MAFALDA DI SAVOIA: IL CORAGGIO DI UNA PRINCIPESSA
Mite, intelligente e colta, sposa e madre esemplare, di grande fede
cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati, la
principessa Mafalda di Savoia fu donna
coraggiosa e rappresenta una vittima sacrificata sull'altare degli olocausti perpetrati in una guerra dove l’odio ha espresso le
sue più turpi facce.
Il sacrificio della
sua breve esistenza è l’ultimo atto di
una scena terrena caratterizzata
dalla presenza costante del Vangelo: anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri
c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in
particolare gli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono
proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una
principessa ma come una vostra sorella italiana».
LA VITA
Mafalda Maria Elisabetta di Savoia, secondogenita di re
Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma il 19 novembre
1902. Estroversa
e socievole, trascorse una giovinezza serena, grazie alla forte unione
familiare, alla presenza costante e dolce della regina Elena, all'affetto di
Vittorio Emanuele III, all'affiatamento con il fratello Umberto e le sorelle. Di indole docile, ereditò dalla madre il
senso della famiglia, i valori cristiani, la passione per l’arte e la musica. Amava
il ballo e in particolare la musica classica, soprattutto le opere di Giacomo
Puccini, il quale le disse che proprio a lei avrebbe dedicato la Turandot.
Trascorse infanzia e giovinezza divisa fra Roma, Racconigi, San Rossore. Durante la prima guerra mondiale seguì, con le
sorelle Jolanda e Giovanna, la madre la regina Elena, donna dall'altissimo profilo
spirituale, nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti collaborando agli innumerevoli atti di carità
verso i sofferenti ed i poveri. Poco più che ventenne incontra il landgravio Filippo d'Assia, il
grande amore della sua vita, giunto in Italia per i suoi studi di architettura. Mafalda supera l'opposizione della famiglia,
di Mussolini e del Vaticano, Filippo era di fede protestante e riesce a sposarlo a Racconigi, il 23 settembre 1925. Vittorio Emanuele III per l’occasione donò
alla figlia un piccolo casale romano situato fra i Parioli e Villa Savoia: Villa Polissena.
Dalla
loro felice unione nacquero quattro figli: Maurizio d’Assia (1926); Enrico d’Assia (1927-1999), Ottone (1937-1998) ed Elisabetta
(1940).
Il 28 agosto del 1943, undici giorni prima della proclamazione dell'
armistizio dell' 8 settembre, giunse a Villa Savoia la notizia della misteriosa
morte di re Boris di Bulgaria, consorte di Giovanna di Savoia sorella di
Mafalda (pare sia stato fatto avvelenare da Hitler). Questa morte improvvisa in
un momento tanto delicato mise Vittorio Emanuele III in difficoltà. L'etichetta di corte imponeva che Casa Savoia fosse presente ai funerali, ma
muoversi da Roma alla vigilia dell' armistizio sarebbe stato rischioso. Alla fine fu deciso di mandare la sola
Mafalda: suo marito faceva parte dello
Stato Maggiore del Führer e suo figlio militava nella Wehrmacht. Qualunque cosa fosse accaduta si pensava che certamente i tedeschi l' avrebbero rispettata. Fu così
che mentre Roma ribolliva di complotti, Mafalda partì per Sofia. La
mattina
dell' 8 settembre, poche ore prima della proclamazione dell' armistizio,
Mafalda, a funerali conclusi, telefonò al genitore chiedendo il permesso di
tornare. «Torna pure» le rispose Vittorio Emanuele. La principessa di Savoia non fu messa al
corrente dell’armistizio e ne venne
informata soltanto a cose fatte alla stazione ferroviaria di Sinaia, in piena
notte, dalla Regina di Romania, mentre stava tornando in Italia. Tuttavia,
dimentica di sé, decise ugualmente di raggiungere Roma per ricongiungersi con i suoi figli e il marito che però a sua insaputa era stato imprigionato da Hitler in Germania; era convinta anche lei
che i tedeschi l’avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco. Con mezzi di fortuna, il 22 settembre raggiunse Roma e
scoprì che il re, la regina ed il fratello Umberto avevano lasciato la capitale.
Riuscì a rivedere, per l’ultima volta, i figli Enrico, Ottone ed Elisabetta e
Maurizio, custoditi da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI,
nel proprio appartamento.
La
Gestapo, che aveva aperto su di lei un vero e proprio Dossier, fece scattare
l’«Operazione Abeba»: cattura e deportazione di Mafalda di Savoia. Arrestata a Roma il 22 settembre 1943, venne
imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, fu poi trasferita a
Berlino ed infine deportata nel Lager di Buchenwald e rinchiusa nella baracca
n. 15, sotto il falso nome di Frau von Weber. Le venne vietato di rivelare la
propria identità e per scherno i nazisti la chiamavano Frau Abeba. Occupò una
baracca insieme all'ex deputato socialdemocratico Rudolf Breitscheid ed a
sua moglie, e le venne assegnata come badante la signora Maria Ruhnau, alla
quale Mafalda, in segno di riconoscenza, regalerà l’orologio che portava al polso. La
dura vita del campo, il poco cibo, che divideva con coloro che reputava
avessero più bisogno di lei ed il glaciale freddo invernale, deperirono
ulteriormente il già gracile e provato fisico di Mafalda.
Nell'agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager e la sua baracca
venne distrutta. La principessa
riportò gravissime ustioni e contusioni su tutto il corpo. Fu ricoverata nell'infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager, ma qui non
venne curata. Dopo quattro giorni di agonia, sopraggiunse la cancrena al
braccio sinistro che fu amputato con un interminabile e dissanguante intervento
chirurgico. Ancora addormentata, Mafalda venne riportata nel postribolo e
abbandonata, senza assistenza. Morì a 42
anni, il 28 agosto 1944. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo internato a Buchenwald dichiarò che Mafalda era stata
intenzionalmente operata in ritardo e l’intervento era il risultato di un
assassinio sanitario avvenuto per mano di Gerhard Schiedlausky (poi condannato a morte dal tribunale militare
di Amburgo e giustiziato per impiccagione nel 1948), come era già avvenuto per
altri casi, soprattutto quando si trattava di eliminare “personalità di
riguardo”.
La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico
dell’ordine degli Agostiniani non venne
cremata, ma messa in una cassa di legno
e sepolta sotto la dicitura: “262 eine unbekannte Frau”: donna sconosciuta.
Trascorsero alcuni mesi e sette marinai italiani, reduci dai lager nazisti,
trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.
Il destino la segnò crudelmente, ma il martirio di Buchenwald non fu altro che
l’epilogo di una vita spesa e protesa
verso il prossimo.
IL SUO DESTINO PASSO’ PER
L’ABRUZZO
Mafalda, come si è detto, si era recata a
Sofia per rappresentare Casa Savoia ai funerali di re Boris marito di sua
sorella Giovanna e sarebbe dovuta rientrare a Ciampino da dove era partita, ma a causa degli eventi, le fu
sconsigliato e il volo fu dirottato all'aeroporto di Pescara dove arrivò l’11
settembre a distanza di soli due giorni dal passaggio dei genitori e di tutta
la carovana di fuggitivi. Il comandante
dell’aeroporto di Pescara Marchetti le offrì la possibilità di raggiungere con un
aereo gli altri membri di Casa Savoia, ma lei rifiutò perché aveva nell'animo un solo desiderio quello di riunirsi al
più presto ai 4 figli rimasti a Roma. Sconsigliata a partire con altri mezzi a
causa della precarietà della situazione, ci si preoccupò di mantenere il più
possibile segreta la sua presenza nel timore di qualche ritorsione da parte dei
tedeschi. Marchetti la ospitò nella sua villa nell'agro di Silvi,
ma il conte Vigliano, accompagnatore ufficiale di Mafalda e il Generale Olmi,
di grande fede monarchica, che si trovava ancora a Chieti dopo lo scioglimento dell’esercito e che era corso
immediatamente all'aeroporto di Pescara alla notizia dell’arrivo di Mafalda, concordarono che fosse preferibile per la sua sicurezza che prendesse alloggio a Chieti nell'Hotel Sole dove poteva essere controllata e salvaguardata a dovere.
Mafalda
vi rimase nove giorni durante i quali fu confortata dall'affetto e solidarietà
di quanti la avvicinarono e ne apprezzarono il profondo aspetto umano. Anche
perché, secondo quanto documenta Manlio Masci nel suo libro “Savoia ultimo
giorno”, ella non si rinchiuse nella sua stanza, come le avevano suggerito, ma
usciva spesso soprattutto per recarsi nella vicina Chiesa della Trinità a pregare e, durante tali sortite, si fermava a parlare anche con la gente più umile verso la
quale si mostrò generosa. Appariva triste e preoccupata per la sorte dei quattro
figli che aveva lasciato a Roma, per
quella del marito che sapeva trovarsi nel Nord Italia e anche dei genitori e del fratello Umberto sul conto dei quali non
aveva riscontri precisi. Le autorità locali si diedero molto da fare per avere
informazioni attendibili in proposito. Quando finalmente le giunsero
rassicurazioni riguardo i bambini che si trovavano al sicuro in Vaticano,
Mafalda pianse a lungo di sollievo e di commozione e si recò in Chiesa per
ringraziare Dio.
Intanto si profilava il pericolo che i Tedeschi
assumessero il controllo di Chieti tanto
che il Prefetto ritenne prudente trasferire Mafalda dall'Hotel Sole alla
Prefettura dando disposizione al colonnello Massangioli di provvedere
ai pasti che la donna preferiva frugali e scarsi. Desiderava solo
ricongiungersi ai suoi figli e non
resisteva più dalla voglia di riabbracciarli per dare loro il conforto materno. Confidava nel suo cuore che, una volta a Roma, sarebbe stato facile
rintracciare suo marito il Principe d’Assia che, invece nel frattempo era stato
catturato dai Tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento. Per
raggiungere la capitale non le venne
dato il consenso di utilizzare le auto con gli autisti che erano state usate dai genitori che pure erano
parcheggiate in piazza. Ma Mafalda, dopo aver chiesto un prestito di 50 mila lire al Direttore della
Banca D’Italia, Raffaele Grilli, prese l’irremovibile decisione, a cui nessuno
riuscì a opporsi di recarsi in treno a Roma. La partenza avvenne la mattina
del 20 settembre in compagnia di alcuni addetti alla Casa Reale ai quali era
stato negato l’imbarco ad Ortona. Il viaggio, data la situazione di emergenza,
durò quasi venti ore, caratterizzato come fu da lunghe soste, in
mezzo alle montagne e da ripetuti allarmi terrestri e aerei. A Roma ebbe la grande gioia di ritrovare finalmente
i suoi figli e di riabbracciarli, ma
essa durò solo pochi giorni. I Tedeschi, ormai padroni della città, la
individuarono e le tesero il terribile tranello. Si compì così il suo destino.
Ricostruzione
storiografica d Elisabetta Mancinelli
I
documenti sono tratti dall'Archivio di Stato di Chieti e da: “Pescara e la
guerra” di Alfonso Di Russo.
Nessun commento:
Posta un commento