
La storia di Pescara, che appare giovane dal punto di vista culturale, è poco conosciuta ed alcuni periodi del 
suo passato sono ancora avvolti nell’oscurità. Tuttavia le origini della città sono molto antiche e legate alla sua 
posizione favorevole in quanto raccordo delle vie di comunicazione tra l’antica Roma e l’area dell’Adriatico. 
Probabilmente il primo insediamento avvenne intorno al Colle del Telegrafo (chiamato così per la presenza 
del vecchio telegrafo)  alto circa 140  metri e situato a un chilometro dalla costa.  Dopo un mese di scavi 
(giugno-luglio 2005), sono emersi reperti  risalenti a seimila anni fa.  I lavori, condotti sul pianoro del Colle del 
Telegrafo dalla Sovrintendenza per i Beni Archeologici per l’Abruzzo diretti dal prof. Staffa, hanno dedotto che 
i 
vari rinvenimenti sono riferibili ad un insediamento popolato nella protostoria (secondo periodo preistorico 
compreso tra l’età del bronzo e quella del ferro) ed in età romana.  
Risalirebbero invece alla prima metà del V millennio  i resti di un villaggio di agricoltori ritrovato a Fontanelle 
Alta nella parte a sud del fiume Pescara. 
Non possediamo dati stratigrafici, a causa di un’aratura profonda che distrusse l’insediamento (scavi 1977), 
ma sono stati evidenziati nella zona interessanti caratteri di novità rispetto al quadro culturale del Neolitico 
abruzzese a ceramica impressa. Infatti  resti di  Ceramica figulina e  un frammento dipinto mostrano, accanto 
al repertorio dei motivi tipici dell’area abruzzese-marchigiana, elementi decorativi peculiari di quella apulo
materana.  
Mediante documenti raccolti dalla Provincia e dalla Sovrintendenza archivistica di Pescara  si è cercato di  
ricostruire il percorso storico della città, anche se, come abbiamo detto, alcuni momenti del suo  passato sono  
ancora molto incerti. 
Situata nella pianura, sul litorale adriatico, tra i colli  Pizzuto, Caprino e Telegrafo, Pescara ha avuto il suo 
nucleo antico alla foce del fiume omonimo.  Probabilmente i primi abitanti vennero, attraverso il mare Adriatico, 
dalle sponde orientali e fondarono il villaggio.   
Il primo popolo che comprese l’importanza strategica della posizione dell’agglomerato  è quello dei Vestini, 
che allestirono un efficiente porto utilizzato anche dai Marrucini e dai Peligni. 
Ma l’abitato aumentò il suo prestigio solo in seguito alla conquista da parte dei Romani,   si sviluppò , venne 
chiamato Vicus Aterni e, poiché sia la città che il fiume erano una porta verso l’interno e Roma, gli fu attribuito 
il nome di Ostia Aterni. Scavi condotti dalla Sovrintendenza archeologica d’Abruzzo (1990-1999) hanno 
rivelato, dopo secoli di incertezza, l’esatta ubicazione della città romana dalla curiosa pianta a triangolo 
allungato probabilmente derivante dalla posizione del centro all’incontro fra la più antica via di fondovalle 
Pescara ed il nuovo tracciato della via Claudia Valeria realizzato nel 48/49 dall’imperatore Claudio. 
Secondo sempre le rilevazioni del  dottor Staffa lungo il Pescara, al Bagno Borbonico e a Piazza Unione è 
stato messo in luce un tracciato viario antico poi ripreso da via delle Caserme, tratto terminale di un antico 
itinerario naturale che giungeva in città sul crinale della propaggine collinare a sud del fiume. Allineati con la 
strada erano resti di abitazioni, magazzini, taberne (sec. I a.C. II d.C.) rilevati dagli scavi e oggi visibili solo al 
piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo e nella cantina del Ristorante Taverna 58  a Corso Manthonè.  Di 
origine antica appaiono anche Corso Manthonè e via del Bastioni oltre ad almeno parte del reticolo viario di 
impianto regolare che li collegava a via delle Caserme. I documenti reperiti dalla  Sovrintendenza Archivistica di Stato e dalla Provincia  testimoniano quanto segue: 
Da Ostia Aterni  si raggiungeva Roma attraverso tre importanti vie: la Claudia Valeria, la Tiburtina e la Salaria. 
Nella città esistevano importanti edifici pubblici e privati, c’erano diversi templi tra cui quello dedicato a Giove 
Aternio e anche il culto della dea Iside.  
Vi sono diverse attestazioni di questo culto trovate in due iscrizioni incastonate nel 1700 su un muro nella zona 
di Rampigna e in un cortile di Villa De Riseis  che sono conservate nella Biblioteca provinciale di Chieti. Inoltre 
dei frammenti di un bassorilievo raffigurante la dea egiziana sono emersi recentemente nei pressi del porto 
canale, sulla sponda nord. 
Il fiume, in mezzo al quale c’era una piccola isola, era scavalcato da un ponte monumentale costruito per 
volontà dell’imperatore Tiberio che volle anche il restauro del porto per gli scambi commerciali con l’Oriente.  
Con la caduta dell’impero romano, all’epoca dell’invasione longobarda intorno all’anno 1000, Aternum cambia 
di nuovo il suo nome e diviene
 Piscaria. Questo toponimo sostituì il vecchio nome gradualmente prima tra i 
locali e poi anche negli atti ufficiali e designava un sito particolare:  un luogo adatto alla pesca e comunque 
ricco di pesci, un mercato del pesce o il luogo di esazione dei diritti di pesca. Anche il fiume si chiamò 
Piscarius. 
La città, pur distrutta e ricostruita più volte, riveste sempre grande rilievo per la sua posizione strategica e le 
sue robuste difese militari. Aveva anche un vescovo: Cetteo che esercitò la sua carica dal 568 al 597 quando 
cadde vittima della ferocia dei Longobardi che, essendo ariani, osteggiavano tutti i cattolici ma, in particolare, 
la sua gerarchia.  Il suo corpo fu recuperato alla foce del fiume e da quel giorno divenne patrono di Pescara. 
Il porto conservò piena funzionalità sino alla tarda età imperiale  quando fu oggetto di interventi di restauro sia 
all’epoca della Guerra Greco-gotica (538-560) che alla fine del VI sec. restando a lungo parte di una vasta rete 
di scambi commerciali; dagli scavi condotti in città oggi visibili al piano terra del Museo delle Genti d’Abruzzo 
ed all’interno del negozio Emilio Sport a Corso Manthonè 53 provengono infatti, tra l’altro, frammenti di vasi in 
ceramica fine  da mensa di importazione africana ed orientale, contenitori cilindrici della tarda età imperiale 
provenienti da Samo, Gaza e dall’Asia Minore. 
Ancora, dagli scavi diretti dal dott. Staffa, si evince che probabilmente, in seguito ad un devastante incendio 
correlabile alla conquista longobarda (fine VI sec.), dovette seguire la realizzazione da parte dei Bizantini di 
una cinta difensiva affiancata da un Castellum ed il ripristino di parte dell’abitato dell’area del Bagno Borbonico, 
anche se la città romana andava trasformandosi in un ben più ristretto borgo di capanne e case di terra.   
Progressivamente furono demolite le strutture fatiscenti, persistettero in muratura solo alcuni edifici religiosi e 
forse civili infatti, nelle adiacenze di Casa D’Annunzio e al Bagno Borbonico, sono stati trovati resti di  alcune 
case  del VII sec. con pianta rettangolare, strutture portanti in pali,  pavimenti in terra battuta e ghiaia e semplici 
focolari a terra. 

Il dominio bizantino a Pescara andò protraendosi sino 660-670 ma l’attività portuale dovette proseguire senza 
soluzioni di continuità per tutto l’alto medioevo come provato sia  da  alcuni documenti del IX sec. sia dal 
rinvenimento in via delle Caserme di un livello stradale di terra nera che copriva le darsene venute alla luce 
nel 1999.  
Intorno al 1095 Piscaria era ricca di monumenti e templi. Tra 
quelli più rilevanti si possono citare la più nota Santa Maria di 
Gerusalemme, sorta sui resti di un possente edificio tardoantico 
del III –IV secolo d.c.,  i cui 
basamenti  sono stati riportati 
alla luce nella zona della 
Cattedrale attuale di San Cetteo 
e  frammenti di essi sono visibili 
attraverso una vetrata in via 
Gabriele D’annunzio. Vi erano 
anche altre chiese: San 
Salvatore, Santi Legunziano e 
Domiziano, San Tommaso Apostolo e 
San Nicola. 
Nell’anno 1140 Pescara fu conquistata da Ruggero re normanno di Napoli che fece eseguire diverse opere, 
tra cui quelle del restauro del porto. Ma gli anni successivi furono caratterizzati da rovine, distruzioni e scorrerie 
e il dominio di diversi signori tra cui i D’Avalos nel primo decennio del 1400  e il capitano di ventura napoletano 
Giacomo Caldora (1435-1439). 
Il periodo più fiorente della sua storia iniziò  quando con l’aiuto di Carlo V re di Spagna furono reintegrati i  
D’Avalos nel marchesato di Pescara attribuito alla Marchesa Vittoria Colonna.  
Gli Spagnoli nel 1510 per proteggere l’accesso al Vicereame dall’Adriatico 
avevano dato l’incarico all’architetto Erardo di Barbeluc di progettare una 
Fortezza a cavaliere del fiume.

In quegli anni le opere di difesa di Pescara erano dunque costituite da una  
Torre a presidio del ponte,  dal Castello a protezione della porta aperta sul 
mare nel punto opposto al ponte e da semplici mura che disegnavano uno 
stretto trapezio attorno all’abitato sulla destra del fiume. Come emerge da un 
atlante conservato presso l’Istituto storico italiano che raffigura la Fortezza 
appunto con una pianta di pentagono irregolare e cinque bastioni ai vertici, 
tutti sulla riva destra.  
Successivamente però, a causa dello scontro prolungato per secoli tra Spagna e Francia emerse la necessità 
di rafforzare queste modeste opere di difesa, modeste in relazione al rafforzamento delle artiglierie, che aveva 
sostituito alle enormi palle di pietra  il martellamento con palle di ferro alle quali si poteva resistere solo con la 
costruzione di torrioni bassi e larghi e terrapieni. Furono così aggiunte nuove e più solide fortificazioni sulla 
destra e si  aggiunsero sulla sinistra due bastioni raccordati da cortine. 
Soltanto nel 1557 acquistò una efficace consistenza. Normalmente era presidiata da una guarnigione ridotta 
e servì come luogo di concentramento di truppe in caso di guerra. 
Nel 1566, durante la scorreria turca di Pialì  Pascià in Adriatico, fu un valido baluardo ed impedì l’occupazione 
della città, sola tra gli abitati della costa ad essere risparmiata. Nel 1600 venne costruita la Caserma di fanteria 
tuttora esistente (Museo delle Genti e Genio militare) Il piano inferiore della caserma fu adibito in parte a 
magazzini ed in parte a carcere. Sulla riva sinistra del fiume, a Rampigna, venne costruita la caserma per la 
cavalleria, con una scuderia capace di ospitare un centinaio di cavalli. 
La protezione offerta dalle imponenti mura, che si continuarono a costruire e perfezionare per tutto il 1600, 
offrì a molti la possibilità di vivere e  commerciare e più tardi acquisì anche il diritto ad ospitare una fiera franca 
con tutti i vantaggi derivanti dal fatto di potere attirare i commercianti. Si ebbe così un ripopolamento della riva 
destra del fiume  ma anche lo sviluppo della riva sinistra di Castellammare, dove  i  d’Avalos misero a cultura 
nuove terre e strinsero rapporti di lavoro con numerosi nuovi coloni. 

Sappiamo da documenti del 1600 che gli abitanti delle due rive costituivano una 
sola “Università”  come si diceva a quel tempo cioè un solo comune retto da un solo 
governo locale. Ciò  viene  confermato dal fatto che fonti dell’epoca definiscono i 
due insediamenti con i nomi di Piscaria  Citra (la parte a sud del fiume) e Piscaria 
Ultra (l’area settentrionale) a dimostrazione che i due luoghi , pur nelle loro 
differenze sociali economiche e urbanistiche, hanno forse avuto una storia meno 
separata dal fiume di quanto si creda.                                                                   
Così   il 
Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700". Agli inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova) a sud 
del fiume e Castellammare sulla sponda nord e contava circa 3000 abitanti”. Le battaglie  per la conquista della Fortezza non erano terminate.  Durante la guerra 
di successione spagnola nel 1707, fu attaccata dagli austriaci del conte Wallis e, a 
difenderla, c’era Giovanni Girolamo 2° duca di Atri, che resistette eroicamente per 
due mesi prima di capitolare. 
Così il regno di Napoli e la cittadina di Pescara passano agli Austriaci, ma già nel 
1734, la Fortezza viene nuovamente assediata dagli spagnoli di Carlo di Borbone e, dopo una cruenta 
battaglia, cede alle truppe comandate dal duca di Castropignano.  
Con l’avvento della Repubblica francese, la fortezza di Pescara viene conquistata, nel dicembre del 1798, 
senza spargimento di sangue, dal generale Duhesme ed inizia così la breve stagione della Repubblica 
Partenopea. 


Al suo arrivo a Pescara, il generale  Duhesme aveva organizzato 
la sua legione nominandone a capo  Ettore 
Carafa conte di Ruvo (sopra) protagonista della Repubblica Napoletana  
assieme al pescarese Gabriele Manthonè 
(sotto)  il quale seppe organizzare una 
valorosa resistenza alla reazione borbonica 
del 1799.
Sia Carafa che  Manthonè, tradotti 
a Napoli, vennero  impiccati nella Piazza del 
Mercato. 
L’ennesimo assedio alla fortezza fu 
vittoriosamente portato al termine da  
Giuseppe Pronio detto il “Fra Diavolo 
abruzzese”, agli ordini del cardinale Ruffo 
fedele ai Borboni. 
Nei primi anni del 1800 Pescara venne occupata nuovamente dai francesi e costituì un importante presidio 
militare del regno di Giuseppe Bonaparte. 
Intanto Castellammare,  sulla sponda nord del fiume diventa comune autonomo aggregato al circondario di 
Città  Sant’ Angelo. 

Nel 1814 Pescara fu tra le città protagoniste dei moti carbonari contro 
Gioacchino Murat, re di Napoli.  
E fu a Pescara non a Rimini, che Murat firmò il 12 maggio del 1815 la prima 
delle Costituzioni italiane del Risorgimento”. 
La Fortezza, ritenuta all’epoca “Porta d’Abruzzo e chiave del Regno” venne 
restaurata dai Borboni tra il 1820 e il 1840 e nel 1831 vi fu istituito, al piano 
terra della caserma di fanteria, il bagno penale nel quale languirono gli 
sfortunati compagni di  Carlo Pisacane ed altri patrioti. 
Così il Quieti in “Pescara città antica” narra gli eventi della città nel 1700”. Agli 
inizi del 1700 la città era divisa in due nuclei: Pescara (ora Portanuova ) a sud del fiume e Castellammare sulla 
sponda nord e contava circa 3000 abitanti durissima fu la repressione borbonica, simboleggiata dal Bagno 
Penale di Pescara. Si trattava di un carcere tristemente famoso per le condizioni disumane con cui venivano 
trattati i detenuti, in buona parte patrioti abruzzesi: drammatica fu in particolare l’alluvione dell’ottobre 1853 
che investì il carcere causando la morte per annegamento degli internati.                     
Tra coloro che furono 
rinchiusi in quello che veniva chiamato “il sepolcro dei vivi” vi fu anche Clemente De Caesaris, una delle figure 
centrali del Risorgimento meridionale, che, liberato per ordine di Giuseppe Garibaldi, prese 
possesso, nel 1860, della città e della Fortezza. 
Nello stesso anno,Vittorio Emanuele 2°, in viaggio per l’incontro di Teano con Giuseppe Garibaldi, giungendo 
sull’attuale  Colle del Telegrafo, da cui si dominava il territorio dell’attuale città, fu sentito esclamare: ‘Oh che 
bel sito per una grande città." 

“Il 
12 marzo del 1863, nasceva a Pescara Gabriele 
D’Annunzio; nello stesso anno, e precisamente il 16 
maggio del 1863, alla presenza di Vittorio Emanuele 2° 
fu inaugurata la stazione ferroviaria di Castellammare, 
sulla linea adriatica e nel 1867 l’antica Fortezza venne 
smantellata: si tratta di due eventi fondamentali per lo 
sviluppo della città, che abbandona il suo ruolo di 
bastione militare in favore di una definitiva vocazione 
per il commercio e le attività economiche. 
Negli anni successivi e, in particolare, ai primi del Novecento, Castellammare e Pescara si sviluppano 
demograficamente ed economicamente. 
Ma i problemi delle due cittadine  erano diversi: la ferrovia, la piazzaforte e soprattutto la costruzione di un 
ponte che finalmente unisse in modo sicuro e stabile le due sponde dopo il crollo  definitivo dell’antico ponte 
romano in muratura. A proposito di questo ci furono  molte polemiche tra Pescara e Castellammare tra i 
dirigenti divisi tra coloro che continuavano a rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con gli “odiati” cugini  e 
coloro che cominciavano ad auspicare in maniera concreta una futura riunificazione dei due centri. 

Oggetto della contesa fu  l’ubicazione del ponte di ferro  ( che durò fino al 1933 quando fu costruito il ponte  
in pietra, detto “Littorio”).  C’era infatti chi voleva sorgesse a monte del fiume,  per rimarcare la divisione con i 
teramani della sponda settentrionale; chi invece  lo 
auspicava sulla direttrice di una delle vie principali di Castellammare (come poi avvenne): Corso Vittorio 
Emanuele II ancor oggi arteria principale e congestionata della città, per stabilire un contatto decisivo tra le 
due rive. 

Inoltre vi erano  gravi carenze  cittadine riguardo l’igiene pubblica, le infrastrutture sociali, gli ospedali, le 
scuole, l’acqua corrente e potabile. Molte di queste opere vennero timidamente avviate  tra cui  l’assistenza 
ospedaliera degna di questo nome  anche se di essa si potrà veramente parlare solo nel 1934.                            
Questo era il contesto, ancora segnato da evoluzioni fino alla vigilia del 1914. 
Su tale situazione giunse la Grande Guerra durante la quale (maggio 1917) sulla sponda castellammarese si 
ebbe un’incursione aerea austriaca che, se provocò pochi danni materiali, fece comprendere come "la grande storia" si  preparava ad affacciarsi in modi non sempre pacifici, nella vita dei due abitati. 
 LE DUE PESCARE 
Nei primi decenni del 1900,  appena dopo la prima guerra mondiale, alla foce del fiume Pescara esistevano, 
come abbiamo già visto, due cittadine molto diverse tra loro. 
A sud la più antica, ora Portanuova cresciuta sui resti della fortezza cinquecentesca che presidiava 
all’unificazione delle due cittadine ed alla elevazione a provincia, ma alcuni dissidi ed interessi politici e la campanilistica rivalità 
tra i cittadini delle due sponde, talora violenta, ritardarono 
l’evento.  Gabriele D’Annunzio  illustrò bene il conflitto definito 
“guerra del ponte” tra le due progenie i cui rapporti erano da 
sempre caratterizzati da antagonismo e gelosia. 

“Un’antica discordia dura tra Pescara e Castellammare 
Adriatico, tra i due comuni che il bel fiume divide. Le parti 
nemiche si esercitano assiduamente in offese e rappresaglie, 
l’una osteggiando con tutte le forze il fiorire dell’altra. E poiché 
oggi è prima fonte di prosperità la mercatura, e poiché Pescara 
ha molta dovizia di industrie, i Castellammaresi da tempo 
mirano a trasferire i mercanti su la loro riva con ogni sorta di 
astuzia e di allettamenti” 
il fiume e la statale 16 Adriatica all’innesto 
della via Tiburtina Valeria, sbocco della più 
importante valle d’Abruzzo.                                
A 
nord del fiume, nella stretta fascia di terra che 
si allunga tra le colline e il mare, si era invece 
sviluppata dal 1806, prendendo a  fulcro il 
santuario della Madonna dei Sette dolori,  
Castellammare Adriatico che, con l’arrivo 
della ferrovia e la costruzione della Stazione 
(1863) aveva avuto un certo sviluppo. 
Commerciale, artigianale e “popolare” 
Pescara  
borghese, signorile e turistica  
Castellammare Adriatico, ancora al principio 
del XX secolo, scandita  dalle grandi ville dei 
possidenti.                                   
Castellammare e Pescara appartenevano 
rispettivamente  alla provincia di Teramo ed a 
quella di Chieti.  
Già si pensava 
Per la qualificazione degli abitanti delle due sponde e per la nascita della nuova provincia ci furono 
moltissime trattative, volte a stabilire soprattutto la denominazione della nuova comunità. 
Era chiaro a tutti che l’unione dei due comuni avrebbe sicuramente determinato il loro rapido progresso,                   
sia  dal punto di vista amministrativo  ed economico  che industriale e commerciale.                                                  
Si 
cercarono faticosi compromessi volti a  chiamare la città unificata “Aterno” o a coniare la nuova denominazione  
di  Castelpescara.  In verità  l’influenza  di  Gabriele D’Annunzio  sul  duce  portò quest’ultimo a dire che                      
mai 
avrebbe sacrificato sull’altare della pace il nome del luogo natale del poeta.                                                                                                                   
E così fu Pescara.                                                                                                                                                                             
E 
con l’unificazione ci fu la contestuale promozione a Provincia. Il 6 dicembre 1926 Mussolini così telegrafò a 
D’Annunzio che si trovava a Gardone Riviera:  “Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di Provincia.              
Te lo comunico perché credo che ti farà piacere. Ti abbraccio”.                                                                                                
E 
D’Annunzio rispose: “Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescara, 
ringiovanita, diventerà sempre più operosa e ardimentosa per dimostrarsi degna del privilegio                       
che 
oggi tu le accordi.   Ti abbraccio”  . E il Poeta così  telegrafò lo stesso giorno al Sindaco di Pescara Umberto 
Ferruggia  “Il Primo Ministro graziosamente mi comunica che oggi ha elevato la mia Pescara a capoluogo di 
Provincia. Sono certo che Pescara con moltiplicata operosità si mostrerà degna del privilegio. Mando a tutti i 
miei concittadini il più lieto e fiero saluto”. 
Dopo l’unificazione di Castellammare Adriatico e Pescara è rimasta famosa la frase del Vate per placare gli 
animi dei contendenti. "Sono Castellammarese da sempre, non meno che Pescarese” 
Pescara nei primi decenni del 1900 da “Era Pescara” della  Sovrintendeza  Archivistica d’Abruzzo 
“A Castellammare (a destra) originariamente c’erano tre o quattro forni come “Tambrucc”(in via Mazzini) e 
“Marcucc”(dietro Piazza Sacro Cuore).   Poi in via Venezia arrivò "Marcantonio" che proveniva da Colle 
Marino. Al padrone gli si diceva “lu delegat” perché con quei baffoni sembrava un delegato militare. 
C’erano anche  degli artigiani : fabbri e ramai che lavorava- no intorno a Largo Scurti, vicino all’attuale 
mercato coperto. 
Dietro la ferrovia, dalle parti di via Michelangelo, c’era una famiglia di ramai che veniva da Spoltore. 
In quegli anni Pescara esercitava pur sempre il suo fascino. 
Con l’auto a noleggio si pagava 5 lire per raggiungere Castellammare.  E dopo il lavoro, specie la domenica 
in alternativa al ballo, c’erano gli spettacoli del teatro Pomponi. 
Costruito nei primi anni del Novecento dall’imprenditore Teodorico Pomponi, pur tra mille ostacoli e traversie, 
il cinema teatro si era rivelato un ottimo investimento. 
D’estate i villeggianti a Castellammare facevano la fila per assistere agli spettacoli delle migliori compagnie 
dell’epoca.    
Si davano proiezioni cinematografiche e, nell’intervallo, il varietà o l’avanspettacolo. Ma allora il Pompon (a 
sinistra) i ospitava la lirica e l’operetta. I fregi, lampadari, gli stucchi in schietto stile liberty, le poltrone in 
velluto rosso ne facevano un locale prestigioso. 
Dal balcone dell’edificio che dava sulla piazza (oggi parcheggio di auto) parlarono, specie nel dopoguerra,  
uomini politici di grido in comizi accalorati.  E  c’era anche il circolo universitario dove i liceali tentavano agli 
inizi degli anni sessanta di organizzare feste da ballo, ma l’avvenimento più strepitoso fu quando a 
Castellammare, ormai diventata tutt’uno con Pescara, giunse nel 1930 il primo film “ parlato”: “La canzone 
dell’amore” del regista Girelli e poi uno di Petrolini. Si fece la fila per assistere alle proiezioni.” 
Aggiunge  Giuseppe Quieti in “Pescara città antica”: 
“All’angolo tra via Leopoldo Muzi e Viale Bovio c’era il vecchio Municipio di Castellammare Adriatico (ora 
Palazzo Mezzopreti sede del Conservatorio "Luisa D’Annunzio"). Se adesso si distingue “Centrale” da 
“Portanuova” è per via dei due scali ferroviari.   
I signori che abitavano una volta a Pescara non hanno voluto far mettere la stazione, perché dicevano che il 
fumo delle motrici dei treni anneriva la facciata dei loro palazzi.  Così hanno fatto la rovina di Pescara e la 
grande fortuna di Castellammare, che invece ha approfittato subito dell’occasione e si è sviluppata alla 
grande costruendo gli alloggi per i ferrovieri e gli alberghi e i ristoranti per i viaggiatori” 
Michele Cascella nei “Ricordi pescaresi “così descrive la città sempre nei primi decenni del 1900 
“A Pescara, in quei tempi, D’Annunzio era nell’aria come il calore e il colore delle stagioni; viveva nelle 
pietre del campanile di San Cetteo, sotto l’arco di Porta Nova, davanti all’arsenale fra i cannoni in disarmo 
dei pescatori… C’erano le vele presso la foce, le paranze, le primavere sul colle San Silvestro, i trabocchi. 
La città era piccola, antica, borbonica con le sue vecchie mura con le sue tre chiese: San Cetteo, il Rosario, 
il San Giacomo. 
Tutte e tre in fila su una delle tre strade principali, il panificio militare, la  finanza,  i ritrovi preferiti dai militari 
con l’immancabile famosa “bionda”, i viaggiatori di commercio dell’Albergo Rebecchino, le ferrovie con i treni 
della notte sul ponte metallico e poi gli odori e i rumori, il sapore dell’acqua torbida che mi dissetava d’estate, 
col maniero direttamente dalla conca che una donna portava ogni mattina e l’odore del catrame  per la 
concia delle barche ,le reti, le voci del mercato del lunedì.” 
Lo stesso Gabriele D’Annunzio ne “La vergine Orsola” rievoca con straordinaria efficacia l’atmosfera 
invernale di piazza Garibaldi: 
“Un vivo baglior bianco rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell’Arco di Portanuova 
:il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d’iridi all’altezza della stanza.  Dal suo letto Orsola vedeva la 
sommità dell’Arco di Portanuova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l’erbe, i capitelli sgretolati dove le 
rondini avrebbero  appeso i nidi. Le viole di Sant’Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano” 
L’Arco di Portanuova altro non è che il rudere della non finita chiesa di San Cetteo. Nella facciata un grande 
arco a tutto sesto sormontato da un timpano triangolare e da un fastigio incompiuto era affiancato da due 
coppie di lesene toscane. All’interno dell’edificio, a pianta circolare aveva imponenti semicolonne di ordine 
corinzio. La chiesa di San Cetteo  chiudeva la piazza a meridione.  Di essa il Vate ne “La guerra del ponte” 
da “Le novelle della Pescara” dice: “.. ‘l’umile costruzione sta quasi come un monumento della Patria, ha 
quasi in sé la santità delle cose antiche e dà agli estranei indizio di genti che ancora vivono in una semplicità 
primordiale". Intanto erano anni in cui Pescara desiderava estendere i confini  in nome del sogno dannunziano a cui tutti 
sembravano partecipare, amministratori e intellighentia dell’epoca, tra cui Antonino Liberi che ipotizzava per 
la Pineta una città- giardino.  Si pensava  di costruire una Pescara raffinata e luminosa, moderna e 
aristocratica, il posto ideale per gente che, sistemato l’aspetto economico, avesse tempo e disposizione a 
coltivare i piaceri dello spirito.  Già  dal 1862 il passaggio della strada ferrata aveva, se non proprio 
compromesso, almeno dimezzato l’estensione della Pineta, ma in compenso ne aveva sfatato la leggenda 
di area malsana e paludosa, dimostrando concretamente la possibilità di pervenire ad una bonifica 
pressoché totale che trasformasse la città creandole una vocazione turistica e balneare.  
PESCARA dal 1930 al 1946 
Divenuta la quarta provincia d’Abruzzo la città  si trovò a dover fronteggiare esigenze impellenti: uffici ordinari 
di ogni capoluogo, uffici di competenza regionale ma anche tante necessità del vivere  civile. Le strade delle 
due cittadine erano bianche e polverose, quelle della vecchia Pescara erano ampie e rettilinee ma tutte 
lasciavano a desiderare non essendo asfaltate.  
La pavimentazione e il sistema fognario inesistente. Quest’ ultima era una  spesa assolutamente 
indilazionabile  per l’igiene e la pulizia della città se una franca testimonianza di Filandro De Collibus recitava 
così: "Un giretto d’ispezione nelle strade avrebbe chiuso per la nausea la gola di chiunque non avesse 
addormentato il senso e il gusto di uomo civile".  Urgeva anche la costruzione di un serbatoio di almeno  5 
mila metri cubi di acqua che fu realizzato nel 1928 dal podestà Montani. 
Pur tra mille difficoltà podestà e commissari prefettizi provvidero variamente al progresso della città. 
Il fascismo costruì un numero elevato di edifici pubblici; promosse tappe fondamentali per lo sviluppo del 
centro adriatico, come il Ponte Littorio inaugurato nel 1933 il Palazzo delle Poste in Corso Vittorio Emanuele 
anch’esso del 1933, l’ospedale finalmente realizzato nel 1934 e i palazzi di Città e del Governo progettati da  
Vincenzo Pilotti, furono ultimati nel 1936. 
Particolare rilevanza ebbe il Ponte Littorio che pur, se da inserire nel quadro dell’esaltazione dei tempi, fu 
anche la celebrazione della riunificazione dei due comuni e il simbolo dell’evoluzione della città. Disegnato da 
Cesare Bazzani, questo monumento che sostituì la vecchia gabbia di ferro, fu rivestito e rifinito con travertino 
di Ascoli e granito di Sardegna e arricchito da quattro colonne che sostenevano quattro aquile di bronzo, per 
ricordare che la costruzione era affidata alla loro custodia quale auspicio di concordia fra le due città ora unite. 
Nel 1939 Pescara ebbe il gas di città, fornito dalla ditta Camuzzi che inizialmente erogò 700 metri cubi al 
giorno. Continuarono le grandi opere: l’arginatura del porto,  del quale furono prolungati e sistemati i moli e fu 
collegato con la ferrovia , ma non raggiunse l’efficienza che ci si attendeva per le difficoltà di approdo dei 
piroscafi recanti materie prime alle industrie della valle.
Ennio Flaiano ricorda così la Pescara dell’epoca: "Io ricordo una Pescara diversa, con cinquemila abitanti al mare si andava con un tram a cavalli e le sere si 
passeggiava, incredibile! per quella strada dove sono nato, il Corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora 
persino elegante”. 
Descriveva inoltre la ancora paesana Piazza Garibaldi  con una parte centrale in terra 
battuta, due alberi enormi, un pino, una quercia, dei piccoli tigli e con le strade intorno fatte di ciottoli e lastroni 
di pietra. 
Da “Era Pescara” della Sovrintendenza Archivistica d’Abruzzo si traggono queste vive immagini della città 
negli anni trenta. 
“Tra Piazza Unione e Piazza Garibaldi, si diramano tre strade: via delle Caserme, Corso Manthonè e via dei 
Bastioni ….qui è il cuore di Pescara vecchia dove è vissuto il Vate, Gabriele D’Annunzio e dove ha passato la 
gioventù Ennio Flaiano. 
Via dei Bastioni e Via delle Caserme erano tutte arti e mestieri: chi faceva le botti chi faceva i tini, chi faceva 
lu stagnare: ogni porta un mestiere. 
Corso Manthonè invece era la via più di lusso: c’erano caffè, pasticcerie, negozi di tutti i tipi, mercerie, forni e 
poi sarti e mobilieri, barbieri, giornalai, negozi di stoffa e ferramenta. 
A Via delle Caserme c’erano la maggior parte degli artigiani: falegnami, ebanisti, intagliatori, cesellatori di 
legno e il miglior verniciatore di carrozze della zona: Mastro Leone. 
Ci venivano pure  li signor” da fuori perché faceva lavori precisi. 
C’era pure il forno di Michele che cuoceva pure la porchetta. 
In Via delle Caserme c’era pure Giacomino Opera che costruiva giocattoli e burattini e li vendeva alle fiere.  
In Piazza Garibaldi c’era “Za Minella” che faceva il caffè per quattro soldi, vendeva anche farina e altro, aveva 
la cantina sulla destra della piazza. C’era anche Clorinda che vendeva caffè e vino. Alla Cantina di Jozz, in 
Piazza Garibaldi si offriva da bere agli amici quando nascevano i figli maschi.  
Abitava in Piazza Garibaldi “Za Mariannina”, donna di battaglia che faceva le carte, Piazza Garibaldi) era il cuore della città, ci si faceva di tutto: il mercato dei contadini, il lunedì  
e poi i concerti e gli spettacoli.  Era chiusa dai palazzi  e i pescaresi la consideravano come un salotto e la 
chiamavano proprio così. Dove adesso c’è lo stadio c’erano solo le paludi. 
Lo chiamavano  il ”mare dei chietini”, perché  i  chietini  ci  venivano  a  prendere  le  ranocchie; le catturavano  
con un attrezzo molto simile a “li ciucculare”, gli spezzavano le zampe per non farle saltare e le riponevano in 
un sacco che tenevano a tracolla. 
Sotto il ponte si mettevano le barche che vendevano le arance. I pellegrini che venivano a Pescara per le feste 
di San Cetteo o di Sant’ Andrea si fermavano vicino al ponte per comprare le arance. 
Lungo la Pescara e “alla marina” passavano due volte l’anno “li picurare”. 
Era sempre una festa e i pescatori gli davano le sardelle salate e il sale, pizze di “randigna” e anche qualche 
pesce, loro li ricambiavano con pizze di formaggio e la ricotta. 
Alla Pineta  ci si andava sempre in tutte le stagioni; a primavera per le scampagnate, l’estate per il mare, 
l’autunno e l’inverno ci andavano i cacciatori perché era pieno di beccaccini e altri uccelli. 
Lungo la riviera non c’erano case ma soltanto stabilimenti balneari;  i signori con  il tram o con la carrozza tutti 
con i cappelli larghi, andavano alla Pineta; le persone di poco conto, invece andavano a “lu mare vicchie” in 
fondo a Via Vespucci. Chi andava al mare vecchio si portava quattro canne e dei teli, si costruivano sulla 
spiaggia delle baracchette per fare ombra. 
Si chiamava mare vecchio perché sulla spiaggia l’acqua del mare ristagnava durante la bassa marea e per la 
gente era un sollievo camminare ed evitare la sabbia rovente. 
I ragazzi erano divisi in bande: c’era quella dell’Aterno, quella dei “fornari” formata dai figli  e dai garzoni dei 
fornai di Corso Manthonè e quelle delle due marine “di qua” e “di là” che erano le più forti. Si andava appresso 
a tutti i cortei, agli sposi per prendere i confetti e i soldi che si tiravano appresso, alle fanfare, alle parate 
militari. Alla festa di San Ciattè si andava per rubare i lupini e le “nocelle”:  Ci si divertiva con poco. Si andava 
per fossi a prendere le ranocchie, si giocava con scatole di conserva o di lucido di scarpe con cui si facevano 
i botti.” 
PESCARA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE 
Senza dubbio la Pescara che il 10 giugno del 1940 ascoltò alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini, 
era una’ città nuova’ forgiata dal fascismo, una città dagli slanci dannunziani e dai rapidi ritmi di cambiamento. 
Dal 1940 alla metà del 1943 la città ebbe un impatto solo indiretto con la guerra, dopo essersi illusa a seguito 
dell’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) di poter uscire indenne dalla spirale del conflitto, la città venne 
travolta dalla violenza bellica. 
Le prime bombe caddero sulla città il 31 agosto del 1943 sganciate dai liberators: bombardieri della aviazione 
americana che, giungendo dal mare in più ondate seminarono il loro carico mortale nella zona compresa tra il 
ponte e la stazione centrale , nel primo pomeriggio mentre la gente, dopo un primo allarme stava ritornando 
nelle casa e negli alberghi per la pausa pomeridiana. 
Non c’erano artiglierie  antiaeree non apparecchi da caccia a proteggerla, pur essendoci l’aeroporto preso in 
consegna dalla Provincia nel 1929.  In tre ondate successive gli aerei  depositarono il loro carico distruttivo 
sulle costruzioni che cedettero il loro spazio a Piazza Salotto e spargere rovina tra via Fabrizi e via Firenze, in 
via Ancona e in Corso Vittorio Emanuele. 
Il Palazzo del Governo, che ospitava il presidio militare, fu in parte danneggiato. 
Non fu colpita la stazione, ma le bombe ad essa destinate fecero strage nel vicino e affollatissimo albergo 
Leon d’oro e subì danni anche il Palazzo delle Poste e  la zona di via Salara, alle spalle della stazione ebbe 
intere file di case ridotte in polvere. Cadde probabilmente anche il campanile del Sacro Cuore. L’opera di 
recupero delle salme durò tre giorni, ma il numero delle vittime, parte rimaste sotto le macerie e parte sepolte 
in grosse fosse comuni, non fu accertato. Secondo alcuni furono 1800, secondo altri 1600, altri ancora 900 
morti e un migliaio di feriti. 
Più che il primo sorprese dolorosamente il secondo bombardamento di martedì 14 settembre: quando gli animi 
si erano riaperti alla speranza a seguito dell’armistizio dell’8 di quel mese. 
Anche questa volta i bombardieri giunsero dal mare, alla stessa ora, ma seguirono una direttrice di attacco 
perpendicolare a quella del martedì di due settimane prima, in modo da disegnare, col primo tragico passaggio, 
una croce sulla città, secondo le notazioni di  Manlio Masci.  
Fu colpita pesantemente anche la vecchia Pescara, Porta Nuova, ma ne uscirono indenni la nuova San Cetteo 
e la casa natale di Gabriele D’Annunzio. 
Si parla questa volta di 600 morti certi alla stazione centrale, molti dei quali forestieri di passaggio, dove sembra 
si fosse riversata una grande folla intenta a vuotare, secondo Colacito uno dei tanti convogli militari carichi di 
roba che, dopo l’armistizio, non giungevano più alla loro destinazione. Questa volta la stazione fu centrata e 
distrutta e il numero complessivo delle vittime ritenuto oscillante sino a un massimo di 2000. 
La cittadina viene citata nei volumi di storia generale per essere stata una delle ultime tappe della “fuga 
ingloriosa” del re Vittorio Emanuele III di Savoia e dei vertici politico-militare dello Stato italiano, ma in realtà il 
passaggio del secondo conflitto mondiale ebbe su di essa, come per l’Abruzzo le caratteristiche di una guerra 
totale soprattutto per il pesante coinvolgimento delle popolazioni civili. 
I pescaresi, che solo in parte avevano abbandonato la città per i colli e le campagne, ma vi avevano fatto 
presto ritorno, ripresero la fuga in massa, mentre sulla città continuarono a cadere bombe anche il 16 il 17 e 
poi l’8 dicembre, quando distrussero la chiesa di San Giacomo e quella del Rosario. Ma le nuove bombe, se 
ancora producevano danni, non facevano ormai più vittime, perché la città  “spettrale cumulo di rovine” 
secondo quanto dice Costantino Felice era ora quasi deserta. E lo fu maggiormente dal febbraio del 1944, 
quando i tedeschi che la occupavano, temendo sbarchi nemici, ordinarono lo sfollamento generale che tuttavia 
non fu mai proprio totale. 
Giunse poi l’ora dei saccheggi. 
Erano in prima linea i tedeschi , i quali, partendo dai paesi intorno dove erano i loro comandi, vi tornarono con 
i loro automezzi carichi di biancheria di suppellettili e di quanto faceva loro comodo. Accanto ad essi i civili: 
alcuni sciacalli saccheggiarono anche la casa natale di Gabriele D’Annunzio, della quale furono asportati, tra 
l’altro anche gli orecchini di brillanti di una Madonna nella camera in cui era nato il poeta. 
Manlio Masci ricorda l’inutile prudenza di don Brandano che si preoccupò di mettere in salvo in una cassetta 
di sicurezza del Banco di Roma le lettere ricevute da Gabriele D’Annunzio e una croce di ametiste che il vate 
gli aveva donato, ma tutto andò perduto, perché le banche, dopo il secondo bombardamento, lasciarono 
Pescara e furono saccheggiate. 
L’agonia finale della città venne completata nella tarda primavera del 1944, quando i tedeschi e neofascisti in 
ritirata, allo scopo di disporre la difesa contro un eventuale sbarco alleato disseminarono  la spiaggia e il porto 
di mine e, per ottenere determinate visuali dell’orizzonte e del  mare abbatterono edifici e palazzi sontuosi 
orgoglio e vanto della giovane città tra cui il Palazzo di Città, il Ponte Littorio e il recente nuovo molo del porto 
frantumati nel giugno del 1944 al momento della ritirata. Altre mine rimasero inesplose dove erano state 
nascoste e non brillarono se non negli anni successivi, ogni volta che le vittime ignare le calpestavano lungo 
la spiaggia saltando in aria a brandelli. 
Quando l’esercito britannico entrò a Pescara nel giugno del 1944 lo spettacolo dei due tronconi urbani di nuovo 
isolati tra loro dalla mancanza di un ponte, era spettrale. 
Uno specchietto del Genio Civile indica in 1265 gli edifici completamente distrutti e in 1335 quelli gravemente 
danneggiati, l’architetto Picconati nel piano di ricostruzione parla del 69 per cento  di fabbricati distrutti. 
Fu una sorta di  ‘ anno zero’  dopo il quale era necessario ricominciare da capo. 
Sui  motivi  dei tali bombardamenti proprio su Pescara si è molto discusso. 
E’ opinione dei più che gli anglo-americani abbiano voluto colpire in maniera indiscriminata la città 
dannunziana perché essa rappresentava una realizzazione del fascismo, una realtà di giovinezza voluta dal 
regime: con la elevazione a capoluogo di provincia di una modesta cittadina che aveva anche intitolato alla 
Conciliazione la sua nuova grande chiesa dedicandola contemporaneamente alla casa Savoia e a Mussolini 
e custodiva come monumento nazionale la casa in cui era nato l’esaltatore delle glorie nazionali e delle virtù 
guerriere del popolo italiano. 
Ma la storiografia nazionale più aggiornata ritiene che , anche se da parte degli alleati siano stati gravi: gli 
errori, le incertezze, i bombardamenti inutili nei confronti delle inermi popolazioni civili, ciò avvenne in tutta la 
guerra condotta in Italia.  Un tale elemento punitivo, se sia stato presente nei comandi alleati, fu del tutto 
marginale rispetto alle vere finalità delle incursioni aeree giuste o sbagliate che fossero. 
Pescara molto più probabilmente fu colpita per motivi militari  perché era un vitale nodo ferroviario e stradale 
e Corso Vittorio era un tratto della Nazionale Adriatica essenziale in quel momento, dopo lo sbarco degli alleati, 
per rifornire le linee della difesa tedesca. 
Inoltre concentrare l’attenzione solo sulle colpe degli anglo-americani, rischia di far passare in seconda linea 
le vere cause che condussero la città a quel momento così drammatico e di non considerare che la fase storica 
e le sue conseguenze tragiche arrivavano da vent’ anni di dittatura dell’alleanza italo-tedesca e dalle 
responsabilità dei nazifascisti che avevano scatenato un conflitto di tali proporzioni. 
Il SECONDO DOPOGUERRA 
Pescara era tornata alla pace e alla vita democratica, ma lo scenario materiale economico e sociale che si 
presentava agli amministratori era disastroso. Le attività economiche ridotte al minimo, le macerie come 
principale panorama cittadino. 
I “senza tetto” si contavano a migliaia, le comunicazioni difficili. 
La città ridotta a un cumulo di rovine, rimosse le macerie, sanate alla meno peggio le ferite,  prese a crescere 
di nuovo per l’afflusso favorito dalla depressione delle zone interne d’Abruzzo e di altre regioni.  
Furono comunque soprattutto le possibilità offerte dall’industria edilizia a richiamare braccia insieme alla 
possibilità del mercato piccolo e grosso che la città in sé e la sua posizione favorivano. 
Intanto nel 1944- 1945 fu ricostruita la stazione. 
Gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara, mecca e miraggio dei popoli di montagna. 
La popolazione che nel 1936 sfiorava i 52 mila abitanti nel 1946 superò i 68 mila. 
Ma se la dimensione dello sviluppo fu notevole non portò con sé un’apprezzabile qualità. 
Mario Fondi nel volume del 1970 dedicato all’Abruzzo e Molise, scrisse che nel primo periodo del dopoguerra 
si incontravano marinai, agricoltori, pastori e mercanti improvvisati impegnati in affari disordinati e lo sviluppo 
urbanistico avvenne caoticamente, senza un piano preciso affidato quasi sempre alla iniziativa dei privati più 
facoltosi o più avventurosi. 
La città crebbe soprattutto in altezza senza un piano preciso, con la sostituzione di palazzine a due piani e 
villini con ampi edifici di cemento, col sacrificio del verde pubblico e il conseguente congestionamento del 
centro. 
Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” nel 1957 descrive così il fermento innato della città: 
“Ecco invece, unica in Italia, una città ribollente, confusa, in cui uomini e gruppi affluiscono, si accavallano 
come onde. Per un lato Pescara si può dire la più abruzzese delle città abruzzesi, per un altro lato è l’opposto 
della regione di cui assorbe la linfa” 
Ricostruzione storiografica della Storia di Pescara. I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato di Pescara 
dalla Storia di Pescara di Luigi Lopez e la collaborazione dell’architetto Nino Colleruoli.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli 
email: mancinellielisabetta@gmail.com