Le tradizioni popolari in
Abruzzo
L’etimologia del termine “folklore” deriva dall'unione di due parole di antica
origine sassone: “folk” popolo e “lore” sapere, sapere del popolo.
Lo studio
e l’interpretazione delle tradizioni popolari in Abruzzo sono iniziati ad opera di
studiosi che ne avevano intuito l’importanza molto tempo prima che Gramsci così definisse il folclore: “non una bizzarria, una
stranezza, una cosa ridicola ma una
cosa molto seria.
Finora il folclore
è stato studiato prevalentemente come elemento pittoresco, occorrerebbe studiarlo invece come concezione del
mondo e della vita”.
Uno dei padri delle
tradizioni popolari si deve ritenere il medico siciliano Giuseppe Pitrè che iniziò il lavoro di
raccolta, studio ed interpretazione del folclore con la creazione della
Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane.
Egli uscì dai
confini della sua isola e si relazionò con altri studiosi tra cui l’eminente antropologo Gennaro
Finamore (Gessopalena 1836-1923) che per primo sistemò organicamente la
cultura popolare abruzzese; anch’egli medico, proprio dall’esercizio della sua
professione ebbe il primo impulso a raccogliere i documenti della vita popolare
della nostra regione. I suoi due volumi "Curiosità e credenze" costituiscono il corpus
più completo delle tradizioni regionali: materiale relativo a credenze, consuetudini,
superstizioni, norme di medicina popolare. Suo contemporaneo e altro
studioso del folclore abruzzese fu Antonio
De Nino (Pratola Peligna 1832- 1907) che si dedicò agli studi demiologici e
linguistici contenuti nella sua raccolta
“Tradizioni popolari abruzzesi” che fu definita letteraria in contrapposizione
a quella dello scientifico Finamore. Un
saggio di questa tipologia di studi è il racconto “La gallina nera” ispirato
alla credenza popolare secondo cui la cresta della gallina nera guarisce dal
mal di testa. Anche il sulmonese Giovanni Pansa (1865-1929) legò il suo nome ad importanti
ricerche relative a superstizioni e miti
abruzzesi. I suoi due volumi “Miti e
leggende e superstizioni d’Abruzzo” sono ritenuti fondamentali per gli studi etnografici
regionali. Il Pansa si è dedicato nello specifico al culto delle grotte, delle
pietre miracolose e alle usanze devozionali nei pellegrinaggi in particolare agli
‘strofinamenti rituali nei confronti dei quali lo studioso mostra uno spirito interpretativo all'avanguardia ritenendo queste antiche pratiche, ancora esercitate in
qualche santuario, finalizzate ad ottenere un contatto completo con la
divinità dalla quale ci si aspetta di ricevere guarigioni e grazie.
Domenico
Ciampoli (Atessa 1852-Roma 1926) narratore e saggista fu un fecondo
scrittore di fiabe e racconti in stile verista ispirati alla tradizione
folcloristica abruzzese e, anche se non fu un vero e proprio studioso, trascrisse leggende e credenze della vita popolare del
proprio tempo. Nella sua raccolta “Fiabe abruzzesi” descrive il mondo agropastorale, le celebrazioni votive del
mese di maggio in onore della Madonna e le consuetudini magico-sacrali legate al matrimonio.
CREDENZE POPOLARI, RITI E PRATICHE MAGICHE
Dalle ricerche e dagli studi compiuti da questi padri del folklore
e delle tradizioni popolari sono venuti alla luce tutta una serie di documenti riguardanti i riti
di magia, le superstizioni e le terapie naturali dei tempi passati. Tante
erano le pratiche magiche che avevano lo scopo di scongiurare gli eventi
da ogni influsso negativo proveniente dal soprannaturale. Queste riguardavano
tutti gli aspetti e le tappe della vita umana secondo un ritmo cadenzato del
tempo: la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la morte.
Numerose erano le credenze
popolari che accompagnavano la nascita di un bimbo e i suoi primi anni di vita, si tratta in genere di una serie di precauzioni miranti a tenere lontano i
mali, da quelli reali a quelli “magici”. La necessità di protezione da
quanto può provocare danno anche da un’occhiata invidiosa, causa di malocchio,
si spiega con il fatto che la venuta dei figli era considerato segno della
benevolenza divina in Abruzzo come in tutto il centro Sud. Antiche usanze al
riguardo erano il divieto di baciare il bambino prima del battesimo e quella di
appendere alla camicina del neonato cornetti, oggetti d’oro e d’argento a forma di cuore.
Molti erano gli scongiuri per i mali dell’infanzia dalle forme di incantesimo
per la verminara e il Fuoco di Sant'Antonio ai riti per la propiziazione del buon afflusso
del latte materno con il ricorso all'acqua “terapeutica” di alcune fontane
considerate miracolose, dedicate alla Madonna a Santa Scolastica e Santa
Eufemia. Riguardo il fidanzamento e gli usi nuziali vi erano norme particolari nella scelta della sposa, la richiesta ai
genitori, il trasporto della dote, il canto della partenza, il pianto rituale
della madre per il distacco dalla figlia.
Ma un momento importante era
rappresentato dal trasporto della dote nuziale: venivano scritti veri e propri
contratti tra i genitori degli sposi nel corso di lunghe riunioni alla presenza
di testimoni. Il trasporto avveniva il un lungo corteo di carri addobbati in cui la biancheria veniva esposta in modo
che tutti ne potessero ammirare merletti
e ricami. In alcuni paesi vi era l’usanza di seguire gli sposi in
corteo dopo il rito religioso e creare barriere di nastri colorati con cui i partecipanti sbarravano il cammino al
seguito nuziale
che potevano venire
tagliati dallo sposo solo dopo il pagamento di un metaforico pedaggio in dolci,
confetti e denaro. La festa comportava la partecipazione di tutto il paese
e le più antiche costumanze vogliono che
il banchetto nuziale considerato un vero e proprio rito di aggregazione, si tenesse a casa della
sposa e durasse molte ore. Esso era rallegrato da canti e brindisi che
inneggiavano alla bellezze della sposa, auguravano ricchezza e abbondanza
soprattutto di figli e tessevano complimenti per il cibo e il vino. Le usanze
legate alla morte secondo arcaiche tradizioni comportavano tutta una serie di
rituali dopo la constatazione del decesso. I familiari del defunto interrompevano
il lavoro, non dovevano pulire la casa e stare in silenzio. Al trapassato
venivano fatti indossare gli abiti migliori, le mani gli venivano giunte sul
petto e gli si metteva una moneta in bocca o in tasca che gli doveva servire perché si
potesse pagare il tragitto verso l’aldilà. La bara veniva
corredata di tutti quegli oggetti che furono in vita cari all'estinto,
cappello, pipa, bastone, attrezzi per la barba. Largamente in uso era il pranzo funebre, chiamato “consolo” preparato
da parenti ed amici della famiglia
dell’estinto a scopo consolatorio.
Terapie
naturali dei nostri nonni
Gli abruzzesi per secoli
per curarsi hanno ricorso
alla cosiddetta “farmacia del buon Dio” cioè alle erbe e ad altri
prodotti naturali.
Si trattava di ricette molto diffuse tra il popolo e alla portata di tutti a base di sambuco, rosmarino,
salvia, menta, camomilla, vino che venivano usati come veri e propri medicamenti. Per ogni malattia c’erano almeno
cinque erbe a curarla.
L’acqua del fiore di sambuco era considerata un rinfrescante, l’infuso di rosmarino misto a vino fermentato era usato per purificare le gengive
e profumare l’alito, il succo
delle rose veniva
ritenuto un ottimo aperitivo, mentre quello delle viole un
efficace purgativo. I distillati di fiori
di sambuco, di finocchi
e di salvia servivano
per lenire
il
male agli occhi,
mentre il mal d’orecchi si curava
con succo di
zucca unito ad
olio. Per far maturare
i foruncoli si usava un miscuglio di farina di miglio, mentre l’impasto di farina di fave
serviva a curare le piaghe. Per lenire gli arrossamenti dei lattanti si spalmava olio d’oliva talvolta mescolato con cipria. Il male alle ginocchia
si curava applicando stoppa imbevuta di vino nero. Il singhiozzo si debellava
sorseggiando lentamente uno sciroppo di papaveri misto ad orzo, il succo di
ciclamino serviva invece ad arrestare un’emorragia nasale, infine le piume di
pioppo, raccolte a suo tempo, sostituivano il cotone idrofilo.
Saponi
e detersivi di un tempo
Le casalinghe di
un tempo portavano a lavare lenzuola, federe e tovaglie al fiume le sbattevano
contro i sassi e poi le stendevano al sole sui prati finché non acquistavano il
candore ed il profumo caratteristico del bucato di un tempo. Il sapone per
lavare la biancheria si ricavava da lunghi e pazienti procedimenti. Si mettevano
, in un sacco appeso ad un chiodo della cucina o del fondaco, cenere , legna e calce miste ad acqua che si
aggiungeva di tanto in tanto.
Il liquido
che da esso gocciolava ,che aveva forti proprietà detergenti, veniva raccolto
in un recipiente e poi , mescolato ad
olio d’oliva di scarto ed a grassi di maiale, veniva fatto bollire fino ad
ottenerne un miscuglio pastoso e sodo. Una volta raffreddato veniva tagliato in pezzi di
sapone. La liscivia veniva ricavata dalla decantazione della cenere di
legna nell'acqua bollente e poi
usata in dosi misurate per mettere in
ammollo la biancheria sporca. Un altro lavoro che
richiedeva fatica e pazienza alle massaie di un tempo era la lucidatura dei
recipienti di rame: conche, pentole, tegami, bracieri e scaldini. Specialmente
in prossimità delle feste le donne di casa toglievano a questi recipienti la
patina scura strofinandoli con sabbia bagnata e poi con aceto e sale
risciacquando alla fine con acqua e sapone. La sabbia, il sale e l’aceto erano
usati quotidianamente dopo ogni pasto nel lavaggio di pentole e posate per farle tornare nitide e terse.
Ricostruzione
storiografica di Elisabetta Mancinelli email: mancinellielisabetta@gmail.com
I documenti sono tratti dall'Archivio di Stato, da “Il carnevale tradizionale abruzzese” di Francesco
Stoppa; da “Folklore abruzzese”, Lia Giancristofaro e da “Abruzzo” di Luciano
Verdone.
Le immagini sono tratte dal patrimonio fotografico di Tonino Tucci che
ne autorizza la pubblicazione.
Indirizzo: Via Veneto 10 Montesilvano te. 085
834879 email: tuccifotografia@libero.it
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