lunedì 10 dicembre 2018

La storia di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara


L’angolo riservato alla storia si occuperà questa volta di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara a cui è dedicato il Museo omonimo di Arte Moderna e un’importante viale di Pescara.

Biografia

Vittoria nacque nell’aprile del 1492 nel Castello di Marino sui Colli Albani da Agnese di Montefeltro (figlia di Federico duca d’Urbino) appartenente ad una delle più antiche famiglie principesche d’Italia e da Fabrizio Colonna uno dei più grandi Capitani del suo tempo.
Fanciulla di rara bellezza adornava le sue chiome, dai riflessi dorati, di fiori leggeri, come viene raffigurata in un presunto ritratto di Michelangelo. I suoi genitori la indirizzarono nello studio delle Lettere e le inculcarono virtù morali a cui comunque era naturalmente predisposta. Crebbe tanto in sapere e in bellezza sia interiore che esteriore che i Duchi di Savoia e di Braganza chiesero la sua mano.
Intanto i Colonna, che per ragioni politiche si erano trasferiti a Napoli, entrarono in amicizia con la famiglia D’Avalos che li ospitò per molti anni al Castello di Ischia. Grazie alla presenza colta e raffinata di Costanza D’Avalos, duchessa di Francavilla, il maniero era diventato uno dei centri culturali della corte aragonese: un mondo nel contempo frivolo, sofisticato e grondante di dottrina umanistica che Vittoria ebbe intorno nella sua adolescenza. L’amicizia fra le due famiglie, i Colonna e i D’Avalos, fu consolidata dalla decisione di concordare il matrimonio tra i propri figli, ancora bambini di cinque anni, col beneplacito di re Federico, favorevole a un’unione che avrebbe rafforzato il legame tra i Colonna e la Corona Spagnola.
Il matrimonio

Vittoria sposò dunque Francesco Ferrante D’Avalos a poco più di sedici anni senza mai aver visto il suo sposo, ma per fatalità tra i due nacque un amore fortissimo che li accompagnò per tutta la durata della loro vita. Il legame stretto fra due discendenti di tanto illustri casate fu ovviamente molto fastoso e memorabile per il lusso e la magnificenza del convito e si svolse nel Castello Aragonese di Ischia. Le cronache dell’epoca si soffermano con dovizia di particolari a descrivere sia la magnificenza degli abiti (la sposa indossava una veste di broccato bianco con rami d’oro adornata di un mantello azzurro) che la ricchezza dei doni, come il letto alla francese di raso rosso foderato di taffettà azzurro, regalo del padre, Fabrizio Colonna, e una croce di diamanti e dodici braccialetti d’oro, dono dello sposo. Alle nozze parteciparono le migliori famiglie della nobiltà napoletana.
E’ molto probabile che la marchesa, durante i festeggiamenti di nozze, non abbia potuto fare a meno di pensare che, sposando il giovane, valoroso, quanto ambizioso capitano, avrebbe condiviso il destino di solitudine di sua madre Agnese di Montefeltro, sposa di Fabrizio Colonna, uno dei più valenti capitani del tempo, tanto che la sua fama d'uomo d'armi indusse il Machiavelli a farne uno degli interlocutori nei suoi «Dialoghi sull'arte della guerra”.
Ben presto Ferrante, infatti, insignito anche del titolo di marchese di Pescara, lasciò la giovane sposa, e partì agli ordini del suocero Fabrizio Colonna, militando sotto le bandiere spagnole nella guerra che opponeva Ferdinando il Cattolico al re di Francia.

La vita nel castello

Vittoria dopo il suo matrimonio dimorò quasi ininterrottamente a Ischia nel Castello Aragonese dal 1509 al 1536.
Durante la sua permanenza nell’isola strinse amicizia con la duchessa Costanza di Francavilla, castellana colta ed energica. Costanza figlia di Innico I d'Avalos e Antonella d'Aquino rimase vedova di Federico del Balzo e fu investita dal re Federico d'Aragona del ducato di Francavilla e seguì ad Ischia il fratello Inigo II, marchese del Vasto e governatore dell'isola.
Nel 1503 Costanza rifiutò di consegnare Ischia ai Francesi e organizzò una eroica resistenza contro la loro flotta. Nel 150 ottenne il governatorato e il possesso dell'Isola. Con Costanza d'Avalos il Castello di Ischia divenne una raffinata corte, frequentata dai maggiori ingegni del tempo e da numerosi accademici napoletani. A lei fu affidata l'educazione dei nipoti Costanza (duchessa di Amalfi), Alfonso (marchese del Vasto) e Francesco Ferrante (marchese di Pescara).
Al Castello giunse anche Vittoria Colonna a cui Costanza fece impartire una raffinata educazione umanistica. In quel periodo il Castello raggiunse il suo massimo splendore. E’ molto probabile che Costanza (per alcuni critici l’ispiratrice della Gioconda di Leonardo) abbia trascorso dei periodi nel palazzo del fratello Innico II d'Avalos a Vasto e successivamente, anche presso il nipote Alfonso II a Francavilla e che insieme a Vittoria Colonna moglie del nipote Francesco Ferrante D'Avalos, abbiano soggiornato nella nostra città e forse anche passeggiato per i Giardini d'Avalos.
Costanza diventò dunque per la giovane Vittoria una preziosa confidente e una guida anche per la sua formazione letteraria per la quale non tardò a brillare a corte, tanto che i letterati chiamati dalla duchessa facevano a gara per celebrare e corteggiare la marchesa di Pescara ammirata per la sua cultura e la sua bellezza. Questi anni la videro musa di un cenacolo di letterati umanisti tra cui Bernardo Tasso padre di Torquato, Cariteo e Sannazzaro e le ispirarono composizioni amorose intrise di nostalgia e spiritualismo di stile petrarchesco.
La sua attività letteraria potrebbe essere ripartita in tre periodi: nel primo, anteriore al 1538, in cui è predominante il tema amoroso ,compone le Rime suddivise in Rime amorose e Rime spirituali a questo tema, nel periodo compreso fra il 1538 e il 1540, si aggiunge il problema religioso che, nel terzo periodo (dal 1540 al 1547) diviene il motivo predominante negli scritti della marchesa: tra questi: il Pianto per la Passione di Cristo e l’Orazione sull ’Ave Maria . Ebbe anche un intenso carteggio con Michelagelo dove si riflettono le fasi più tormentate delle loro vite.
Vittoria, donna molto sensibile, nutrì un grande affetto per il piccolo Alfonso di Vasto, cuginetto di Ferrante, che fu amato dalla poetessa al pari di un figlio. Una maternità spirituale così sentita che lo designò suo erede ed ebbe per lui parole di grande orgoglio quando, rispondendo anche ai pettegolezzi di corte della sua presunta sterilità, affermò “non son sterile veramente , sento nato dal mio intelletto costui”.
Vittoria e Francesco D’Avalos , costituivano , come testimonia in un suo scritto l’accademico Giambattista Rota nel 1720, una ragguardevole coppia che non ebbe pari nell’Italia di quei tempi per l’importanza delle loro casate, per la loro avvenenza , la loro cultura e la loro virtù.
Vittoria, per le sue accennate doti, si distingueva dalle altre del suo sesso e Francesco, il marchese suo sposo, aveva pochi eguali tra i suoi coetanei. Oltre a una buona cultura letteraria fin dalla sua prima giovinezza, si distinse nell’esercizio delle armi e ascese ai supremi gradi della milizia divenendo il più saggio e prode Capitano del suo tempo.
Vittoria, benchè si dolesse molto di dover vivere lontana da lui, non cercò mai di distoglierlo dal dedicarsi alle attività belliche ricordandogli soltanto di non lasciarsi accendere troppo dal desiderio della gloria e di curarsi della propria salute. Il marchese, appena arrivato in campo, giovinetto di 21 anni, per il suo valore venne scelto all’importante carica di Capitano dei Cavalleggeri. Pochi mesi dopo, combattendo coraggiosamente nella battaglia di Ravenna, fu fatto prigioniero dai nemici e condotto a Milano dove rimase in carcere per poco tempo in quanto, per intercessione di suo zio materno, fu liberato.
In questa occasione scrive un piacevole “Dialogo d’amore” per la sua sposa Vittoria nel quale esprime l’amore che le porta e quanto gli duole stare lontano da lei. Rimasta sola la giovane donna si dedica allo studio delle buone lettere e, per poter farlo meglio, si reca da Ischia a Napoli dove, nei giorni di riposo delle sue attività belliche, può anche incontrare il suo sposo e godere insieme con lui le delizie della campagna.
A Napoli Vittoria vive quasi sempre in casa in quanto aborrisce “i vani sollazzi”, come dice l’accademico Giambattista Rota in “Rime di Vittoria Colonna” nel 1760, e si dedica allo studio della erudizione antica e della poesia italiana e ai suoi componimenti poetici in cui spesso decanta le imprese di suo marito

La morte di Ferrante

Gli anni ischitani di Vittoria furono segnati da gravi lutti: nel 1516 la morte del fratello Federico in giovanissima età, nel 1520 la perdita del padre Fabrizio e nel 1522 della madre Agnese di Montefeltro, in questa triste occasione riabbracciò il suo sposo. Ferrante poi venne chiamato nuovamente da Carlo V a capo del suo esercito e partì per la Lombardia, dove nel corso della memorabile battaglia di Pavia nel febbraio del 1525 venne sconfitto e fatto prigioniero Francesco I.
Durante i combattimenti il marchese di Pescara rimase gravemente ferito in molte parti della sua persona.
In questa occasione vari principi uniti ordirono la congiura cosiddetta di Morone contro il re Carlo V e offrirono al marchese il Regno di Napoli come ricompensa della sua infedeltà. Vittoria, temendo che venisse abbagliato “dallo splendore del diadema e accettasse l’offerta” gli scrisse “ che volesse ricordarsi della sua virtù …perciocchè non con la grandezza dei Regni e de’ titoli, ma per la via della virtù l’onore si acquista”.
Questa lettera ebbe molto effetto sull’animo nobile e virtuoso di Francesco che, come racconta sempre il Rota, “anziché fare cosa contraria alla virtù” rinunciò apertamente alle speranze del trono. Non molto tempo dopo a causa delle infermità seguite ai combattimenti il Marchese divenne sempre più debole e nessuna medicina gli procurava sollievo. Ritenendosi in fin di vita ne diede avviso alla moglie affinchè si recasse a Milano in modo che la potesse rivedere prima di morire. In pochi giorni egli peggiorò tanto che, sentendosi vicino alla morte, fece chiamare a sé il Marchese di Vasto suo cugino e gli raccomandò l’amatissima moglie e, dal momento che non aveva avuto figlioli in 19 anni di matrimonio, la dichiarò erede di tutto il suo patrimonio. Vittoria non seppe subito o non comprese la gravità dell’ infermità del marito, ma, alla notizia del peggioramento del suo stato di salute, partì col suo seguito, passò per Roma , dove fu accolta con grandi onori e si accinse poi a proseguire verso Milano , ma a Viterbo, ebbe la notizia funesta della morte del suo amato sposo. Non poteva la sorte percuoterla con maggior colpo: si abbandonò al suo dolore tanto che perse i sensi e cadde da cavallo.
Nei sette anni successivi alla vedovanza pianse costantemente la morte di lui e compose Rime in suo onore lasciando ai posteri un raro esempio di costanza e fedeltà coniugale.
Tornata a Roma chiese il permesso di ritirarsi nel convento di san Silvestro in Capite a papa Clemente VII, il quale acconsentì, ma con espresso divieto di prendere il velo. Questo fu solo l’inizio del suo peregrinare che la condusse di preferenza nella quiete dei conventi, dove scrisse versi e lettere pieni di rimpianto per il “bel sole” perduto.

Il ritorno al paese natale e la fuga

Allora Vittoria aveva 35 anni e, ancora di fresca bellezza, era divenuta celebre come poetessa e letterata perciò alla sua mano aspiravano vari principi verso i quali cercavano di disporla i suoi fratelli per ragioni politiche, ma lei, ben lontana dall’ascoltarli, usava loro rispondere “ che il suo sole , quantunque dagli altri fosse riputato morto, appresso di Lei, sempre vivea”.
Tuttavia il desiderio di Vittoria di vivere in ritiro fu contrastato dalla famiglia Colonna, in modo particolare dal fratello Ascanio uomo turbolento e difficile che riuscì a persuaderla a ritornare a Marino .L’insistenza di quest’ultimo era dovuta al fatto che la presenza della sorella , dama romana e spagnola colta, risultava particolarmente preziosa in quegli anni caratterizzati da feroci dissidi tra la Chiesa e i Colonna. Il pontefice Clemente VII , per vendicarsi degli oltraggi subiti, comandò di radere al suolo i castelli del Colonna costringendoli alla fuga. La stessa Vittoria, nonostante in ogni modo cercasse di mettere pace tra i contendenti, dovette fuggire da Marino a Napoli e poi al caro rifugio di Ischia.
Durante il Sacco di Roma dei lanzichenecchi del 1527, perpetrato dalle milizie mercenarie di Carlo V che mise a ferro e a fuoco la Città Eterna, ebbe gran parte negli aiuti alla popolazione romana: scrisse a quanti potevano intervenire per mitigare gli effetti di quella tragedia, offrì le proprie sostanze per riscattare i prigionieri e, insieme a Costanza D’Avalos (succeduta al fratello Inigo II alla guida dell’isola) accolse le molte dame e letterati che cercarono rifugio sull’isola. Diede inoltre il suo contributo alla salvezza dello stesso papa ottenendo poi da lui il dono del feudo di Pescocostanzo. A proposito di questa cittadina è da notare che, passata sotto la signoria di Vittoria, non solo vi cominciò a fiorire l’arte ma ,mediante la cosiddetta “Commissione della signora” da lei promulgata, attuò una programmazione urbanistica rigorosa , illuminata e armonica seguendo i canoni rinascimentali. Una specie di piano regolatore che è stato rispettato e si è conservato mirabilmente attraverso i secoli resistendo a guerre e a sismi testimone stesso nel tempo dell’impegno statutario di salvaguardia del patrimonio di bellezze culturali e ambientali.

L'amicizia con Michelangelo e la morte

Quando nel 1531 a Napoli scoppiò la peste e raggiunse anche Ischia , Vittoria si trasferì ad Arpino e di là a Roma dove, riguardo la polemica sui Cappuccini, prese apertamente posizione a favore di essi duramente attaccati per le novità di cui si facevano propugnatori a livello religioso : di apertura alle teorie protestanti . Nella città strinse molte amicizie illustri tra cui quella con il cardinale Bembo che le fu devoto. Caldeggiò il progetto di indurre l’imperatore a un’impresa in Terra Santa , ma poi rinunciò a questo proposito e pensò di recarvisi lei stessa come umile pellegrina e nel 1537 si trasferì a Ferrara , in attesa del parere favorevole del papa Paolo III per poter da lì proseguire e poi imbarcare da Venezia. In questa città la sua presenza fu molto gradita alla duchessa Renata di Francia e al duca Ercole d’Este. Affascinata dal clima riformato , intellettuale e vivace Vittoria smise di parlare del viaggio in Terra Santa, anche per il parere contrario del marchese di Vasto, e si fermò a lungo nella corte estense. Da lì si portò a Roma a causa della sua cagionevole salute e, fra gli incontri di questi anni, vi fu anche quello importantissimo con il grande Michelangelo conosciuto nella capitale nel 1538 . Nacque un’amicizia indissolubile e profonda: un legame forte e segreto fatto di ideali e di fede, di cui è testimone tra l’altro il giovane portoghese Francisco de Hollanda, che raccoglie nei “Dialoghi romani” i ricordi del suo soggiorno italiano alla fine degli anni Trenta.
Nel libro la poetessa e l’artista figurano come interlocutori uniti da un intenso scambio di idee e da comuni interessi poetici. Il colloquio tra Vittoria e Michelangelo, iniziato negli incontri romani e rinsaldato nelle lettere, non può non esprimersi anche nella poesia, come documenta lo scambio di rime tra i due.
Ma la profondità dell’affetto che li unisce si esprime nei celebri disegni che Michelangelo esegue per Vittoria ancor oggi celeberrimi : “La Crocifissione con il Cristo vivo” , opera perduta ma nota attraverso disegni preparatori del British Museum di Londra e del Louvre, “La pietà dell’Isabella” del Stewart Gardner Museum di Boston: riflessione sulla figura di Cristo che riporta a uno degli aspetti cruciali del dialogo tra l’artista e Vittoria , il “Cristo e la Samaritana” ,di cui è giunto fino a noi uno studio parziale di Michelangelo, e infine un foglio con “Il Crocifisso tra due angeli piangenti” ultimo dono di Michelangelo alla sua amica.
Il Buonarroti comprese in pieno la figura e la personalità di Vittoria: perfetta espressione del secolo , connubio profondo di cristianesimo e platonismo autrice di versi di grande forza di persuasione che suscitarono l’ammirazione dei contemporanei . Michelangelo così poeticamente la definisce “Un uomo in una donna, anzi un dio”.
Quando il conforto che gli arrecava l’affetto di Vittoria era ormai prossimo ad abbandonarlo per l’aggravarsi del suo stato di salute, rimane, come testimonia il biografo di Michelangelo Ascanio Condivi, “sbigottito e come insensato” e si lascia andare sempre più alla sua angosciosa solitudine.
Il Buonarroti, suo ammiratore devoto, la vegliò fino all’ultimo e inconsolabile per il dolore di questa perdita scrisse: “Morte mi tolse un grande amico”. Quando Vittoria si spegne il 25 febbraio 1547 dopo lunghissima malattia, l’artista è a Roma, lontano dalla sua Firenze quindi in “Roma straniera”.

Michelangelo visita la salma di Vittoria Colonna di Francesco Jacovacci.
Preso da grande sconforto compone in sua memoria il “Lamento per la morte di Donna Vittoria Colonna Marchesa di Pescara” che è, come lui stesso lo definisce, “un compianto su se stesso per la morte di Vittoria”.
L’Inquisizione, intanto, andava raccogliendo prove contro di lei che, con le sue idee e posizioni di avanguardia, assunte negli ultimi anni della sua vita, fu sospettata di eresia. Secondo lo storico Nunzio Albanelli e anche altri studiosi, la Colonna stava per essere sottoposta ad un processo, forse fu la morte avvenuta il 25 febbraio 1547, a sottrarla ad un giudizio molto pericoloso in quegli anni che, peraltro, subirono molti suoi compagni dei cenacoli di un tempo accusati di eresia. E proprio quel sospetto che aleggiava sulla marchesa di Pescara è probabilmente all’origine della scomparsa delle sue spoglie mortali. Albanelli si è dedicato con grande passione a fare luce su questo aspetto della storia di Vittoria Colonna, consegnando le sue conclusioni al libro “ Vittoria Colonna e il suo mistero”. “Vorrei che ci si adoperasse per ritrovare con un’iniziativa ufficiale il corpo di Vittoria Colonna” ha sottolineato lo studioso isolano. E del mistero della marchesa probabilmente ne sentiremo ancora parlare in quanto gli studi continuano.
Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
I documenti e le immagini sono tratti da “Michelangelo e Dante” di Corrado Gizzi
“Il sacco di Roma” di Antonio Di Pierro
“Rime di Vittoria Colonna” di Giambattista Rota
“Vittoria Colonna e Michelangelo” di Vittoria Romani
“Vittoria Colonna e il suo mistero” di Nunzio Albanelli.

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