla forma slanciata, unica superstite delle tre antiche torri quadrangolari raffigurate anche sullo stemma del paese e il Palazzo Municipale del XIX secolo di ispirazione classica, sede di un’interessante raccolta di opere d’arte. Discendendo lungo il corso attraverso piccoli pittoreschi vicoli, che un tempo pulsavano di vita, si raggiunge una splendida terrazza panoramica dalla quale è possibile ammirare la valle sottostante 

LA CHIESA PARROCCHIALE

La Chiesa parrocchiale di San Matteo Apostolo, fatta edificare dall’abate Odorisio in stile romanico, è ancora dotata delle originarie arcate gotiche, la sua struttura attuale, risale al 1200.

L’interno si compone di tre navate divise da piloni che sorreggono cinque arcate a sesto acuto per lato e termina ad absidi semicircolari, come a San Giovanni in Venere. Le arcate sono a doppia ghiera, secondo l’uso del tempo; la zona presbiterale, è anch’essa di costruzione moderna, essendo sparita ogni traccia delle antiche absidi. All’interno sono conservati: una statua lignea della Madonna delle Grazie del secolo XIX, una tela Madonna col Bambino di scuola bizantina del XIV secolo e l’affresco dell’Ultima Cena di Amedeo Trivisonno. Per le sue caratteristiche interne la Chiesa di Rocca San Giovanni rimane unica nel suo genere nella zona frentana.

IL PALAZZO MUNICIPALE

La sua costruzione fu iniziata nel 1862 dopo l’unità d’Italia. Di ispirazione classica fu costruito per riaffermare la rinascita delle istituzioni civiche e possiede una caratteristica unica nella provincia di Chieti: è l’unico edificio comunale che e’ stato costruito per fungere effettivamente da Municipio.


Il palazzo è ad impianto quadrato ed in stile neomedievale lombardo. Al pianterreno è sito un porticato costituito da tre archi a tutto sesto, al primo piano tre aperture con arco sempre a tutto sesto, immettono al balcone con balaustra traforata. La parte centrale della facciata è leggermente avanzata rispetto al resto dell'edificio ed è realizzata in blocchi squadrati di arenaria. All'interno una imponente scalinata d’onore immette nell’ampia sala consiliare. Dal 2001 all'interno vi si svolge una mostra di arte contemporanea che raccoglie sculture, pitture ed incisioni poste sullo scalone interno principale e nella sala consiliare.  

LE MURA

Le mura a scarpa in ciottoli di pietra circondavano un tempo l’intero borgo medievale di Rocca San Giovanni e costituivano la cinta fortificata che offriva riparo alle popolazioni del circondario in caso di assedio.

Resti significativi delle imponenti mura della Rocca, culminanti con l’ancora ben conservato Torrione dei Filippini, sono posti lungo via abate Odorisio e testimoniano l’antica funzione del paese: una rocca a difesa dell’abbazia di San Giovanni in Venere.

Delle mura restano oggi solo alcuni avanzi nella parte orientale, che ricostruite nel 1628, sono state successivamente restaurate nel 1970 mentre le altre mura furono abbattute per dar modo al paese di estendersi e abbellirsi. 

IL MARE DI ROCCA SAN GIOVANNI

Rocca San Giovanni non solo è uno dei borghi più affascinanti della costa abruzzese, ma possiede un lido che per la limpidezza delle sue acque ha meritato più volte la Bandiera Blu d’Europa e anche quest'anno ha avuto le 4 vele di Legambiente. Il punteggio le è stato assegnato non solo in base alla qualità delle acque ma anche in base ad altri elementi come la valorizzazione del paesaggio e dei prodotti tipici, la qualità dell’aria e dell’ambiente.


L’aspetto più affascinante di Rocca San Giovanni è quello dei profumi che raggiungono ogni angolo del paese: ulivi, arance, nespole ma anche pini, ginestre e finocchio selvatico che dalle spiagge salgono su per i sentieri verso la collina.

Due sono i sentieri più caratteristici:

Il sentiero della Pineta in un km e mezzo di passeggiata conduce dalla Pineta al Fosso delle Farfalle, passando attraverso un ruscello, piccoli laghetti e una folta vegetazione.
Il Sentiero della Fonte segue il cammino che le donne percorrevano per andare alla Fonte a lavare e rifornirsi d’acqua.

Il lido di Rocca San Giovanni è caratterizzato inoltre da scorci suggestivi sul litorale con sinuose insenature e piccole candide spiagge ciottolose tra cespugli di ginestre e fazzoletti di terra coltivati. La più grande è quella in località la “Foce”: un piccolo gioiello costiero raggiungibile svoltando al chilometro 484-IV della Statale 16 che corre rettilineo per oltre 600 metri e si stende tra l'antico borgo di Vallevò e Punta Torre, dove sorge l'omonimo Trabocco ancora utilizzato per la pesca di novellame e cefali.

Vallevò è uno degli angoli più pittoreschi della costa abruzzese è un lembo di terra stretto fra un mare limpidissimo e morbide colline che si raccoglie in una manciata di case basse affacciate sugli orti, alcuni Trabocchi, e un porto domestico popolato da piccole barche e numerose trattorie che preparano ottime pietanze con il pescato locale. L’entroterra di Vallevò, al pari della costa, offre notevoli motivi di interesse: la morfologia del suolo è infatti caratterizzata dalla presenza di avvallamenti, i cosiddetti Fossi, disposti perpendicolarmente alla costa e solcati da torrenti che ospitano, tra la vegetazione, delle grotte naturali, che furono, durante la guerra, sicuri nascondigli per partigiani e sfollati. Il fosso più interessante nella zona di Vallevò è certamente quello delle Farfalle che segna il confine comunale tra i territori di San Vito e Rocca San Giovanni. Al suo interno, in cui scorrono acque perenni alimentate da piccole sorgenti, è racchiuso uno scrigno inaspettato di bellezze e valori naturali di grande interesse. L’alta e costante umidità permette lo sviluppo di una vegetazione rigogliosa tipica delle più ampie vallate fluviali, ricca di specie arboree e arbustive come pioppi, salici, olmi ma anche il più raro ontano nero e la farnia, una quercia dalle spiccate caratteristiche igrofile. Per quanto concerne il regno animale, invece, comuni sono i mustelidi, in particolare la faina e il tasso, e i piccoli roditori come il moscardino e il topo quercino. Particolare interesse riveste la presenza dell’ormai raro granchio di fiume, il Potamon fluviatile.

 


LIDO: Cavalluccio

Un’altra spiaggia del Comune di Rocca San Giovanni, tra le più belle della Costa dei Trabocchi è quella del Cavalluccio, a metà strada tra Vallevò e Fossacesia Marina; la baia è facilmente raggiungibile: dalla SS 16 seguendo le indicazioni per l’omonimo ristorante "Il Cavalluccio". La spiaggia, lunga circa trenta metri e larga quattro, per lo più sabbiosa, è caratterizzata da un Trabocco ancora in uso e da un grande faraglione chiamato lo scoglione. Sulla sinistra, raggiungibile a nuoto, una caratteristica rimessa per piccole imbarcazioni e tre lunghe scogliere. Alle spalle della baia, imponente, il promontorio sale in verticale verso il cielo offrendo al visitatore uno spettacolo indimenticabile.

EVENTI TRADIZIONI

Il 9 e 14 Agosto si celebrano la festa della natura, la giornata dell'emigrante e il festival della fisarmonica. Rocca San Giovanni è molto frequentata, soprattutto d'estate per i molti eventi musicali teatrali e religiosi che vi avvengono e per le bellissime e grandi spiagge che accolgono i turisti amanti del mare e quelli curiosi di conoscere l'arte della pesca per mezzo dei caratteristici trabocchi. 

I PRODOTTI

Denominata città del Vino, Rocca vanta due cantine La Frentana e la Cantina San Giacomo che producono vini Doc Montepulciano d’Abruzzo e Trebbiano d’Abruzzo. Se i vigneti si perdono a vista d’occhio, gli ulivi non sono da meno: dalle olive Gentile di Chieti si ricava l’olio Dop: Colline Teatine, un fruttato dai sentori erbacei e di colore verde oro. La Costa dei Trabocchi, regala inoltre una varietà tipica di arance.

PIATTO TIPICO

Acciughe o sardine, mollica di pane, aglio, prezzemolo e olio extravergine di oliva sono gli ingredienti per preparare la “palazzole”, piatto tipico della tradizione marinara locale. Il pane va sbriciolato, si tagliano prezzemolo e aglio, si dispone il pesce a strati alternando gli ingredienti e si inforna.

 

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email: mancinellielisabetta@gmail.com


venerdì 25 ottobre 2024

TORTORETO ALTA: un piccolo borgo d’arte.


La cittadina di Tortoreto in Abruzzo è ricca di storia ed arte. Il ritrovamento di resti di villaggi abitativi e di resti di sepolture dà prova del fatto che il territorio di Tortoreto era sicuramente abitato sin dal V millennio a.C. Le sue origini tuttavia risalgono all'epoca romana per un fenomeno di migrazione degli abitanti della costa verso la collina, per rifugiarsi dai pericoli delle aggressioni nasce la "Castrum Salini" di cui parla Plinio II il Vecchio. Salendo dal Lido verso Tortoreto Alta, ai piedi della collina, lungo la strada provinciale, nella zona denominata "muracche" sono venuti alla luce ruderi di una villa di età romana che certamente non è l'unica nella fascia collinare. All'epoca il mare arrivava a lambire la collina e dunque si trattava di una vera e propria villa con vista sul mare con il pavimento a mosaico ed una parte retrostante riservata alle attività agricole. Altre testimonianze di epoca romana sono state individuate nel territorio comunale in contrada Terrabianca : cisterne per la raccolta di acqua piovana e una necropoli e vari oggetti di uso quotidiano quali anfore, monete ed utensili.


IL CENTRO STORICO
Il nucleo storico di Tortoreto Alta, sorse nel periodo pre-medievale. Il luogo, secondo quanto afferma papa Gregorio in una lettera del 602, era ricco di boschi ed adatto alla nidificazione delle tortore, da qui il nome Turturitus (tortore). Situato a 227 mt. sul livello del mare conserva ancora la sua struttura di borgo medievale: una fortezza centrale circondata da alte mura di cinta su cui si alza una magnifica torre la Torre dell'Orologio. Il Torrione, le porte di accesso, le rue strette, il ponte con le caratteristiche volte, testimoniano l’esistenza del castello di Tortoreto. Il centro storico è suddiviso in tre parti: TERRAVECCHIA, TERRANOVA ed il BORGO.

Terravecchia rappresenta il nucleo più antico di Tortoreto, ricostruita, con ogni probabilità, sulle rovine di “Castrum Salini”, divenne un castello fortificato con il ponte levatoio (del quale rimangono le feritoie nella parte anteriore della Torre dell’Orologio), le mura, le torri, i cunicoli sotterranei ed i palazzi del feudatario, le chiese e le abitazioni dei nobili.

Terranova era il castello nuovo con poche porte di accesso, i torrioni agli angoli della città per la difesa e le rue strette per destinare maggiore spazio alle abitazioni.

Il Borgo si sviluppò fuori le mura del castello intorno al 1400, su un crinale e in senso perpendicolare rispetto alla costa: terminava con una terrazza naturale che si affacciava sul mare. Durante il MedioEvo, Tortoreto diviene feudo sotto i normanni; si succedono diversi feudatari fino a quando il territorio dalla fine del 1300, passa sotto il controllo dei duchi Acquaviva. Al termine del loro dominio , Tortoreto passa sotto il controllo del Regno di Napoli fino al 1860, anno dell’Unità d’Italia . Dopo il medioevo, la popolazione inverte il flusso migratorio poiché viene a mancare la necessità di fortificarsi. Si comincia pertanto a costruire nella zona pianeggiante della costa ed intorno al 1800 sorse il primo nucleo abitativo di Tortoreto Lido, lungo l’attuale via Carducci che da Tortoreto Alta porta al mare.

Un gioiello pittorico: La Cappella della Madonna della Misericordia.

Il piccolo borgo di Tortoreto alta, dall’aspetto medioevale, custodisce un autentico gioiello pittorico rinascimentale: la cappella della Madonna della Misericordia: un oratorio, a breve distanza dalla chiesa parrocchiale del paese dedicata a San Nicola di Bari. È il monumento più pregevole della cittadina. Esempio di pittura marchigiana del ’500 in Abruzzo, la cappella della Madonna della Misericordia fu forse eretta, secondo una tradizione locale, nella prima metà del XIV secolo dopo la terribile peste nera che decimò la popolazione europea nel 1348, menzionata anche dal Boccaccio nel Decamerone. Fu edificata come ringraziamento alla Madonna per aver liberato Tortoreto dalla tremenda epidemia, ma la storica Magnanimi la assegna ai primi decenni del XVI secolo: la sua ipotesi tutta rinascimentale sarebbe confermata dall’impianto geometrico della cappella più orientato verso un gusto cinquecentesco.

La cappella ebbe nei secoli un’importanza fondamentale non solo per i tortoretesi ma anche per i pellegrini e gli abitanti dei paesi vicini. Questo viene è documentato da un’altra pestilenza del 1527 e da quanto riferitoci da Vincenzo Bindi ( Monumenti storici e artistici degli Abruzzi, II, Napoli 1889) : “A Santa Maria della Misericordia ricorsero in tale congiuntura tristissima (peste del 1348) i fedeli, e Campli, Teramo, Bellante, Forcella alla celeste Diva innalzarono templi, con confraternite, ospedali ed opere di carità; e tra questi templi, il più cospicuo fu quello di Tortoreto, che manteneva a sue spese un Ospedale e stipendiava dieci cappellani”. Il vicino ospedale era gestito dalla confraternita di Santa Maria della Misericordia e probabilmente tale struttura assistenziale esisteva ancora agli inizi del XIX secolo.


La cappella, di modeste dimensioni, ha una forma rettangolare a navata unica absidata e la facciata, con mattoni a vista e tetto a capanna, presenta un grazioso ma semplice portale in travertino; l’abside invece, è poligonale e suddivisa in nove spicchi esterni. Appena varcata la soglia dell’oratorio si è invasi da un senso di bellezza e misticismo: tutto l’interno dell’edificio è ricoperto di meravigliosi affreschi cinquecenteschi con episodi della Vita e della Passione di Cristo e santi cari alla devozione popolare. Sull’attribuzione del ciclo si è dibattuto a lungo, proponendo il nome del marchigiano Martino Bonfini che li avrebbe eseguiti nel XVII secolo, ma la firma presente nel lunettone della controfacciata indica: “(jacobu)s bonfinus de patrignono (pinxit anno domini md)xxvi die vero mensis septembris”. La paternità degli affreschi è attribuita alla mano di Giacomo Bonfini da Patrignone di Montalto Marche (FM), nativo di Ascoli Piceno e antenato del già menzionato Martino.
La data tuttavia, lascia delle incertezze: non si comprende se indichi l’inizio o il termine dei lavori: l’anno comunque è quasi certamente il 1526.

Lungo le pareti laterali, a partire da sinistra, nella prima campata compare una lacunosa Orazione di Cristo nell’Orto degli Ulivi, seguita dall’episodio della Cattura di Cristo; nella doppia lunetta della controfacciata sono raffigurati Cristo davanti a Caifa e la Flagellazione, mentre in quella contigua troviamo l’Incoronazione di spine, un Ecce Homo e un piccolo riquadro con la Salita al Calvario. Il carattere drammatico degli episodi rappresentati e il colore, sobrio ma elegante, mette ben in risalto gli incarnati dei volti e delle mani dei personaggi sacri con naturalezza, armonia e fusione di tinte cromatiche. La disposizione delle figure è così voluta per accentuare il pathos e la carica emotiva nei confronti dei fedeli. Nella parete destra compaiono , una splendida Natività, molto vicina per caratteristiche e influssi pittorici alla pittura umbra, con particolare riferimento a Pinturicchio, una Santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile dalla grande ruota dentata postale accanto (strumento del suo martirio) , e un San Rocco di Montpellier : la presenza di questo pellegrino francese del XIV secolo, all’interno della cappella, è strettamente connessa al culto della Madonna della Misericordia, che assieme al santo e a San Sebastiano è invocata come protettrice contro la peste e le epidemie. Nella parete sinistra troviamo ancora un San Rocco, una bellissima Madonna della Misericordia di gusto e stile raffinatissimo che si avvicina a quello tardogotico; ai suoi piedi sono rappresentati i confratelli incappucciati, soci del pio sodalizio a lei dedicato, un Sant’Antonio di Padova e un San Giobbe, patrono dei lebbrosi e simbolo della futura risurrezione dei corpi.

Nel grande spazio absidale, quasi come in un grande trittico, sono rappresentati i tre episodi conclusivi della Passione: l’Inchiodatura di Cristo alla croce, il Calvario con l’Addolorata, San Giovanni, le pie donne e San Francesco d’Assisi e la Deposizione. Il Calvario offre un presunto scorcio panoramico di Tortoreto Alta (come si presentava all’epoca del Bonfini), nel quale si riconoscono i campanili, le mura difensive e le porte della cittadina che si staglia sullo sfondo del retrostante mar Adriatico. I tre affreschi si presentano come scenografiche macchine teatrali: la staticità della Crocifissione si contrappone alle dinamiche e coinvolgenti scene laterali, che inducono chi guarda ad un raccoglimento mistico. In alto, nella calotta absidale, sei angeli recano i simboli della Passione e cartigli inneggianti al sacrificio di Cristo. Al centro della volta dai colori vivaci appare, all’interno di un’ampia mandorla, il Risorto attorniato da angeli e nuvole in movimento; nei pennacchi i quattro Evangelisti con i simboli, seduti sopra piccole nubi e la raffigurazione personificata della Bibbia.


I documenti e le immagini sono tratti dall’Archivio di stato e da “Tesori d’Abruzzo”.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

email:mancinellielisabetta@gmail.com

MONTORIO AL VOMANO: mons aureus per i latini. Un borgo dalle antichissime origini.

Il Comune, che ha una estensione di 53,5 Kmq ed un’altitudine di 263 m. E' per la maggior parte collinare e pianeggiante, solo in piccola parte montagnoso. Situato all’imbocco dell’Alta Valle del Vomano, sulla riva sinistra del fiume e alle porte del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il paese si trova sulla via del passo delle Capannelle e fin dall’antichità è stato il punto di transito obbligato nel collegamento tra la costa adriatica e la tirrenica. Il suo borgo, che si snoda tra scorci suggestivi, pregevoli palazzi medievali e monumenti di notevole valore artistico, è un luogo ricco di storia, numerosi sono i tesori culturali che racchiude, vestigia delle varie dominazioni che vi si sono succedute.

ORIGINE DEL NOME

Di notevole interesse artistico sono anche il busto ligneo cinquecentesco di San Rocco e l’Organo settecentesco di autore anonimo (cm. 450 x 370 x 180 ca.): uno strumento di grande rilevanza storico-artistica; alcuni documenti rinvenuti nell'archivio parrocchiale, ne testimoniano la provenienza napoletana e la datazione al 1636, attestandolo come l'organo più antico finora conosciuto in Abruzzo. Altro aspetto molto importante è la sostanziale integrità del corpo sonoro.

La piccola Chiesa di S. Antonio con annesso convento di S. Francesco si trova su un lato della Piazza Orsini. La sua fondazione è ignota ma, per forma e costruzione, si suppone sia stata edificata prima dell'Ordine dei Minori (cioè prima del '500). Inizialmente dedicata a San Francesco, fu consacrata a Sant'Antonio quando sulla porta della chiesa fu scoperta un'iscrizione del Santo. L'interno conserva un'acquasantiera del '500 con animali acquatici nel bacino, mentre la base presenta medaglioni in stile classico, Le vetrate che raffigurano Santa Caterina da Siena e Santa Chiara sono invece più recenti. Ai lati dell'altare maggiore sono i rappresentanti due miracoli del Santo: quello della mula che s'inginocchia davanti al Sacramento e, sulla sinistra, quello di Sant'Antonio morente che viene portato a Padova, opera del teramano Ugo Sforza. Sulla stessa piazza è il Palazzo Marchesale Camponeschi-Carafa, con bel portale e tracce di affreschi nell'interno che risalgono al 1500. All'imboccatura di via del Municipio si notano i due archi dell'antico Palazzo dell'Università di Montorio: poco avanti ,attraverso quella che anticamente fu una delle due porte di accesso al paese, si raggiunge la piccola ma scenografica Piazza della Conserva, con il vecchio lavatoio. Situata anch’essa nel cuore del centro storico la Chiesa degli Zoccolanti venne così chiamata dai montoriesi  per l'usanza dei Frati Minori Osservanti di indossare zoccoli di legno, provocando rumore durante le processioni. Si presenta nell'assetto del 1755, quando Carlo di Borbone la fece ingrandire e restaurare quasi dalle fondamenta, arricchendola di cornicioni, colonne, stucchi e cappelle.  La facciata è semplice mentre l'interno a navata unica è arricchito da un organo ligneo dipinto e da cinque altari lapidei con decori e stucchi in stile rococò. Interessanti i due affreschi dell'altare principale, uno con il Papa che concede la bolla di riconoscimento dell'Ordine di San Francesco, l'altra raffigurante l'estasi del Santo.Suggestivo, infine, il Chiostro un tempo affrescato con immagini di Santi e stemmi gentilizi pitturati da monaci. Nel 1998, sotto la guida della Sovrintendenza, è iniziato un lavoro di restauro che ha trasformato il chiostro inun museo di arte, cultura e tradizione popolare della Vallata del Vomano che raccoglie la collezione privata dell'artista Giovanni Gavioli che in oltre 30 anni ha reperito migliaia di antichi attrezzi della civiltà contadina. Di notevole interesse è la ricostruzione in miniatura degli antichi mestieri e scene di vita quotidiana che sono in gran parte animate e danno uno spaccato della vita tipica delle popolazioni abruzzesi della fine dell'ottocento e i primi anni del novecento riproducendo molti antichi mestieri ormai scomparsi. Nell'antico Borgo si può ammirare anche la piccola ma deliziosa Chiesetta di San Filippo, cui si accede da una scalinata che offre scorci molto suggestivi fra le vecchie case. Proseguendo si notano alcuni pregevoli portali in pietra, fra cui la stupenda facciata quattrocentesca di Casa Catini, con il portale dei leoni dal cui interno, si può ammirare la pittoresca veduta sul corso del Vomano.Su un'altura ai margini dell'abitato è ubicata la Chiesa con annesso Convento dei Cappuccini  fondata nel 1576, ricca di notevoli testimonianze artistiche, fra cui begli altari lignei di cui il maggiore fu intagliato dal famoso fra' Giovanni Palombieri di Teramo, verso la fine del '700. Di grande interesse alcuni monumenti nei dintorni del paese: a  Villa Brozzi  si trova la Chiesa di Santa Maria in Brecciano a navata unica, con soffitto ligneo dipinto a cassettoni, uno splendido ciborio trecentesco e vari resti altomedioevali.
Al di sotto sono stati ritrovati i resti di una villa d'età imperiale; a Leognano, il Palazzo cinquecentesco dei Marchesi Civico, ove nel 1744 nacque Melchiorre Delfico, e la Parrocchiale di San Salvatore, ricchissima di altari di legno intagliato e dorato e di pregevoli tele, in corso di restauro. Di proprietà privata ma visitabile all'esterno, è l'antichissima Chiesa di San Lorenzo situata  lungo la strada che da Teramo conduce a Montorio, ove si sono rinvenute tracce più che cospicue d'epoca romana e resti di sepolcri. Occupata dai Benedettini (si chiamò infatti, per un certo tempo, San Benedetto a Paterno), trasformata in splendide forme romaniche, con stupenda abside, e interno diviso da colonne con capitelli di squisita e originale fattura, e una cripta ad ambulacro, è uno dei monumenti più interessanti dell'intera provincia teramana, sebbene sia tuttora pressoché sconosciuta.
 

Il Tempio di Ercole A circa 7 km da Montorio al Vomano in direzione L'Aquila, si trovano i resti di un rarissimo Tempio preromano dedicato ad Ercole che sorge sull'antica via che conduceva a Roma in posizione strategica. Immerse nel verde dei boschi, le arenarie multicolori e l’azzurro del fiume, queste rovine, costituiscono un importante polo di attrazione turistico- naturalistica.
Montorio è una realtà in continuo fermento, ricca di iniziativa sportive, culturali e artistiche che non si limitano ai mesi estivi, ma si sviluppano nel corso di tutto l'anno, facendo della cittadina sul Vomano uno dei centri più vivaci di tutta la provincia. Di antichissima origine l'usanza di festeggiare il Carnevale morto il giorno delle ceneri, celebrando un vero e proprio funerale. In giugno l'Associazione "Montorio nostra" dà vita alla rievocazione storica della Congiura dei baroni, che trae spunto da una battaglia combattuta a Montorio il 7 maggio 1486 fra i baroni, fautori della restaurazione angioina e le truppe di Alfonso d'Aragona, figlio del re Ferdinando. Si conclude l'ultima domenica di luglio la quattro giorni de La Vetrina del Parco, rassegna completa della peculiarità dei comuni dell'area del Parco nazionale Gran Sasso d'Italia-Monti della Laga, organizzata dell'Associazione Il Chiostro. L'iniziativa, che si completa con momenti legati alla gastronomia locale, alla musica e all'intrattenimento, si arricchisce, ogni anno di novità e appuntamenti interessanti. La stessa associazione organizza, due volte all'anno, il Mercatino dell'antiquariato. Luglio è anche il mese della Rassegna internazionale di musica popolare, nonché della Sagra del cinghiale e della Sagra della trota. Ricco di iniziative anche il mese di agosto: la Spaghettata in piazza, organizzata al fine di raccogliere donazioni a favore dell'Associazione italiana per la ricerca contro il cancro: enormi quantità di spaghetti vengono cucinate in piazza Orsini con i più svariati condimenti e distribuite gratis. A metà agosto si svolge la Fiaccola della Speranza, un percorso podistico che ogni anno va da Montorio ad Assisi per tornare al Santuario di San Gabriele dove la fiaccola accende il tripodo che da inizio alla annuale Tendopoli giovanile. Anche Montorio al Vomano è inclusa, inoltre, nel circuito dell'Estate Laga-Gran Sasso e, per tutto il periodo estivo, le serate sono allietate da manifestazioni e iniziative di ogni genere.L’arte culinaria ha in Montorio una delle località provinciali più apprezzabili. Particolarmente prelibate sono le Trote alla griglia, pescate direttamente nei vivai del Vomano e del Rocchetta, ma le sapienti mani delle massaie montoriesi preparano in maniera sublime gli altri piatti tradizionali, tipici della cucina d'area teramana: sono le crespelle 'mbusse (piatto in brodo), il timballo con le crespelle, i maccheroni alla chitarra con le pallottine, le famosissime mazzarelle, gli arrosti e i formaggi, i bocconotti, la pizza dolce e i dolci secchi tipici di Montorio.

Ci sono diverse ipotesi sull'origine del nome Montorio. La più probabile ha origine dai colli che circondano il paese coperti di lussureggianti coltivazioni di grano, da qui il nome latino Mons Aureus (monte d'oro). Anche il simbolo comunale riporta nella sua iconografia traccia di questa etimologia vi sono raffigurati infatti tre colli con delle spighe di grano piantate sopra.




STORIA

L'attuale assetto di Montorio al Vomano presenta un aspetto medioevale. Le origini della cittadina sono invece di epoca pre-romana come attestano le rovine di un tempio dedicato a Ercole. Si crede che questo possa essere il sito dell'antica Beretra, menzionata dai geografi d'età classica (altri studiosi ritengono invece che Beretra sia l'attuale Civitella del Tronto). Nel Medioevo la località diventa Mons Aureus, da cui l'attuale denominazione che trova conferma nei resti di insediamenti rustici di epoca romana rinvenuti . Il più antico nucleo dell'attuale abitato si costituì probabilmente intorno all'XI secolo e si ampliò notevolmente nel corso del Trecento. Nel XV secolo, per concessione di Alfonso I d'Aragona, fu data in feudo a Pietro Camponeschi di l'Aquila. Passò in seguito, per via di matrimonio, ai Carafa di Napoli, e quindi all'altra famiglia napoletana dei Caracciolo. Dal 1596 al 1761 l'ebbero in feudo con titolo marchionale i Crescenzi di Roma e, infine, i Marchesi di Santo Spirito di Napoli.


IL CENTRO STORICO

Vi si entra per il Corso che immette nella vasta, vivace e bella piazza Orsini l’antica piazza del Mercato, su cui si affaccia la cinquecentesca Parrocchiale di San Rocco con la Collegiata che venne fatta edificare a partire dal 1527 dalla contessa Vittoria Camponeschi. La chiesa ha una duplice facciata, una in pietra e una a mattoni e ad intonaco. Vi si aprono due portali, uno di forme tardo rinascimentali (1549) e l’altro, barocco, del 1633. Nell’interno sono custoditi 4 monumentali altari lignei settecenteschi intagliati e dorati con statue e due preziosi dipinti d’epoca uno del 1530 raffigurante la  Resurrezione  e  l'altra, del 1607, L'Ultima Cena.


PERSONAGGI

A Leognano di Montorio nacque nel 1744 il grande filosofo,studioso ed economista  Melchiorre Delfico, più noto come personalità teramana. Fra i tanti protagonisti della storia civica e artistica d'Italia che ebbero i natali a Montorio ricordiamo il violinista Giovanni Falchini (nato nel 1790); Francesco Marcacci (1844-1960), maestro di musica e compositore di grande talento, e padre Odorico D'Andrea (1916-1990), missionario in Nicaragua per il quale sta per aprirsi il processo di beatificazione. Fra i contemporanei merita, inoltre, di essere citato il regista Tonino Valeri, autore di numerose pellicole di successo.


ARTIGIANATO ARTISTICO

Stupendo è il Presepe  ideato in ambiente suggestivo dal montoriese Giovanni Gavioli, e aperto al pubblico durante il periodo natalizio e fino a tutto gennaio: centinaia di figure, vestite nei costumi tradizionali dei propri mestieri, che in un paesaggio mirabilmente illuminato e costellato di case, mulini in movimento, costituiscono un capolavoro di genialità. Gavioli è noto anche per aver raccolto manufatti della tradizione popolare locale che sono in mostra ,come già detto, nel Chiostro della Chiesa degli Zoccolanti trasformato in Museo di arte e tradizioni popolari.


MANIFESTAZIONI E FOLKLORE

Nella prima settimana di settembre si svolge la Festa di San Rocco, patrono di Montorio, e della Madonna del Ponte. Annualmente si tiene una Rassegna di cinema d'autore che richiama un pubblico numeroso anche oltre i confini di Montorio al Vomano. Esiste, inoltre, già da qualche anno un Centro di aggregazione per la riduzione del disagio giovanile che propone sempre iniziative nuove e di interesse. Il Centro organizza corsi di formazione artistica (musica, pittura, teatro, ecc.) per i ragazzi dell'intera area territoriale che circonda Montorio e, periodicamente, mette in scena spettacoli e mostre che raccolgono un grande consenso di pubblico.


GASTRONOMIA

Evento Dal 27 al 29 giugno 2014 si svolgerà a Montorio al Vomano la terza edizione di "Weekend’Arte" tre giorni dedicati alla creatività artistica in tutte le sue forme con un ricco programma. Momenti di pittura, musica, scultura, fotografia, teatro, cultura, fumetto, spettacolo, artigianato, antichi mestieri, riciclo, sport e tanto altro animeranno con esposizioni e dimostrazioni dal vivo molteplici spazi dell’intero tessuto urbano. Tra le innovative proposte dell’evento ci saranno il "Weekend in Comics" dedicato al fumetto nel Chiostro degli Zoccolanti, tre concorsi di cake design, fai da te e moda, un’estemporanea di pittura lungo le strade del centro cittadino, e lo "Spaziotempo Letteratura" presso la Fonte Vecchia, gestito dal gruppo "Poesie Vaganti", che organizzerà letture e presentazioni delle opere degli autori e giornalisti abruzzesi Marirosa Barbieri, Vittorina Castellano, Lucia Guida, Elisabetta Mancinelli, Daniela Quieti e Cinzia Maria Rossi nel duplice ruolo di scrittrice e coordinatrice degli interventi. L’iniziativa è stata presentata in conferenza stampa dall’assessore alla Cultura e Turismo del Comune di Montorio al Vomano, da Alfonso Di Silvestro, da Monica Procaccini presidente dell'associazione promotrice "Weekend’Arte" e da Fabrizio Veroni tesoriere dello stesso sodalizio.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli

e-mail: mancinellielisabetta@gmail.com



mercoledì 16 ottobre 2024

LA STORIA DI PESCARA


La storia di Pescara, che appare giovane dal punto di vista culturale, è poco conosciuta ed alcuni periodi del suo passato sono ancora avvolti nell’oscurità. Tuttavia le origini della città sono molto antiche e legate alla sua posizione favorevole in quanto raccordo delle vie di comunicazione tra l’antica Roma e l’area dell’Adriatico. Probabilmente il primo insediamento avvenne intorno al Colle del Telegrafo (chiamato così per la presenza del vecchio telegrafo) alto circa 140 metri e situato a un chilometro dalla costa. Dopo un mese di scavi (giugno-luglio 2005), sono emersi reperti risalenti a seimila anni fa. I lavori, condotti sul pianoro del Colle del Telegrafo dalla Sovrintendenza per i Beni Archeologici per l’Abruzzo diretti dal prof. Staffa, hanno dedotto che i vari rinvenimenti sono riferibili ad un insediamento popolato nella protostoria (secondo periodo preistorico compreso tra l’età del bronzo e quella del ferro) ed in età romana. Risalirebbero invece alla prima metà del V millennio i resti di un villaggio di agricoltori ritrovato a Fontanelle Alta nella parte a sud del fiume Pescara. Non possediamo dati stratigrafici, a causa di un’aratura profonda che distrusse l’insediamento (scavi 1977), ma sono stati evidenziati nella zona interessanti caratteri di novità rispetto al quadro culturale del Neolitico abruzzese a ceramica impressa. Infatti resti di Ceramica figulina e un frammento dipinto mostrano, accanto al repertorio dei motivi tipici dell’area abruzzese-marchigiana, elementi decorativi peculiari di quella apulo materana. Mediante documenti raccolti dalla Provincia e dalla Sovrintendenza archivistica di Pescara si è cercato di ricostruire il percorso storico della città, anche se, come abbiamo detto, alcuni momenti del suo passato sono ancora molto incerti. Situata nella pianura, sul litorale adriatico, tra i colli Pizzuto, Caprino e Telegrafo, Pescara ha avuto il suo nucleo antico alla foce del fiume omonimo. Probabilmente i primi abitanti vennero, attraverso il mare Adriatico, dalle sponde orientali e fondarono il villaggio. Il primo popolo che comprese l’importanza strategica della posizione dell’agglomerato è quello dei Vestini, che allestirono un efficiente porto utilizzato anche dai Marrucini e dai Peligni. Ma l’abitato aumentò il suo prestigio solo in seguito alla conquista da parte dei Romani, si sviluppò , venne chiamato Vicus Aterni e, poiché sia la città che il fiume erano una porta verso l’interno e Roma, gli fu attribuito il nome di Ostia Aterni. Scavi condotti dalla Sovrintendenza archeologica d’Abruzzo (1990-1999) hanno rivelato, dopo secoli di incertezza, l’esatta ubicazione della città romana dalla curiosa pianta a triangolo allungato probabilmente derivante dalla posizione del centro all’incontro fra la più antica via di fondovalle Pescara ed il nuovo tracciato della via Claudia Valeria realizzato nel 48/49 dall’imperatore Claudio. Secondo sempre le rilevazioni del dottor Staffa lungo il Pescara, al Bagno Borbonico e a Piazza Unione è stato messo in luce un tracciato viario antico poi ripreso da via delle Caserme, tratto terminale di un antico itinerario naturale che giungeva in città sul crinale della propaggine collinare a sud del fiume. Allineati con la strada erano resti di abitazioni, magazzini, taberne (sec. I a.C. II d.C.) rilevati dagli scavi e oggi visibili solo al piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo e nella cantina del Ristorante Taverna 58 a Corso Manthonè.  Di origine antica appaiono anche Corso Manthonè e via del Bastioni oltre ad almeno parte del reticolo viario di impianto regolare che li collegava a via delle Caserme. I documenti reperiti dalla Sovrintendenza Archivistica di Stato e dalla Provincia testimoniano quanto segue: Da Ostia Aterni si raggiungeva Roma attraverso tre importanti vie: la Claudia Valeria, la Tiburtina e la Salaria. Nella città esistevano importanti edifici pubblici e privati, c’erano diversi templi tra cui quello dedicato a Giove Aternio e anche il culto della dea Iside. Vi sono diverse attestazioni di questo culto trovate in due iscrizioni incastonate nel 1700 su un muro nella zona di Rampigna e in un cortile di Villa De Riseis che sono conservate nella Biblioteca provinciale di Chieti. Inoltre dei frammenti di un bassorilievo raffigurante la dea egiziana sono emersi recentemente nei pressi del porto canale, sulla sponda nord. Il fiume, in mezzo al quale c’era una piccola isola, era scavalcato da un ponte monumentale costruito per volontà dell’imperatore Tiberio che volle anche il restauro del porto per gli scambi commerciali con l’Oriente. Con la caduta dell’impero romano, all’epoca dell’invasione longobarda intorno all’anno 1000, Aternum cambia di nuovo il suo nome e diviene Piscaria. Questo toponimo sostituì il vecchio nome gradualmente prima tra i locali e poi anche negli atti ufficiali e designava un sito particolare: un luogo adatto alla pesca e comunque ricco di pesci, un mercato del pesce o il luogo di esazione dei diritti di pesca. Anche il fiume si chiamò Piscarius. La città, pur distrutta e ricostruita più volte, riveste sempre grande rilievo per la sua posizione strategica e le sue robuste difese militari. Aveva anche un vescovo: Cetteo che esercitò la sua carica dal 568 al 597 quando cadde vittima della ferocia dei Longobardi che, essendo ariani, osteggiavano tutti i cattolici ma, in particolare, la sua gerarchia. Il suo corpo fu recuperato alla foce del fiume e da quel giorno divenne patrono di Pescara. Il porto conservò piena funzionalità sino alla tarda età imperiale quando fu oggetto di interventi di restauro sia all’epoca della Guerra Greco-gotica (538-560) che alla fine del VI sec. restando a lungo parte di una vasta rete di scambi commerciali; dagli scavi condotti in città oggi visibili al piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo ed all’interno del negozio Emilio Sport a Corso Manthonè 53 provengono infatti, tra l’altro, frammenti di vasi in ceramica fine da mensa di importazione africana ed orientale, contenitori cilindrici della tarda età imperiale provenienti da Samo, Gaza e dall’Asia Minore. Ancora, dagli scavi diretti dal dott. Staffa, si evince che probabilmente, in seguito ad un devastante incendio correlabile alla conquista longobarda (fine VI sec.), dovette seguire la realizzazione da parte dei Bizantini di una cinta difensiva affiancata da un Castellum ed il ripristino di parte dell’abitato dell’area del Bagno Borbonico, anche se la città romana andava trasformandosi in un ben più ristretto borgo di capanne e case di terra. Progressivamente furono demolite le strutture fatiscenti, persistettero in muratura solo alcuni edifici religiosi e forse civili infatti, nelle adiacenze di Casa D’Annunzio e al Bagno Borbonico, sono stati trovati resti di alcune case del VII sec. con pianta rettangolare, strutture portanti in pali, pavimenti in terra battuta e ghiaia e semplici focolari a terra.

Il dominio bizantino a Pescara andò protraendosi sino 660-670 ma l’attività portuale dovette proseguire senza soluzioni di continuità per tutto l’alto medioevo come provato sia da alcuni documenti del IX sec. sia dal rinvenimento in via delle Caserme di un livello stradale di terra nera che copriva le darsene venute alla luce nel 1999. Intorno al 1095 Piscaria era ricca di monumenti e templi. Tra quelli più rilevanti si possono citare la più nota Santa Maria di Gerusalemme, sorta sui resti di un possente edificio tardoantico del III –IV secolo d.c., i cui basamenti sono stati riportati alla luce nella zona della Cattedrale attuale di San Cetteo e frammenti di essi sono visibili attraverso una vetrata in via Gabriele D’annunzio. Vi erano anche altre chiese: San Salvatore, Santi Legunziano e Domiziano, San Tommaso Apostolo e San Nicola. Nell’anno 1140 Pescara fu conquistata da Ruggero re normanno di Napoli che fece eseguire diverse opere, tra cui quelle del restauro del porto. Ma gli anni successivi furono caratterizzati da rovine, distruzioni e scorrerie e il dominio di diversi signori tra cui i D’Avalos nel primo decennio del 1400 e il capitano di ventura napoletano Giacomo Caldora (1435-1439). Il periodo più fiorente della sua storia iniziò quando con l’aiuto di Carlo V re di Spagna furono reintegrati i D’Avalos nel marchesato di Pescara attribuito alla Marchesa Vittoria Colonna. Gli Spagnoli nel 1510 per proteggere l’accesso al Vicereame dall’Adriatico avevano dato l’incarico all’architetto Erardo di Barbeluc di progettare una Fortezza a cavaliere del fiume.
In quegli anni le opere di difesa di Pescara erano dunque costituite da una Torre a presidio del ponte, dal Castello a protezione della porta aperta sul mare nel punto opposto al ponte e da semplici mura che disegnavano uno stretto trapezio attorno all’abitato sulla destra del fiume. Come emerge da un atlante conservato presso l’Istituto storico italiano che raffigura la Fortezza appunto con una pianta di pentagono irregolare e cinque bastioni ai vertici, tutti sulla riva destra. Successivamente però, a causa dello scontro prolungato per secoli tra Spagna e Francia emerse la necessità di rafforzare queste modeste opere di difesa, modeste in relazione al rafforzamento delle artiglierie, che aveva sostituito alle enormi palle di pietra il martellamento con palle di ferro alle quali si poteva resistere solo con la costruzione di torrioni bassi e larghi e terrapieni. Furono così aggiunte nuove e più solide fortificazioni sulla destra e si aggiunsero sulla sinistra due bastioni raccordati da cortine. Soltanto nel 1557 acquistò una efficace consistenza. Normalmente era presidiata da una guarnigione ridotta e servì come luogo di concentramento di truppe in caso di guerra. Nel 1566, durante la scorreria turca di Pialì Pascià in Adriatico, fu un valido baluardo ed impedì l’occupazione della città, sola tra gli abitati della costa ad essere risparmiata. Nel 1600 venne costruita la Caserma di fanteria tuttora esistente (Museo delle Genti e Genio militare) Il piano inferiore della caserma fu adibito in parte a magazzini ed in parte a carcere. Sulla riva sinistra del fiume, a Rampigna, venne costruita la caserma per la cavalleria, con una scuderia capace di ospitare un centinaio di cavalli. La protezione offerta dalle imponenti mura, che si continuarono a costruire e perfezionare per tutto il 1600, offrì a molti la possibilità di vivere e commerciare e più tardi acquisì anche il diritto ad ospitare una fiera franca con tutti i vantaggi derivanti dal fatto di potere attirare i commercianti. Si ebbe così un ripopolamento della riva destra del fiume ma anche lo sviluppo della riva sinistra di Castellammare, dove i d’Avalos misero a cultura nuove terre e strinsero rapporti di lavoro con numerosi nuovi coloni.
Sappiamo da documenti del 1600 che gli abitanti delle due rive costituivano una sola “Università” come si diceva a quel tempo cioè un solo comune retto da un solo governo locale. Ciò viene confermato dal fatto che fonti dell’epoca definiscono i due insediamenti con i nomi di Piscaria Citra (la parte a sud del fiume) e Piscaria Ultra (l’area settentrionale) a dimostrazione che i due luoghi , pur nelle loro differenze sociali economiche e urbanistiche, hanno forse avuto una storia meno separata dal fiume di quanto si creda. Così il Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700". Agli inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova) a sud del fiume e Castellammare sulla sponda nord e contava circa 3000 abitanti”. Le battaglie per la conquista della Fortezza non erano terminate. Durante la guerra di successione spagnola nel 1707, fu attaccata dagli austriaci del conte Wallis e, a difenderla, c’era Giovanni Girolamo 2° duca di Atri, che resistette eroicamente per due mesi prima di capitolare. Così il regno di Napoli e la cittadina di Pescara passano agli Austriaci, ma già nel 1734, la Fortezza viene nuovamente assediata dagli spagnoli di Carlo di Borbone e, dopo una cruenta battaglia, cede alle truppe comandate dal duca di Castropignano. Con l’avvento della Repubblica francese, la fortezza di Pescara viene conquistata, nel dicembre del 1798, senza spargimento di sangue, dal generale Duhesme ed inizia così la breve stagione della Repubblica Partenopea.
Al suo arrivo a Pescara, il generale Duhesme aveva organizzato la sua legione nominandone a capo Ettore Carafa conte di Ruvo (sopra) protagonista della Repubblica Napoletana assieme al pescarese Gabriele Manthonè (sotto) il quale seppe organizzare una valorosa resistenza alla reazione borbonica del 1799.
Sia Carafa che Manthonè, tradotti a Napoli, vennero impiccati nella Piazza del Mercato. L’ennesimo assedio alla fortezza fu vittoriosamente portato al termine da Giuseppe Pronio detto il “Fra Diavolo abruzzese”, agli ordini del cardinale Ruffo fedele ai Borboni. Nei primi anni del 1800 Pescara venne occupata nuovamente dai francesi e costituì un importante presidio militare del regno di Giuseppe Bonaparte. Intanto Castellammare, sulla sponda nord del fiume diventa comune autonomo aggregato al circondario di Città Sant’ Angelo.
Nel 1814 Pescara fu tra le città protagoniste dei moti carbonari contro Gioacchino Murat, re di Napoli. E fu a Pescara non a Rimini, che Murat firmò il 12 maggio del 1815 la prima delle Costituzioni italiane del Risorgimento”. La Fortezza, ritenuta all’epoca “Porta d’Abruzzo e chiave del Regno” venne restaurata dai Borboni tra il 1820 e il 1840 e nel 1831 vi fu istituito, al piano terra della caserma di fanteria, il bagno penale nel quale languirono gli sfortunati compagni di Carlo Pisacane ed altri patrioti. Così il Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700”. Agli inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova ) a sud del fiume e Castellammare sulla sponda nord e contava circa 3000 abitanti durissima fu la repressione borbonica, simboleggiata dal Bagno Penale di Pescara. Si trattava di un carcere tristemente famoso per le condizioni disumane con cui venivano trattati i detenuti, in buona parte patrioti abruzzesi: drammatica fu in particolare l’alluvione dell’ottobre 1853 che investì il carcere causando la morte per annegamento degli internati. Tra coloro che furono rinchiusi in quello che veniva chiamato “il sepolcro dei vivi” vi fu anche Clemente De Caesaris, una delle figure centrali del Risorgimento meridionale, che, liberato per ordine di Giuseppe Garibaldi, prese possesso, nel 1860, della città e della Fortezza. Nello stesso anno,Vittorio Emanuele 2°, in viaggio per l’incontro di Teano con Giuseppe Garibaldi, giungendo sull’attuale Colle del Telegrafo, da cui si dominava il territorio dell’attuale città, fu sentito esclamare: ‘Oh che bel sito per una grande città."

“Il 12 marzo del 1863, nasceva a Pescara Gabriele D’Annunzio; nello stesso anno, e precisamente il 16 maggio del 1863, alla presenza di Vittorio Emanuele 2° fu inaugurata la stazione ferroviaria di Castellammare, sulla linea adriatica e nel 1867 l’antica Fortezza venne smantellata: si tratta di due eventi fondamentali per lo sviluppo della città, che abbandona il suo ruolo di bastione militare in favore di una definitiva vocazione per il commercio e le attività economiche. Negli anni successivi e, in particolare, ai primi del Novecento, Castellammare e Pescara si sviluppano demograficamente ed economicamente. Ma i problemi delle due cittadine erano diversi: la ferrovia, la piazzaforte e soprattutto la costruzione di un ponte che finalmente unisse in modo sicuro e stabile le due sponde dopo il crollo definitivo dell’antico ponte romano in muratura. A proposito di questo ci furono molte polemiche tra Pescara e Castellammare tra i dirigenti divisi tra coloro che continuavano a rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con gli “odiati” cugini e coloro che cominciavano ad auspicare in maniera concreta una futura riunificazione dei due centri.
Oggetto della contesa fu l’ubicazione del ponte di ferro ( che durò fino al 1933 quando fu costruito il ponte in pietra, detto “Littorio”). C’era infatti chi voleva sorgesse a monte del fiume, per rimarcare la divisione con i teramani della sponda settentrionale; chi invece lo auspicava sulla direttrice di una delle vie principali di Castellammare (come poi avvenne): Corso Vittorio Emanuele II ancor oggi arteria principale e congestionata della città, per stabilire un contatto decisivo tra le due rive.
Inoltre vi erano gravi carenze cittadine riguardo l’igiene pubblica, le infrastrutture sociali, gli ospedali, le scuole, l’acqua corrente e potabile. Molte di queste opere vennero timidamente avviate tra cui l’assistenza ospedaliera degna di questo nome anche se di essa si potrà veramente parlare solo nel 1934. Questo era il contesto, ancora segnato da evoluzioni fino alla vigilia del 1914. Su tale situazione giunse la Grande Guerra durante la quale (maggio 1917) sulla sponda castellammarese si ebbe un’incursione aerea austriaca che, se provocò pochi danni materiali, fece comprendere come "la grande storia" si preparava ad affacciarsi in modi non sempre pacifici, nella vita dei due abitati. 


 LE DUE PESCARE 

Nei primi decenni del 1900, appena dopo la prima guerra mondiale, alla foce del fiume Pescara esistevano, come abbiamo già visto, due cittadine molto diverse tra loro. A sud la più antica, ora Portanuova cresciuta sui resti della fortezza cinquecentesca che presidiava all’unificazione delle due cittadine ed alla elevazione a provincia, ma alcuni dissidi ed interessi politici e la campanilistica rivalità tra i cittadini delle due sponde, talora violenta, ritardarono l’evento. Gabriele D’Annunzio illustrò bene il conflitto definito “guerra del ponte” tra le due progenie i cui rapporti erano da sempre caratterizzati da antagonismo e gelosia.

“Un’antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e rappresaglie, l’una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell’altra. E poiché oggi è prima fonte di prosperità la mercatura, e poiché Pescara ha molta dovizia di industrie, i Castellammaresi da tempo mirano a trasferire i mercanti su la loro riva con ogni sorta di astuzia e di allettamenti” il fiume e la statale 16 Adriatica all’innesto della via Tiburtina Valeria, sbocco della più importante valle d’Abruzzo. A nord del fiume, nella stretta fascia di terra che si allunga tra le colline e il mare, si era invece sviluppata dal 1806, prendendo a fulcro il santuario della Madonna dei Sette dolori, Castellammare Adriatico che, con l’arrivo della ferrovia e la costruzione della Stazione (1863) aveva avuto un certo sviluppo. Commerciale, artigianale e “popolare” Pescara borghese, signorile e turistica Castellammare Adriatico, ancora al principio del XX secolo, scandita dalle grandi ville dei possidenti. Castellammare e Pescara appartenevano rispettivamente alla provincia di Teramo ed a quella di Chieti. Già si pensava Per la qualificazione degli abitanti delle due sponde e per la nascita della nuova provincia ci furono moltissime trattative, volte a stabilire soprattutto la denominazione della nuova comunità. Era chiaro a tutti che l’unione dei due comuni avrebbe sicuramente determinato il loro rapido progresso, sia dal punto di vista amministrativo ed economico che industriale e commerciale. Si cercarono faticosi compromessi volti a chiamare la città unificata “Aterno” o a coniare la nuova denominazione di Castelpescara. In verità l’influenza di Gabriele D’Annunzio sul duce portò quest’ultimo a dire che mai avrebbe sacrificato sull’altare della pace il nome del luogo natale del poeta. E così fu Pescara. E con l’unificazione ci fu la contestuale promozione a Provincia. Il 6 dicembre 1926 Mussolini così telegrafò a D’Annunzio che si trovava a Gardone Riviera: “Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di Provincia. Te lo comunico perché credo che ti farà piacere. Ti abbraccio”. E D’Annunzio rispose: “Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara, ringiovanita, diventerà sempre più operosa e ardimentosa per dimostrarsi degna del privilegio che oggi tu le accordi. Ti abbraccio” . E il Poeta così telegrafò lo stesso giorno al Sindaco di Pescara Umberto Ferruggia “Il Primo Ministro graziosamente mi comunica che oggi ha elevato la mia Pescara a capoluogo di Provincia. Sono certo che Pescara con moltiplicata operosità si mostrerà degna del privilegio. Mando a tutti i miei concittadini il più lieto e fiero saluto”. Dopo l’unificazione di Castellammare Adriatico e Pescara è rimasta famosa la frase del Vate per placare gli animi dei contendenti. "Sono Castellammarese da sempre, non meno che Pescarese” Pescara nei primi decenni del 1900 da “Era Pescara” della Sovrintendeza Archivistica d’Abruzzo “A Castellammare (a destra) originariamente c’erano tre o quattro forni come “Tambrucc”(in via Mazzini) e “Marcucc”(dietro Piazza Sacro Cuore). Poi in via Venezia arrivò "Marcantonio" che proveniva da Colle Marino. Al padrone gli si diceva “lu delegat” perché con quei baffoni sembrava un delegato militare. C’erano anche degli artigiani : fabbri e ramai che lavorava- no intorno a Largo Scurti, vicino all’attuale mercato coperto. Dietro la ferrovia, dalle parti di via Michelangelo, c’era una famiglia di ramai che veniva da Spoltore. In quegli anni Pescara esercitava pur sempre il suo fascino. Con l’auto a noleggio si pagava 5 lire per raggiungere Castellammare. E dopo il lavoro, specie la domenica in alternativa al ballo, c’erano gli spettacoli del teatro Pomponi. Costruito nei primi anni del Novecento dall’imprenditore Teodorico Pomponi, pur tra mille ostacoli e traversie, il cinema teatro si era rivelato un ottimo investimento. D’estate i villeggianti a Castellammare facevano la fila per assistere agli spettacoli delle migliori compagnie dell’epoca. Si davano proiezioni cinematografiche e, nell’intervallo, il varietà o l’avanspettacolo. Ma allora il Pompon (a sinistra) i ospitava la lirica e l’operetta. I fregi, lampadari, gli stucchi in schietto stile liberty, le poltrone in velluto rosso ne facevano un locale prestigioso. Dal balcone dell’edificio che dava sulla piazza (oggi parcheggio di auto) parlarono, specie nel dopoguerra, uomini politici di grido in comizi accalorati. E c’era anche il circolo universitario dove i liceali tentavano agli inizi degli anni sessanta di organizzare feste da ballo, ma l’avvenimento più strepitoso fu quando a Castellammare, ormai diventata tutt’uno con Pescara, giunse nel 1930 il primo film “ parlato”: “La canzone dell’amore” del regista Girelli e poi uno di Petrolini. Si fece la fila per assistere alle proiezioni.” Aggiunge Giuseppe Quieti in “Pescara città antica”: “All’angolo tra via Leopoldo Muzi e Viale Bovio c’era il vecchio Municipio di Castellammare Adriatico (ora Palazzo Mezzopreti sede del Conservatorio "Luisa D’Annunzio"). Se adesso si distingue “Centrale” da “Portanuova” è per via dei due scali ferroviari. I signori che abitavano una volta a Pescara non hanno voluto far mettere la stazione, perché dicevano che il fumo delle motrici dei treni anneriva la facciata dei loro palazzi. Così hanno fatto la rovina di Pescara e la grande fortuna di Castellammare, che invece ha approfittato subito dell’occasione e si è sviluppata alla grande costruendo gli alloggi per i ferrovieri e gli alberghi e i ristoranti per i viaggiatori” Michele Cascella nei “Ricordi pescaresi “così descrive la città sempre nei primi decenni del 1900 “A Pescara, in quei tempi, D’Annunzio era nell’aria come il calore e il colore delle stagioni; viveva nelle pietre del campanile di San Cetteo, sotto l’arco di Porta Nova, davanti all’arsenale fra i cannoni in disarmo dei pescatori… C’erano le vele presso la foce, le paranze, le primavere sul colle San Silvestro, i trabocchi. La città era piccola, antica, borbonica con le sue vecchie mura con le sue tre chiese: San Cetteo, il Rosario, il San Giacomo. Tutte e tre in fila su una delle tre strade principali, il panificio militare, la finanza, i ritrovi preferiti dai militari con l’immancabile famosa “bionda”, i viaggiatori di commercio dell’Albergo Rebecchino, le ferrovie con i treni della notte sul ponte metallico e poi gli odori e i rumori, il sapore dell’acqua torbida che mi dissetava d’estate, col maniero direttamente dalla conca che una donna portava ogni mattina e l’odore del catrame per la concia delle barche ,le reti, le voci del mercato del lunedì.” Lo stesso Gabriele D’Annunzio ne “La vergine Orsola” rievoca con straordinaria efficacia l’atmosfera invernale di piazza Garibaldi: “Un vivo baglior bianco rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell’Arco di Portanuova :il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d’iridi all’altezza della stanza. Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell’Arco di Portanuova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l’erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant’Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano” L’Arco di Portanuova altro non è che il rudere della non finita chiesa di San Cetteo. Nella facciata un grande arco a tutto sesto sormontato da un timpano triangolare e da un fastigio incompiuto era affiancato da due coppie di lesene toscane. All’interno dell’edificio, a pianta circolare aveva imponenti semicolonne di ordine corinzio. La chiesa di San Cetteo chiudeva la piazza a meridione. Di essa il Vate ne “La guerra del ponte” da “Le novelle della Pescara” dice: “.. ‘l’umile costruzione sta quasi come un monumento della Patria, ha quasi in sé la santità delle cose antiche e dà agli estranei indizio di genti che ancora vivono in una semplicità primordiale". Intanto erano anni in cui Pescara desiderava estendere i confini in nome del sogno dannunziano a cui tutti sembravano partecipare, amministratori e intellighentia dell’epoca, tra cui Antonino Liberi che ipotizzava per la Pineta una città- giardino. Si pensava di costruire una Pescara raffinata e luminosa, moderna e aristocratica, il posto ideale per gente che, sistemato l’aspetto economico, avesse tempo e disposizione a coltivare i piaceri dello spirito. Già dal 1862 il passaggio della strada ferrata aveva, se non proprio compromesso, almeno dimezzato l’estensione della Pineta, ma in compenso ne aveva sfatato la leggenda di area malsana e paludosa, dimostrando concretamente la possibilità di pervenire ad una bonifica pressoché totale che trasformasse la città creandole una vocazione turistica e balneare. PESCARA dal 1930 al 1946 Divenuta la quarta provincia d’Abruzzo la città si trovò a dover fronteggiare esigenze impellenti: uffici ordinari di ogni capoluogo, uffici di competenza regionale ma anche tante necessità del vivere civile. Le strade delle due cittadine erano bianche e polverose, quelle della vecchia Pescara erano ampie e rettilinee ma tutte lasciavano a desiderare non essendo asfaltate. La pavimentazione e il sistema fognario inesistente. Quest’ ultima era una spesa assolutamente indilazionabile per l’igiene e la pulizia della città se una franca testimonianza di Filandro De Collibus recitava così: "Un giretto d’ispezione nelle strade avrebbe chiuso per la nausea la gola di chiunque non avesse addormentato il senso e il gusto di uomo civile". Urgeva anche la costruzione di un serbatoio di almeno 5 mila metri cubi di acqua che fu realizzato nel 1928 dal podestà Montani. Pur tra mille difficoltà podestà e commissari prefettizi provvidero variamente al progresso della città. Il fascismo costruì un numero elevato di edifici pubblici; promosse tappe fondamentali per lo sviluppo del centro adriatico, come il Ponte Littorio inaugurato nel 1933 il Palazzo delle Poste in Corso Vittorio Emanuele anch’esso del 1933, l’ospedale finalmente realizzato nel 1934 e i palazzi di Città e del Governo progettati da Vincenzo Pilotti, furono ultimati nel 1936. Particolare rilevanza ebbe il Ponte Littorio che pur, se da inserire nel quadro dell’esaltazione dei tempi, fu anche la celebrazione della riunificazione dei due comuni e il simbolo dell’evoluzione della città. Disegnato da Cesare Bazzani, questo monumento che sostituì la vecchia gabbia di ferro, fu rivestito e rifinito con travertino di Ascoli e granito di Sardegna e arricchito da quattro colonne che sostenevano quattro aquile di bronzo, per ricordare che la costruzione era affidata alla loro custodia quale auspicio di concordia fra le due città ora unite. Nel 1939 Pescara ebbe il gas di città, fornito dalla ditta Camuzzi che inizialmente erogò 700 metri cubi al giorno. Continuarono le grandi opere: l’arginatura del porto, del quale furono prolungati e sistemati i moli e fu collegato con la ferrovia , ma non raggiunse l’efficienza che ci si attendeva per le difficoltà di approdo dei piroscafi recanti materie prime alle industrie della valle.

Ennio Flaiano ricorda così la Pescara dell’epoca: "Io ricordo una Pescara diversa, con cinquemila abitanti al mare si andava con un tram a cavalli e le sere si passeggiava, incredibile! per quella strada dove sono nato, il Corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora persino elegante”. 
Descriveva inoltre la ancora paesana Piazza Garibaldi con una parte centrale in terra battuta, due alberi enormi, un pino, una quercia, dei piccoli tigli e con le strade intorno fatte di ciottoli e lastroni di pietra. Da “Era Pescara” della Sovrintendenza Archivistica d’Abruzzo si traggono queste vive immagini della città negli anni trenta. “Tra Piazza Unione e Piazza Garibaldi, si diramano tre strade: via delle Caserme, Corso Manthonè e via dei Bastioni ….qui è il cuore di Pescara vecchia dove è vissuto il Vate, Gabriele D’Annunzio e dove ha passato la gioventù Ennio Flaiano. Via dei Bastioni e Via delle Caserme erano tutte arti e mestieri: chi faceva le botti chi faceva i tini, chi faceva lu stagnare: ogni porta un mestiere. Corso Manthonè invece era la via più di lusso: c’erano caffè, pasticcerie, negozi di tutti i tipi, mercerie, forni e poi sarti e mobilieri, barbieri, giornalai, negozi di stoffa e ferramenta. A Via delle Caserme c’erano la maggior parte degli artigiani: falegnami, ebanisti, intagliatori, cesellatori di legno e il miglior verniciatore di carrozze della zona: Mastro Leone. Ci venivano pure  li signor” da fuori perché faceva lavori precisi. C’era pure il forno di Michele che cuoceva pure la porchetta. In Via delle Caserme c’era pure Giacomino Opera che costruiva giocattoli e burattini e li vendeva alle fiere. In Piazza Garibaldi c’era “Za Minella” che faceva il caffè per quattro soldi, vendeva anche farina e altro, aveva la cantina sulla destra della piazza. C’era anche Clorinda che vendeva caffè e vino. Alla Cantina di Jozz, in Piazza Garibaldi si offriva da bere agli amici quando nascevano i figli maschi. Abitava in Piazza Garibaldi “Za Mariannina”, donna di battaglia che faceva le carte, Piazza Garibaldi) era il cuore della città, ci si faceva di tutto: il mercato dei contadini, il lunedì e poi i concerti e gli spettacoli. Era chiusa dai palazzi e i pescaresi la consideravano come un salotto e la chiamavano proprio così. Dove adesso c’è lo stadio c’erano solo le paludi. Lo chiamavano il ”mare dei chietini”, perché i chietini ci venivano a prendere le ranocchie; le catturavano con un attrezzo molto simile a “li ciucculare”, gli spezzavano le zampe per non farle saltare e le riponevano in un sacco che tenevano a tracolla. Sotto il ponte si mettevano le barche che vendevano le arance. I pellegrini che venivano a Pescara per le feste di San Cetteo o di Sant’ Andrea si fermavano vicino al ponte per comprare le arance. Lungo la Pescara e “alla marina” passavano due volte l’anno “li picurare”. Era sempre una festa e i pescatori gli davano le sardelle salate e il sale, pizze di “randigna” e anche qualche pesce, loro li ricambiavano con pizze di formaggio e la ricotta. Alla Pineta ci si andava sempre in tutte le stagioni; a primavera per le scampagnate, l’estate per il mare, l’autunno e l’inverno ci andavano i cacciatori perché era pieno di beccaccini e altri uccelli. Lungo la riviera non c’erano case ma soltanto stabilimenti balneari; i signori con il tram o con la carrozza tutti con i cappelli larghi, andavano alla Pineta; le persone di poco conto, invece andavano a “lu mare vicchie” in fondo a Via Vespucci. Chi andava al mare vecchio si portava quattro canne e dei teli, si costruivano sulla spiaggia delle baracchette per fare ombra. Si chiamava mare vecchio perché sulla spiaggia l’acqua del mare ristagnava durante la bassa marea e per la gente era un sollievo camminare ed evitare la sabbia rovente. I ragazzi erano divisi in bande: c’era quella dell’Aterno, quella dei “fornari” formata dai figli e dai garzoni dei fornai di Corso Manthonè e quelle delle due marine “di qua” e “di là” che erano le più forti. Si andava appresso a tutti i cortei, agli sposi per prendere i confetti e i soldi che si tiravano appresso, alle fanfare, alle parate militari. Alla festa di San Ciattè si andava per rubare i lupini e le “nocelle”: Ci si divertiva con poco. Si andava per fossi a prendere le ranocchie, si giocava con scatole di conserva o di lucido di scarpe con cui si facevano i botti.” 

PESCARA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE 

Senza dubbio la Pescara che il 10 giugno del 1940 ascoltò alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini, era una’ città nuova’ forgiata dal fascismo, una città dagli slanci dannunziani e dai rapidi ritmi di cambiamento. Dal 1940 alla metà del 1943 la città ebbe un impatto solo indiretto con la guerra, dopo essersi illusa a seguito dell’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) di poter uscire indenne dalla spirale del conflitto, la città venne travolta dalla violenza bellica. Le prime bombe caddero sulla città il 31 agosto del 1943 sganciate dai liberators: bombardieri della aviazione americana che, giungendo dal mare in più ondate seminarono il loro carico mortale nella zona compresa tra il ponte e la stazione centrale , nel primo pomeriggio mentre la gente, dopo un primo allarme stava ritornando nelle casa e negli alberghi per la pausa pomeridiana. Non c’erano artiglierie antiaeree non apparecchi da caccia a proteggerla, pur essendoci l’aeroporto preso in consegna dalla Provincia nel 1929. In tre ondate successive gli aerei depositarono il loro carico distruttivo sulle costruzioni che cedettero il loro spazio a Piazza Salotto e spargere rovina tra via Fabrizi e via Firenze, in via Ancona e in Corso Vittorio Emanuele. Il Palazzo del Governo, che ospitava il presidio militare, fu in parte danneggiato. Non fu colpita la stazione, ma le bombe ad essa destinate fecero strage nel vicino e affollatissimo albergo Leon d’oro e subì danni anche il Palazzo delle Poste e la zona di via Salara, alle spalle della stazione ebbe intere file di case ridotte in polvere. Cadde probabilmente anche il campanile del Sacro Cuore. L’opera di recupero delle salme durò tre giorni, ma il numero delle vittime, parte rimaste sotto le macerie e parte sepolte in grosse fosse comuni, non fu accertato. Secondo alcuni furono 1800, secondo altri 1600, altri ancora 900 morti e un migliaio di feriti. Più che il primo sorprese dolorosamente il secondo bombardamento di martedì 14 settembre: quando gli animi si erano riaperti alla speranza a seguito dell’armistizio dell’8 di quel mese. Anche questa volta i bombardieri giunsero dal mare, alla stessa ora, ma seguirono una direttrice di attacco perpendicolare a quella del martedì di due settimane prima, in modo da disegnare, col primo tragico passaggio, una croce sulla città, secondo le notazioni di Manlio Masci. Fu colpita pesantemente anche la vecchia Pescara, Porta Nuova, ma ne uscirono indenni la nuova San Cetteo e la casa natale di Gabriele D’Annunzio. Si parla questa volta di 600 morti certi alla stazione centrale, molti dei quali forestieri di passaggio, dove sembra si fosse riversata una grande folla intenta a vuotare, secondo Colacito uno dei tanti convogli militari carichi di roba che, dopo l’armistizio, non giungevano più alla loro destinazione. Questa volta la stazione fu centrata e distrutta e il numero complessivo delle vittime ritenuto oscillante sino a un massimo di 2000. La cittadina viene citata nei volumi di storia generale per essere stata una delle ultime tappe della “fuga ingloriosa” del re Vittorio Emanuele III di Savoia e dei vertici politico-militare dello Stato italiano, ma in realtà il passaggio del secondo conflitto mondiale ebbe su di essa, come per l’Abruzzo le caratteristiche di una guerra totale soprattutto per il pesante coinvolgimento delle popolazioni civili. I pescaresi, che solo in parte avevano abbandonato la città per i colli e le campagne, ma vi avevano fatto presto ritorno, ripresero la fuga in massa, mentre sulla città continuarono a cadere bombe anche il 16 il 17 e poi l’8 dicembre, quando distrussero la chiesa di San Giacomo e quella del Rosario. Ma le nuove bombe, se ancora producevano danni, non facevano ormai più vittime, perché la città “spettrale cumulo di rovine” secondo quanto dice Costantino Felice era ora quasi deserta. E lo fu maggiormente dal febbraio del 1944, quando i tedeschi che la occupavano, temendo sbarchi nemici, ordinarono lo sfollamento generale che tuttavia non fu mai proprio totale. Giunse poi l’ora dei saccheggi. Erano in prima linea i tedeschi , i quali, partendo dai paesi intorno dove erano i loro comandi, vi tornarono con i loro automezzi carichi di biancheria di suppellettili e di quanto faceva loro comodo. Accanto ad essi i civili: alcuni sciacalli saccheggiarono anche la casa natale di Gabriele D’Annunzio, della quale furono asportati, tra l’altro anche gli orecchini di brillanti di una Madonna nella camera in cui era nato il poeta. Manlio Masci ricorda l’inutile prudenza di don Brandano che si preoccupò di mettere in salvo in una cassetta di sicurezza del Banco di Roma le lettere ricevute da Gabriele D’Annunzio e una croce di ametiste che il vate gli aveva donato, ma tutto andò perduto, perché le banche, dopo il secondo bombardamento, lasciarono Pescara e furono saccheggiate. L’agonia finale della città venne completata nella tarda primavera del 1944, quando i tedeschi e neofascisti in ritirata, allo scopo di disporre la difesa contro un eventuale sbarco alleato disseminarono la spiaggia e il porto di mine e, per ottenere determinate visuali dell’orizzonte e del mare abbatterono edifici e palazzi sontuosi orgoglio e vanto della giovane città tra cui il Palazzo di Città, il Ponte Littorio e il recente nuovo molo del porto frantumati nel giugno del 1944 al momento della ritirata. Altre mine rimasero inesplose dove erano state nascoste e non brillarono se non negli anni successivi, ogni volta che le vittime ignare le calpestavano lungo la spiaggia saltando in aria a brandelli. Quando l’esercito britannico entrò a Pescara nel giugno del 1944 lo spettacolo dei due tronconi urbani di nuovo isolati tra loro dalla mancanza di un ponte, era spettrale. Uno specchietto del Genio Civile indica in 1265 gli edifici completamente distrutti e in 1335 quelli gravemente danneggiati, l’architetto Picconati nel piano di ricostruzione parla del 69 per cento di fabbricati distrutti. Fu una sorta di ‘ anno zero’ dopo il quale era necessario ricominciare da capo. Sui motivi dei tali bombardamenti proprio su Pescara si è molto discusso. E’ opinione dei più che gli anglo-americani abbiano voluto colpire in maniera indiscriminata la città dannunziana perché essa rappresentava una realizzazione del fascismo, una realtà di giovinezza voluta dal regime: con la elevazione a capoluogo di provincia di una modesta cittadina che aveva anche intitolato alla Conciliazione la sua nuova grande chiesa dedicandola contemporaneamente alla casa Savoia e a Mussolini e custodiva come monumento nazionale la casa in cui era nato l’esaltatore delle glorie nazionali e delle virtù guerriere del popolo italiano. Ma la storiografia nazionale più aggiornata ritiene che , anche se da parte degli alleati siano stati gravi: gli errori, le incertezze, i bombardamenti inutili nei confronti delle inermi popolazioni civili, ciò avvenne in tutta la guerra condotta in Italia. Un tale elemento punitivo, se sia stato presente nei comandi alleati, fu del tutto marginale rispetto alle vere finalità delle incursioni aeree giuste o sbagliate che fossero. Pescara molto più probabilmente fu colpita per motivi militari perché era un vitale nodo ferroviario e stradale e Corso Vittorio era un tratto della Nazionale Adriatica essenziale in quel momento, dopo lo sbarco degli alleati, per rifornire le linee della difesa tedesca. Inoltre concentrare l’attenzione solo sulle colpe degli anglo-americani, rischia di far passare in seconda linea le vere cause che condussero la città a quel momento così drammatico e di non considerare che la fase storica e le sue conseguenze tragiche arrivavano da vent’ anni di dittatura dell’alleanza italo-tedesca e dalle responsabilità dei nazifascisti che avevano scatenato un conflitto di tali proporzioni. 
Il SECONDO DOPOGUERRA Pescara era tornata alla pace e alla vita democratica, ma lo scenario materiale economico e sociale che si presentava agli amministratori era disastroso. Le attività economiche ridotte al minimo, le macerie come principale panorama cittadino. I “senza tetto” si contavano a migliaia, le comunicazioni difficili. La città ridotta a un cumulo di rovine, rimosse le macerie, sanate alla meno peggio le ferite, prese a crescere di nuovo per l’afflusso favorito dalla depressione delle zone interne d’Abruzzo e di altre regioni. Furono comunque soprattutto le possibilità offerte dall’industria edilizia a richiamare braccia insieme alla possibilità del mercato piccolo e grosso che la città in sé e la sua posizione favorivano. Intanto nel 1944- 1945 fu ricostruita la stazione. Gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara, mecca e miraggio dei popoli di montagna. La popolazione che nel 1936 sfiorava i 52 mila abitanti nel 1946 superò i 68 mila. Ma se la dimensione dello sviluppo fu notevole non portò con sé un’apprezzabile qualità. Mario Fondi nel volume del 1970 dedicato all’Abruzzo e Molise, scrisse che nel primo periodo del dopoguerra si incontravano marinai, agricoltori, pastori e mercanti improvvisati impegnati in affari disordinati e lo sviluppo urbanistico avvenne caoticamente, senza un piano preciso affidato quasi sempre alla iniziativa dei privati più facoltosi o più avventurosi. La città crebbe soprattutto in altezza senza un piano preciso, con la sostituzione di palazzine a due piani e villini con ampi edifici di cemento, col sacrificio del verde pubblico e il conseguente congestionamento del centro. Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” nel 1957 descrive così il fermento innato della città: “Ecco invece, unica in Italia, una città ribollente, confusa, in cui uomini e gruppi affluiscono, si accavallano come onde. Per un lato Pescara si può dire la più abruzzese delle città abruzzesi, per un altro lato è l’opposto della regione di cui assorbe la linfa” Ricostruzione storiografica della Storia di Pescara. I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato di Pescara dalla Storia di Pescara di Luigi Lopez e la collaborazione dell’architetto Nino Colleruoli.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli 
email: mancinellielisabetta@gmail.com